Загрузил Anna Kurtova

Biologia Alberts

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INDICE
PARTE 1
L’informazione genetica negli eucarioti
INTRODUZIONE ALLA CELLULA
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CAPITOLO 1
Cellule e genomi
2
Le caratteristiche universali delle cellule
sulla Terra
2
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La diversità dei genomi e l’albero della vita
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Tutte le cellule conservano la loro informazione
ereditaria nello stesso codice chimico lineare: il DNA
3
Tutte le cellule replicano la loro informazione ereditaria
mediante polimerizzazione su stampo
4
Tutte le cellule trascrivono porzioni della loro
informazione ereditaria nella stessa forma intermedia:
l’RNA
5
Tutte le cellule usano proteine come catalizzatori
6
Tutte le cellule traducono RNA in proteine allo stesso
modo
7
Ogni proteina è codificata da un gene specifico
8
La vita richiede energia libera
9
Tutte le cellule funzionano come fabbriche biochimiche
che utilizzano le stesse unità molecolari di base
9
Tutte le cellule sono racchiuse da una membrana
plasmatica attraverso la quale devono passare
i nutrienti e i materiali di rifiuto
10
Ci può essere una cellula vivente con meno
di 500 geni
10
SOMMARIO
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11
■
11
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■
Le cellule eucariotiche possono avere avuto origine
come predatori
Le cellule eucariotiche attuali si sono evolute
da una simbiosi
Gli eucarioti hanno genomi ibridi
I genomi eucariotici sono grandi
I genomi eucariotici sono ricchi di DNA regolatore
Il genoma definisce il programma dello sviluppo
pluricellulare
Molti eucarioti vivono come cellule solitarie
Un lievito serve da modello eucariotico minimo
I livelli di espressione di tutti i geni di un organismo
possono essere monitorati simultaneamente
L’Arabidopsis è stata scelta fra 300 000 specie come
modello di vegetale
Il mondo delle cellule animali è rappresentato
da un verme, da un moscerino, da un topo
e da un essere umano
Lo studio della Drosophila fornisce una chiave
per lo sviluppo dei vertebrati
Il genoma dei vertebrati è un prodotto di duplicazioni
ripetute
La rana e il pesce zebra forniscono modelli
per lo sviluppo dei vertebrati
Il topo è il principale organismo modello
per i mammiferi
Gli esseri umani manifestano le proprie peculiarità
Nei dettagli siamo tutti diversi
Per capire le cellule e gli organismi abbiamo bisogno
della matematica, di computer e di informazioni
quantitative
Le cellule possono essere alimentate da varie fonti
di energia libera
Alcune cellule fissano azoto e anidride carbonica
per le altre
La diversità biochimica maggiore si osserva
fra le cellule procariotiche
L’albero della vita ha tre ramificazioni principali:
i batteri, gli archei e gli eucarioti
Alcuni geni evolvono rapidamente, altri sono
altamente conservati
La maggior parte dei batteri e degli archei
ha 1000-6000 geni
Nuovi geni sono generati da geni preesistenti
Duplicazioni geniche danno origine a famiglie di geni
correlati all’interno di una singola cellula
I geni possono essere trasferiti fra organismi, sia in
laboratorio che in natura
Il sesso porta a scambi orizzontali di informazione
genetica all’interno di una specie
La funzione di un gene può spesso essere dedotta
dalla sua sequenza
Più di 200 famiglie di geni sono comuni a tutti
e tre i rami principali dell’albero della vita
Le mutazioni rivelano le funzioni dei geni
I biologi molecolari si sono concentrati su E. coli
21
22
23
La catalisi e l’uso di energia da parte delle cellule
SOMMARIO
24
■
12
12
14
15
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25
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33
33
34
35
36
36
36
38
39
39
SOMMARIO
40
PROBLEMI
40
BIBLIOGRAFIA
42
CAPITOLO 2
Chimica e bioenergetica della cellula
44
I componenti chimici di una cellula
44
17
18
■
19
■
■
■
19
■
21
■
21
■
L’acqua è tenuta insieme da legami idrogeno
Quattro tipi di interazioni non covalenti aiutano
a riunire tra loro le molecole nelle cellule
Alcune molecole polari in acqua formano acidi e basi
Una cellula è formata da composti del carbonio
Le cellule contengono quattro famiglie principali
di piccole molecole organiche
La chimica delle cellule è dominata
da macromolecole con proprietà notevoli
Legami non covalenti specificano sia la forma precisa
di una macromolecola che il suo legame con altre
molecole
SOMMARIO
Il metabolismo cellulare è organizzato da enzimi
45
45
46
48
48
49
50
51
52
52
INDICE
XVI
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L’ordine biologico è reso possibile dal rilascio
di energia sotto forma di calore dalle cellule
Le cellule ottengono energia dall’ossidazione
di molecole organiche
Ossidazione e riduzione comportano trasferimenti
di elettroni
Gli enzimi abbassano le barriere che bloccano
le reazioni chimiche
Gli enzimi possono dirigere le molecole di substrato
lungo vie specifiche di reazione
Il modo in cui gli enzimi trovano i loro substrati:
l’enorme rapidità dei movimenti molecolari
Il cambiamento in energia libera di una reazione, DG,
determina se essa può avvenire spontaneamente
La concentrazione dei reagenti influenza
il cambiamento di energia libera e la direzione
di una reazione
Il cambiamento di energia libera standard, DG°,
rende possibile la comparazione delle proprietà
energetiche di reazioni differenti
La costante di equilibrio e il DG° si ottengono
facilmente l’uno dall’altro
I cambiamenti di energia libera delle reazioni
accoppiate sono additivi
Le molecole trasportatrici attivate sono essenziali
per la biosintesi
La formazione di un trasportatore attivato
è accoppiata a una reazione energeticamente
favorevole
L’ATP è la molecola trasportatrice attivata più usata
L’energia conservata nell’ATP è spesso imbrigliata
per unire due molecole
NADH e NADPH sono importanti trasportatori
di elettroni
Nelle cellule ci sono molte altre molecole
trasportatrici attivate
La sintesi dei polimeri biologici richiede idrolisi di ATP
SOMMARIO
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53
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60
61
62
62
QUADRO 2.1
Legami e gruppi chimici incontrati comunemente
nelle molecole biologiche
QUADRO 2.2
L’acqua e la sua influenza sul comportamento delle
molecole biologiche
QUADRO 2.3
I tipi principali di legami non covalenti deboli che
tengono insieme le macromolecole
QUADRO 2.4
Alcuni tipi di zuccheri comunemente presenti
nelle cellule
QUADRO 2.5
Acidi grassi e altri lipidi
QUADRO 2.6
Una rassegna dei nucleotidi
QUADRO 2.7
Energia libera e reazioni biologiche
QUADRO 2.8
Dettagli dei 10 passaggi della glicolisi
QUADRO 2.9
Il ciclo completo dell’acido citrico
■
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■
La glicolisi è una via centrale che produce ATP
Le fermentazioni producono ATP in assenza
di ossigeno
La glicolisi illustra il modo in cui gli enzimi accoppiano
l’ossidazione alla conservazione dell’energia
Gli organismi conservano le molecole di cibo
in speciali depositi
Durante il digiuno la maggior parte delle cellule
animali trae l’energia dagli acidi grassi
Zuccheri e grassi sono entrambi degradati
ad acetil CoA nei mitocondri
Il ciclo dell’acido citrico genera NADH ossidando
gruppi acetilici a CO2
Il trasporto degli elettroni spinge la sintesi
della maggior parte dell’ATP in quasi tutte le cellule
Gli amminoacidi e i nucleotidi sono parte del ciclo
dell’azoto
Il metabolismo è altamente organizzato e regolato
96
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100
102
104
106
108
110
63
CAPITOLO 3
64
65
Le proteine
112
La forma e la struttura delle proteine
112
■
65
66
67
■
■
68
■
70
72
75
76
■
■
■
77
■
78
■
80
■
83
■
84
■
85
■
87
88
89
SOMMARIO
90
PROBLEMI
91
BIBLIOGRAFIA
92
La forma di una proteina è specificata dalla
sua sequenza di amminoacidi
Le proteine si ripiegano nella conformazione
con l’energia più bassa
QUADRO 3.1
I 20 amminoacidi che si trovano nelle proteine
Il modo in cui le cellule ottengono energia dal cibo 75
■
94
■
■
■
L’a elica e il foglietto b sono schemi comuni
di ripiegamento
I domini proteici sono unità modulari che
costituiscono le proteine più grandi
Poche delle molte catene polipeptidiche possibili
sono utili per le cellule
Le proteine possono essere classificate in molte
famiglie
Alcuni domini proteici formano parti di molte
proteine diverse
Certe coppie di domini si trovano insieme in molte
proteine
Il genoma umano codifica una serie complessa
di proteine, la funzione di molte delle quali
è sconosciuta
Le molecole proteiche più grandi spesso
contengono più di una catena polipeptidica
Alcune proteine globulari formano lunghi filamenti
elicoidali
Molte molecole proteiche hanno una forma
allungata fibrosa
Molte proteine contengono quantità
sorprendentemente grandi di catene polipeptidiche
non strutturate
Le proteine extracellulari spesso sono stabilizzate
da legami crociati covalenti
Le molecole proteiche spesso servono da subunità
per l’assemblaggio di grandi strutture
Molte strutture nelle cellule sono capaci di
autoassemblaggio
112
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131
131
132
INDICE
XVII
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■
■
■
■
La formazione di complesse strutture biologiche
è spesso aiutata da fattori di assemblaggio
Molte proteine possono formare fibrille amiloidi
Le strutture amiloidi possono svolgere funzioni utili
nelle cellule
Molte proteine contengono domini a bassa
complessità che possono formare strutture amiloidi
reversibili
SOMMARIO
Funzione delle proteine
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
Tutte le proteine si legano ad altre molecole
La conformazione della superficie di una proteina
ne determina la chimica
Il confronto delle sequenze fra membri di una
famiglia proteica evidenzia siti di legame cruciali
Le proteine si legano ad altre proteine tramite
diversi tipi di interfaccia
I siti di legame degli anticorpi sono particolarmente
versatili
La forza di legame è misurata dalla costante
di equilibrio
Gli enzimi sono catalizzatori potenti e altamente
specifici
Il legame del substrato è il primo passaggio
della catalisi enzimatica
Gli enzimi accelerano le reazioni stabilizzando
selettivamente gli stati di transizione
Gli enzimi possono usare simultaneamente catalisi
acida e basica
QUADRO 3.2
Alcuni dei metodi usati per studiare gli enzimi
■
■
■
■
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■
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■
■
■
■
Il lisozima illustra il modo in cui funziona un enzima
Piccole molecole strettamente legate aggiungono
ulteriori funzioni alle proteine
Complessi multienzimatici aiutano ad aumentare la
velocità del metabolismo cellulare
La cellula regola le attività catalitiche dei suoi enzimi
Gli enzimi allosterici hanno due o più siti di legame
che interagiscono
Due ligandi i cui siti di legame sono accoppiati
devono influenzare reciprocamente il loro attacco
Complessi simmetrici di proteine producono
transizioni allosteriche cooperative
Molti cambiamenti delle proteine sono indotti da
fosforilazione proteica
Una cellula eucariotica contiene numerose proteina
chinasi e proteina fosfatasi
La regolazione della proteina chinasi Src mostra
come una proteina possa funzionare da microchip
Proteine che legano e idrolizzano GTP sono
regolatori cellulari ubiquitari
Le proteine regolatrici GAP e GEF controllano
l’attività di proteine che legano GTP determinando
se è legato GTP o GDP
Le proteine possono essere regolate da un’aggiunta
covalente di altre proteine
Per contrassegnare le proteine viene usato
un elaborato sistema che coniuga molecole
di ubiquitina
Complessi proteici con parti intercambiabili fanno
un uso efficiente dell’informazione genetica
■
134
134
136
■
■
■
136
138
■
138
139
140
■
■
141
142
Una proteina che lega GTP mostra come possano
generarsi grandi movimenti di proteine
Motori proteici producono grandi movimenti
nelle cellule
Trasportatori legati a membrane imbrigliano energia
per pompare molecole attraverso le membrane
Le proteine spesso formano grandi complessi
che funzionano come macchine proteiche
Impalcature proteiche concentrano gruppi
di proteine che interagiscono tra loro
Molte proteine sono controllate da modificazioni
covalenti che le indirizzano in siti specifici all’interno
della cellula
Una rete complessa di interazioni fra proteine
è alla base del funzionamento della cellula
167
168
170
171
171
172
173
SOMMARIO
176
PROBLEMI
177
BIBLIOGRAFIA
179
142
143
PARTE 2
MECCANISMI GENETICI DI BASE
145
146
146
CAPITOLO 4
DNA, cromosomi e genomi
182
La struttura e la funzione del DNA
184
■
147
■
148
150
■
152
153
155
SOMMARIO
Il DNA cromosomico e il suo compattamento
nella fibra di cromatina
■
156
■
157
158
■
■
159
■
160
161
162
■
■
■
163
163
Una molecola di DNA consiste di due catene
complementari di nucleotidi
La struttura del DNA fornisce un meccanismo per
l’ereditarietà
Negli eucarioti il DNA è racchiuso in un nucleo
cellulare
■
Il DNA eucariotico è compattato in una serie di
cromosomi
I cromosomi contengono lunghe stringhe di geni
La sequenza nucleotidica del genoma umano mostra
come sono disposti i geni
Ogni molecola di DNA che forma un cromosoma
lineare deve contenere un centromero, due telomeri
e origini di replicazione
Le molecole di DNA sono altamente condensate
nei cromosomi
I nucleosomi sono l’unità base della struttura dei
cromosomi eucariotici
La struttura della particella centrale del nucleosoma
rivela il modo in cui il DNA è compattato
I nucleosomi hanno una struttura dinamica
e sono spesso soggetti a cambiamenti catalizzati
da complessi di rimodellamento della cromatina
dipendenti da ATP
I nucleosomi sono in genere impacchettati
in una fibra compatta di cromatina
SOMMARIO
165
La struttura e la funzione della cromatina
■
166
L’eterocromatina è altamente organizzata e limita
l’espressione genica
184
186
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188
188
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192
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200
201
203
203
204
INDICE
XVIII
■
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■
■
■
■
Lo stato eterocromatico si autopropaga
Gli istoni del nucleo sono modificati covalentemente
a livello di molti siti diversi
La cromatina acquisisce un’ulteriore variabilità tramite
l’inserzione sito-specifica di una piccola serie
di varianti istoniche
Le modificazioni covalenti e le varianti istoniche
agiscono in maniera concertata per controllare
le funzioni cromosomiche
Un complesso di proteine di lettura e di scrittura
del codice può diffondere modificazioni specifiche
della cromatina a grande distanza lungo
un cromosoma
Sequenze barriera di DNA bloccano la diffusione
dei complessi di lettura-scrittura separando così
domini adiacenti di cromatina
La cromatina dei centromeri rivela il modo in cui
le varianti istoniche possono creare strutture speciali
Alcune strutture della cromatina possono essere
ereditate direttamente
Esperimenti con embrioni di rana suggeriscono
che sia le strutture di cromatina attivanti che
quelle inattivanti possano essere ereditate
epigeneticamente
Le strutture della cromatina sono importanti per la
funzione dei cromosomi eucariotici
SOMMARIO
La struttura globale dei cromosomi
■
■
■
■
■
■
■
Il modo in cui evolvono i genomi
■
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■
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204
■
206
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207
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208
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211
■
■
212
212
■
215
■
216
■
Il confronto fra i genomi rivela sequenze funzionali
di DNA conservate durante l’evoluzione
Le alterazioni del genoma sono causate da errori
dei normali meccanismi di copiatura
e di mantenimento del DNA, nonché da elementi
di DNA trasponibili
Le sequenze dei genomi di due specie differiscono
in proporzione al tempo durante il quale si sono
evolute separatamente
Gli alberi filogenetici costruiti in base al confronto di
sequenze di DNA tracciano le relazioni fra tutti
gli organismi
Un confronto fra i cromosomi umani e quelli di topo
mostra come divergono le strutture dei genomi
Le dimensioni del genoma di un vertebrato
riflettono il ritmo relativo di aggiunta e perdita
di DNA in una linea evolutiva
È possibile ricostruire la sequenza di alcuni genomi
antichi
I confronti di sequenze fra specie multiple
identificano sequenze importanti di DNA a funzione
sconosciuta
Cambiamenti in sequenze precedentemente
conservate possono aiutare a decifrare passaggi
cruciali dell’evoluzione
Mutazioni nelle sequenze di DNA che controllano
l’espressione genica hanno determinato molti dei
cambiamenti evolutivi nei vertebrati
La duplicazione genica fornisce una fonte
importante di novità genetica durante l’evoluzione
I geni duplicati divergono
L’evoluzione della famiglia dei geni delle globine
mostra come duplicazioni del DNA contribuiscano
all’evoluzione degli organismi
Geni che codificano nuove proteine possono essere
creati dalla ricombinazione di esoni
Le mutazioni neutrali spesso si diffondono per
fissarsi
in una popolazione, con una probabilità che dipende
dalle dimensioni della popolazione
Dall’analisi della variazione fra gli esseri umani
si possono imparare molte cose
234
235
236
237
238
239
240
241
241
243
216
SOMMARIO
245
217
PROBLEMI
245
218
BIBLIOGRAFIA
147
I cromosomi sono ripiegati in grandi anse
di cromatina
218
I cromosomi politenici sono utili in quanto
permettono di visualizzare le strutture della cromatina 219
Esistono molteplici forme di cromatina
221
Le anse di cromatina si decondensano quando i geni
al loro interno vengono espressi
221
La cromatina si può spostare in siti specifici
all’interno del nucleo per alterare l’espressione
dei geni
222
Reti di macromolecole formano una serie
di ambienti biochimici distinti all’interno del nucleo
223
I cromosomi mitotici sono formati da cromatina
nel suo stato più condensato
225
SOMMARIO
■
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CAPITOLO 5
Replicazione, riparazione
e ricombinazione del DNA
249
Il mantenimento delle sequenze di DNA
249
■
■
SOMMARIO
Meccanismi di replicazione del DNA
■
226
■
226
■
227
■
■
228
■
229
■
■
229
■
231
■
233
Le frequenze di mutazione sono estremamente
basse
Basse frequenze di mutazione sono necessarie
per la vita così come la conosciamo
L’appaiamento delle basi è il fondamento della
replicazione e della riparazione del DNA
La forcella di replicazione del DNA è asimmetrica
L’alta fedeltà della replicazione del DNA richiede
parecchi meccanismi di correzione delle bozze
Soltanto la replicazione nella direzione 5’-3’
permette una correzione efficiente degli errori
Uno speciale enzima che polimerizza nucleotidi
sintetizza brevi molecole di RNA primer sul filamento
ritardato
Proteine speciali aiutano ad aprire la doppia elica
del DNA davanti alla forcella di replicazione
Un anello scorrevole trattiene una molecola
in movimento di DNA polimerasi sul DNA
Le proteine a livello di una forcella di replicazione
cooperano per formare una macchina di replicazione
Un sistema di riparazione delle basi male appaiate
diretto dal filamento rimuove gli errori di replicazione
che sfuggono alla macchina di replicazione
Le DNA topoisomerasi impediscono al DNA
di aggrovigliarsi durante la replicazione
249
250
251
251
251
253
254
256
257
258
259
261
262
263
INDICE
XIX
© 978-88-08-62126-9
■
La replicazione del DNA è fondamentalmente simile
negli eucarioti e nei batteri
264
SOMMARIO
266
L’inizio e il completamento della replicazione
del DNA nei cromosomi
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
La sintesi del DNA inizia a livello delle origini di
replicazione
I cromosomi batterici hanno in genere una singola
origine di replicazione del DNA
I cromosomi eucariotici contengono origini multiple
di replicazione
Negli eucarioti la replicazione del DNA avviene
soltanto durante una parte del ciclo cellulare
Regioni diverse dello stesso cromosoma si replicano
in momenti distinti della fase S
Un grande complesso multisubunità si lega
alle origini di replicazione degli eucarioti
Le caratteristiche del genoma umano che specificano
le origini di replicazione sono ancora da identificare
Nuovi nucleosomi sono assemblati dietro la forcella
di replicazione
La telomerasi replica le estremità dei cromosomi
Le telomerasi sono compattate in strutture
specializzate che proteggono le estremità
dei cromosomi
La lunghezza dei telomeri è regolata da cellule e
organismi
SOMMARIO
La riparazione del DNA
■
■
■
■
■
■
■
■
Senza la riparazione del DNA il danno spontaneo
al DNA cambierebbe rapidamente le sequenze
La doppia elica del DNA viene prontamente riparata
Il danno al DNA può essere rimosso mediante più
di una via
L’accoppiamento della riparazione per escissione
dei nucleotidi alla trascrizione assicura che il DNA
più importante per la cellula venga riparato in modo
efficiente
La chimica delle basi del DNA facilita
il riconoscimento del danno
Speciali DNA polimerasi translesione sono usate per
riparare il DNA in situazioni di emergenza
Le rotture a doppio filamento sono riparate in modo
efficiente
Il danno al DNA ritarda la progressione del ciclo
cellulare
SOMMARIO
La ricombinazione omologa
■
■
■
■
■
La ricombinazione omologa ha caratteristiche
comuni
in tutte le cellule
La ricombinazione omologa è guidata
dall’appaiamento delle basi del DNA
La ricombinazione omologa può riparare
perfettamente le rotture a doppio filamento
nel DNA
Lo scambio di filamento è effettuato dalla proteina
RecA/Rad51
La ricombinazione omologa può ripristinare forcelle
di replicazione con DNA spezzato
■
■
■
267
■
267
■
268
■
269
272
■
■
272
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273
■
■
276
278
■
■
279
280
■
280
283
283
■
■
285
286
286
289
298
300
SOMMARIO
302
Trasposizione e ricombinazione sitospecifica
conservativa
272
274
276
Le cellule regolano attentamente l’uso della
ricombinazione omologa nella riparazione del DNA
La ricombinazione omologa è cruciale per la meiosi
La ricombinazione meiotica inizia con una rottura a
doppio filamento programmabile
Le giunzioni di Holliday si formano durante la meiosi
La ricombinazione omologa durante la meiosi
produce sia crossing over che non crossing over
La ricombinazione omologa spesso porta a
conversione genica
Tramite la trasposizione gli elementi genetici mobili
si possono inserire in qualunque sequenza di DNA
I trasposoni a solo DNA si possono muovere
mediante un meccanismo di taglia e cuci
Alcuni virus usano un meccanismo di trasposizione
per spostarsi nei cromosomi della cellula ospite
I retrotrasposoni similretrovirali assomigliano
ai retrovirus, ma sono privi di un rivestimento
proteico
Una grande frazione del genoma umano è composta
da retrotrasposoni non retrovirali
Elementi trasponibili diversi predominano in
organismi diversi
Le sequenze dei genomi rivelano i tempi
approssimativi in cui gli elementi trasponibili
si sono mossi
La ricombinazione sito-specifica conservativa può
riarrangiare reversibilmente il DNA
La ricombinazione sito-specifica conservativa
può essere usata per accendere e spegnere i geni
Ricombinasi batteriche conservative sito-specifiche
sono diventate uno strumento potente per i biologi
che studiano le cellule e lo sviluppo
300
302
303
304
304
306
307
307
308
308
308
309
310
SOMMARIO
310
PROBLEMI
311
BIBLIOGRAFIA
314
CAPITOLO 6
Il modo in cui le cellule leggono
il genoma: dal DNA alle proteine
Da DNA a RNA
290
■
291
■
291
■
■
292
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292
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■
293
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293
■
295
295
297
Le molecole di RNA sono a singolo filamento
La trascrizione produce RNA complementare
a un filamento di DNA
La trascrizione è eseguita dalle RNA polimerasi
Le cellule producono parecchi tipi di RNA
Segnali codificati nel DNA indicano alla
RNA polimerasi dove iniziare e dove fermarsi
I segnali di inizio e di terminazione della trascrizione
hanno sequenze nucleotidiche eterogenee
L’inizio della trascrizione negli eucarioti richiede
molte proteine
L’RNA polimerasi II richiede i fattori generali
di trascrizione
La polimerasi II richiede anche proteine attivatrici,
mediatrici e di modificazione della cromatina
315
317
317
320
320
321
322
324
326
327
329
INDICE
XX
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
L’allungamento della trascrizione negli eucarioti
richiede proteine accessorie
La trascrizione genera tensione
di superavvolgimento
L’allungamento della trascrizione negli eucarioti è
strettamente accoppiato alla maturazione dell’RNA
L’aggiunta del cappuccio all’RNA è la prima
modificazione dei pre-mRNA eucariotici
Lo splicing dell’RNA rimuove sequenze introniche
dai pre-mRNA appena trascritti
Sequenze nucleotidiche segnalano dove deve
avvenire lo splicing
Lo splicing dell’RNA è eseguito dallo spliceosoma
Lo spliceosoma usa l’idrolisi di ATP per produrre
una serie complessa di riarrangiamenti RNA-RNA
Altre proprietà del pre-mRNA e della sua sintesi
aiutano a spiegare come sono scelti i siti corretti
di splicing
La struttura della cromatina influisce sullo splicing
dell’RNA
Lo splicing dell’RNA mostra una notevole plasticità
Lo splicing dell’RNA catalizzato dallo spliceosoma
si è probabilmente evoluto da meccanismi
di autosplicing
Enzimi di modificazione dell’RNA generano
l’estremità 3’ degli mRNA eucariotici
Gli mRNA eucariotici maturi sono esportati
selettivamente dal nucleo
Anche gli RNA non codificanti sono sintetizzati
e modificati nel nucleo
Il nucleolo è una fabbrica che produce ribosomi
Il nucleo contiene vari aggregati subnucleari
SOMMARIO
Da RNA a proteine
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
Una sequenza di mRNA viene decodificata in serie
di tre nucleotidi
Molecole di tRNA appaiano gli amminoacidi ai codoni
dell’mRNA
I tRNA sono modificati covalentemente prima
di uscire dal nucleo
Enzimi specifici accoppiano ciascun amminoacido
alla molecola appropriata di tRNA
Un controllo da parte delle tRNA sintetasi assicura
accuratezza
Gli amminoacidi sono aggiunti all’estremità
C-terminale di una catena polipeptidica in crescita
Il messaggio dell’RNA è decodificato nei ribosomi
I fattori di allungamento spingono in avanti
la traduzione e ne migliorano l’accuratezza
Molti processi biologici risolvono le limitazioni
intrinseche dell’appaiamento di basi complementari
L’accuratezza della traduzione richiede il consumo
di energia libera
Il ribosoma è un ribozima
Sequenze nucleotidiche nell’mRNA segnalano dove
iniziare la sintesi proteica
I codoni di stop segnano la fine della traduzione
Le proteine sono prodotte su poliribosomi
Nel codice genetico standard esistono piccole
variazioni
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■
330
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330
■
331
■
334
■
334
335
336
■
■
■
338
■
338
340
340
SOMMARIO
Il mondo a RNA e le origini della vita
■
■
341
■
■
342
343
345
347
348
Gli inibitori della sintesi proteica procariotica sono
utili come antibiotici
Meccanismi di controllo di qualità operano
per impedire la traduzione di mRNA danneggiati
Alcune proteine iniziano a ripiegarsi mentre vengono
sintetizzate
Chaperoni molecolari aiutano a guidare
il ripiegamento di molte proteine
Le cellule utilizzano diversi tipi di chaperoni
Regioni idrofobiche esposte forniscono segnali
cruciali per il controllo di qualità delle proteine
Il proteasoma è una proteasi compartimentata
con siti attivi sequestrati
Molte proteine sono controllate mediante
distruzione regolata
Ci sono molti passaggi da DNA a proteine
Le molecole di RNA a singolo filamento possono
ripiegarsi in strutture altamente elaborate
L’RNA può sia conservare informazioni che catalizzare
reazioni chimiche
In che modo si è evoluta la sintesi proteica?
Tutte le cellule attuali usano DNA come materiale
ereditario
370
370
372
374
374
376
377
379
380
381
382
383
384
385
385
SOMMARIO
386
PROBLEMI
386
BIBLIOGRAFIA
388
CAPITOLO 7
350
Controllo dell’espressione genica
389
351
Una visione d’insieme del controllo dei geni
389
■
351
■
352
■
354
■
354
I diversi tipi cellulari di un organismo pluricellulare
contengono lo stesso DNA
Tipi cellulari diversi sintetizzano gruppi diversi di RNA
e proteine
Una cellula può cambiare l’espressione dei suoi geni
in risposta a segnali esterni
L’espressione genica può essere regolata a livello
di molti passaggi della via DNA-RNA-proteine
SOMMARIO
356
357
358
361
363
364
364
366
367
368
368
Il controllo della trascrizione mediante
proteine che legano il DNA su sequenze
specifiche
■
■
La sequenza di nucleotidi della doppia elica del DNA
può essere letta da proteine
I regolatori trascrizionali contengono motivi
strutturali che possono leggere sequenze di DNA
QUADRO 7.1
Motivi strutturali comuni nei regolatori
trascrizionali
■
■
■
389
391
392
392
393
393
394
394
396
La dimerizzazione dei regolatori trascrizionali
398
aumenta la loro affinità e specificità per il DNA
I regolatori trascrizionali si legano cooperativamente
398
al DNA
La struttura basata sui nucleosomi favorisce il legame
399
cooperativo dei regolatori trascrizionali
SOMMARIO
400
INDICE
XXI
© 978-88-08-62126-9
I regolatori trascrizionali accendono
e spengono i geni
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
Il repressore del triptofano spegne alcuni geni
I repressori spengono i geni e gli attivatori
li accendono
Un attivatore e un repressore controllano
l’operone Lac
Durante la regolazione genica nei batteri possono
formarsi anse di DNA
Interruttori complessi controllano la trascrizione
dei geni negli eucarioti
Una regione regolatrice eucariotica consiste
di un promotore e di varie sequenze cis-regolatrici
I regolatori trascrizionali eucariotici agiscono in gruppi
Le proteine attivatrici promuovono l’assemblaggio
dell’RNA polimerasi in corrispondenza del punto
di inizio della trascrizione
Gli attivatori trascrizionali eucariotici dirigono la
modificazione della struttura locale della cromatina
Gli attivatori trascrizionali possono promuovere la
trascrizione rilasciando l’RNA polimerasi
dai promotori
Gli attivatori della trascrizione agiscono
sinergicamente
I repressori trascrizionali eucariotici possono inibire
la trascrizione in vari modi
Gli isolatori sono sequenze di DNA che impediscono
ai regolatori trascrizionali eucariotici di influenzare
geni distanti
SOMMARIO
I meccanismi genetici molecolari che creano
e mantengono tipi cellulari specializzati
■
■
■
■
■
■
■
■
■
Interruttori genetici complessi che regolano
lo sviluppo di Drosophila sono costruiti a partire
da moduli più piccoli
Il gene Eve di Drosophila è regolato da controlli
combinatori
I regolatori trascrizionali sono messi in moto
da segnali extracellulari
Il controllo combinatorio dei geni crea molti tipi
cellulari diversi negli eucarioti
Tipi cellulari specializzati possono essere
sperimentalmente riprogrammati per diventare delle
cellule staminali pluripotenti
Le combinazioni di regolatori trascrizionali master
specificano i tipi cellulari controllando l’espressione
di molti geni
Le cellule specializzate devono rapidamente
accendere e spegnere gruppi di geni
Le cellule differenziate mantengono la loro identità
Circuiti di trascrizione permettono alla cellula
di eseguire operazioni logiche
SOMMARIO
I meccanismi che rinforzano la memoria
cellulare nelle piante e negli animali
■
■
■
Lo schema di metilazione del DNA può essere
ereditato quando le cellule dei vertebrati si dividono
Isole ricche di CG sono associate a molti geni nei
mammiferi
L’imprinting genomico si basa sulla metilazione
del DNA
■
401
401
■
402
Alterazioni su scala cromosomica della struttura
431
della cromatina possono essere ereditate
Meccanismi epigenetici assicurano che schemi
stabili di espressione genica possano essere trasmessi
433
alle cellule figlie
SOMMARIO
403
Controlli post-trascrizionali
■
404
404
405
406
■
■
■
407
■
407
■
409
410
410
■
■
■
■
412
413
413
■
■
■
413
■
415
L’attenuazione della trascrizione provoca
la terminazione prematura di alcune molecole
di RNA
I ribointerruttori potrebbero rappresentare forme
antiche di controllo dei geni
Lo splicing alternativo dell’RNA può produrre forme
diverse di una proteina dallo stesso gene
La definizione di gene è stata modificata in seguito
alla scoperta dello splicing alternativo dell’RNA
Un cambiamento nel sito di taglio del trascritto
di RNA e di aggiunta del poli-A può modificare
il C-terminale di una proteina
L’editing dell’RNA può cambiare il significato del
messaggio dell’RNA
Il trasporto dell’RNA dal nucleo può essere regolato
Alcuni mRNA sono localizzati in regioni specifiche
del citosol
Le regioni non tradotte 5’ e 3’ degli mRNA
ne controllano la traduzione
La fosforilazione di un fattore di inizio regola in modo
globale la sintesi proteica
L’inizio a livello dei codoni AUG a monte dell’inizio
della traduzione può regolare l’inizio della traduzione
negli eucarioti
Siti interni di ingresso dei ribosomi forniscono
opportunità per il controllo della traduzione
L’espressione dei geni può essere controllata da un
cambiamento nella stabilità dell’mRNA
La regolazione della stabilità dell’mRNA coinvolge
P-body e granuli da stress
SOMMARIO
416
417
Regolazione dell’espressione genica con RNA
non codificanti
■
419
■
420
■
421
421
■
■
423
424
425
■
■
■
425
427
429
Piccoli trascritti di RNA non codificante regolano
molti geni degli animali e delle piante attraverso il
processo di interferenza da RNA (RNA interference)
I miRNA regolano la traduzione e la stabilità
dell’mRNA
L’interferenza da RNA è utilizzata anche come
meccanismo di difesa cellulare
L’interferenza da RNA può dirigere la formazione
di eterocromatina
I piRNA proteggono la linea germinale dagli elementi
trasponibili
L’interferenza da RNA è diventata un potente
strumento sperimentale
I batteri utilizzano dei piccoli RNA non codificanti
per proteggersi dai virus
I lunghi RNA non codificanti hanno varie funzioni
nella cellula
435
435
435
436
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439
439
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442
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451
452
452
452
454
455
455
457
457
458
SOMMARIO
460
PROBLEMI
460
BIBLIOGRAFIA
462
INDICE
XXII
© 978-88-08-62126-9
PARTE 3
■
METODI DI LAVORO CON LE CELLULE
■
CAPITOLO 8
Analisi di cellule, molecole e sistemi
Isolamento delle cellule e loro crescita
in coltura
■
■
■
■
■
■
■
■
■
467
467
SOMMARIO
472
Le cellule possono essere separate nelle frazioni che
le compongono
Gli estratti cellulari forniscono sistemi accessibili per
studiare le funzioni della cellula
Le proteine possono essere separate mediante
cromatografia
L’immunoprecipitazione è un metodo rapido di
purificazione per affinità
Etichette ingegnerizzate geneticamente
rappresentano un modo facile di purificare
le proteine
Sistemi acellulari purificati sono necessari per l’analisi
precisa delle funzioni molecolari
SOMMARIO
Analisi delle proteine
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
Le proteine possono essere separate mediante
elettroforesi su gel di poliacrilammide in SDS
L’elettroforesi bidimensionale su gel permette una
separazione maggiore delle proteine
Proteine specifiche possono essere rivelate
mediante blot con anticorpi specifici
Misurazioni idrodinamiche rivelano le dimensioni
e la forma di un complesso proteico
La spettrometria di massa è un metodo
altamente sensibile per identificare proteine
sconosciute
Alcune serie di proteine interagenti possono essere
identificate con metodi biochimici
Le interazioni fra proteine possono essere
monitorate con metodi ottici
La funzione delle proteine può essere inibita
selettivamente con piccole molecole
La diffrazione ai raggi X può rivelare la struttura
di una proteina
La NMR può essere usata per determinare la
struttura delle proteine in soluzione
La sequenza e la struttura di una proteina forniscono
indizi sulla sua funzione
SOMMARIO
Analisi e manipolazione del DNA
■
■
466
Le cellule possono essere isolate da tessuti intatti
Le cellule possono essere fatte crescere in coltura
Le linee cellulari eucariotiche sono una fonte molto
usata di cellule omogenee
Le linee cellulari di ibridoma sono fabbriche che
producono anticorpi monoclonali
Purificazione delle proteine
■
466
Le nucleasi di restrizione tagliano in frammenti
specifici grosse molecole di DNA
L’elettroforesi su gel separa molecole di DNA di
dimensioni diverse
469
471
472
472
475
475
■
■
■
■
■
■
QUADRO 8.1
Metodi di sequenziamento del DNA
■
■
479
480
■
482
■
483
■
483
■
485
■
486
■
487
■
488
■
489
■
■
491
493
501
503
504
506
513
514
QUADRO 8.2
Ripasso di genetica classica
■
492
500
La genetica classica inizia interrompendo
un processo cellulare mediante mutagenesi
casuale
■
479
491
498
514
■
490
498
Studio dell’espressione e della funzione
dei geni
479
479
495
496
Per essere utili le sequenze genomiche devono
essere annotate
510
Il clonaggio del DNA permette di produrre in grande
quantità qualunque proteina
511
SOMMARIO
478
478
Molecole purificate di DNA possono essere marcate
specificamente con radioisotopi o marcatori chimici
in vitro
I geni possono essere clonati utilizzando i batteri
Un intero genoma può essere rappresentato in una
libreria di DNA
Librerie genomiche e di cDNA hanno vantaggi
e svantaggi differenti
L’ibridazione rappresenta un modo potente
ma semplice per rintracciare specifiche sequenze
nucleotidiche
I geni possono essere clonati in vitro utilizzando
la PCR
La PCR è utilizzata anche per applicazioni
diagnostiche e forensi
Sia il DNA sia l’RNA possono essere sequenziati
rapidamente
■
Screening genetici identificano mutanti con
anomalie specifiche
Le mutazioni possono provocare perdita
o guadagno della funzione della proteina
Un test di complementazione rivela se due mutazioni
sono nello stesso gene o in geni diversi
I prodotti genici possono essere ordinati in vie
mediante analisi dell’epistasi
Le mutazioni responsabili di un fenotipo possono
essere identificate mediante l’analisi del DNA
Il sequenziamento rapido ed economico del DNA
ha rivoluzionato gli studi genetici sull’uomo
Blocchi collegati di polimorfismi ci sono stati
trasmessi dai nostri antenati
I polimorfismi possono servire nella ricerca
delle mutazioni associate alle malattie
La genomica sta accelerando la scoperta di
mutazioni rare che ci predispongono a malattie
gravi
La genetica inversa inizia con un gene noto
e determina quali processi cellulari richiedono
la sua funzione
Animali e piante possono essere alterati
geneticamente
Il sistema batterico CRISPR è stato adattato
per modificare i genomi in un’ampia varietà
di specie
Ampie serie di mutazioni ingegnerizzate forniscono
uno strumento per esaminare la funzione di ciascun
gene in un organismo
515
517
518
519
519
520
521
521
522
523
523
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527
INDICE
XXIII
© 978-88-08-62126-9
■
■
■
■
■
■
■
■
■
L’interferenza da RNA è un sistema semplice e rapido
per saggiare la funzione di un gene
I geni reporter rivelano quando e dove un gene
è espresso
L’ibridazione in situ può rivelare la localizzazione
di mRNA e di RNA non codificanti
L’espressione di singoli geni può essere misurata
usando la RT-PCR quantitativa
L’analisi degli mRNA con i microarray o con
l’RNA-seq fornisce un’istantanea dell’espressione
genica
L’immunoprecipitazione della cromatina su scala
genomica identifica i siti del genoma occupati da
regolatori trascrizionali
La determinazione del profilo ribosomiale rivela quali
mRNA vengono tradotti nella cellula
I metodi del DNA ricombinante hanno rivoluzionato
il modo di curare le malattie
Le piante transgeniche sono importanti per
l’agricoltura
SOMMARIO
Analisi matematica delle funzioni cellulari
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
Le reti regolatrici dipendono da interazioni
molecolari
Le equazioni differenziali ci aiutano a prevedere
comportamenti transitori
Sia l’attività del promotore, sia la degradazione della
proteina influenzano la velocità di cambiamento
della concentrazione proteica
Il tempo necessario per raggiungere lo stato
stazionario dipende dalla vita media della proteina
I metodi quantitativi sono simili per i repressori
e per gli attivatori della trascrizione
Il feedback negativo è una strategia potente nella
regolazione cellulare
Un feedback negativo ritardato può indurre delle
oscillazioni
Il legame al DNA a opera di un repressore o di un
attivatore può essere cooperativo
Il feedback positivo è importante per le risposte a
interruttore e per la bistabilità
La robustezza è un’importante caratteristica delle
reti biologiche
Due regolatori trascrizionali che si legano al
promotore dello stesso gene possono esercitare un
controllo combinatorio
Un’interazione a feed-forward incoerente genera
impulsi
Un’interazione a feed-forward coerente permette
di rilevare segnali di ingresso persistenti
La stessa rete di vie biochimiche può comportarsi
in modo differente in cellule diverse a causa di effetti
stocastici
Molti approcci computazionali possono essere
utilizzati per creare modelli delle reazioni
in una cellula
I metodi statistici sono cruciali per l’analisi dei dati
biologici
CAPITOLO 9
529
530
Visualizzazione delle cellule
Osservazione delle cellule al microscopio ottico 562
■
532
■
532
■
533
534
536
536
537
538
■
■
■
■
■
■
539
■
540
■
542
■
543
■
545
545
■
545
■
547
■
Il microscopio ottico può risolvere dettagli separati
da 0,2 mm
Quando i livelli di luce sono bassi il rumore dei
fotoni crea ulteriori limiti alla risoluzione
Le cellule viventi si vedono chiaramente
con un microscopio a contrasto di fase o a contrasto
di interferenza differenziale
Le immagini possono essere migliorate e analizzate
con tecniche digitali
I tessuti intatti vengono fissati e sezionati per la
microscopia
Molecole specifiche possono essere localizzate nelle
cellule con la microscopia a fluorescenza
Gli anticorpi possono essere usati per rivelare
molecole specifiche
La visualizzazione di oggetti tridimensionali
complessi è possibile con il microscopio ottico
Il microscopio confocale produce sezioni ottiche
escludendo la luce fuori fuoco
Singole proteine possono essere etichettate con
composti fluorescenti in cellule e organismi viventi
La dinamica delle proteine può essere seguita
in cellule viventi
Concentrazioni ioniche intracellulari che cambiano
rapidamente possono essere misurate con indicatori
che emettono luce
Singole molecole possono essere visualizzate
usando la microscopia a fluorescenza a riflessione
interna totale
Singole molecole possono essere toccate, visualizzate
e spostate con il microscopio a forza atomica
Tecniche di fluorescenza a super-risoluzione
possono superare i limiti dovuti alla diffrazione
La super-risoluzione può essere ottenuta anche
usando metodi di localizzazione a singola molecola
SOMMARIO
548
549
562
Osservazione di cellule e molecole
al microscopio elettronico
563
565
566
567
568
569
572
573
573
575
576
579
581
581
583
585
586
587
556
Il microscopio elettronico risolve la struttura fine
della cellula
I campioni biologici richiedono una preparazione
speciale per il microscopio elettronico
Macromolecole specifiche possono essere
localizzate mediante microscopia elettronica
immunogold
Immagini differenti di un singolo oggetto possono
essere combinate per ottenere una ricostruzione
tridimensionale
Immagini di superfici possono essere ottenute
mediante microscopia elettronica a scansione
La colorazione negativa e la microscopia
crioelettronica permettono di visualizzare
macromolecole ad alta risoluzione
Più immagini possono essere combinate
per aumentare la risoluzione
557
SOMMARIO
597
PROBLEMI
557
PROBLEMI
597
BIBLIOGRAFIA
560
BIBLIOGRAFIA
598
SOMMARIO
■
551
■
552
■
553
■
554
■
555
■
556
■
587
589
590
591
592
595
596
INDICE
XXIV
© 978-88-08-62126-9
PARTE 4
■
L’ORGANIZZAZIONE INTERNA DELLA CELLULA
■
CAPITOLO 10
La struttura della membrana
602
Il doppio strato lipidico
603
■
■
■
■
■
■
■
■
Fosfogliceridi, sfingolipidi e steroli sono i lipidi
principali delle membrane cellulari
I fosfolipidi formano spontaneamente doppi strati
Il doppio strato lipidico è un fluido bidimensionale
La fluidità di un doppio strato lipidico dipende
dalla sua composizione
Nonostante la loro fluidità, i doppi strati lipidici
possono formare domini con composizione diversa
Le goccioline lipidiche sono circondate da un
monostrato fosfolipidico
L’asimmetria del doppio strato lipidico
è importante dal punto di vista funzionale
I glicolipidi si trovano sulla superficie di tutte
le membrane plasmatiche eucariotiche
SOMMARIO
Le proteine di membrana
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
Le proteine di membrana possono essere associate al
doppio strato lipidico in vari modi
Le ancore lipidiche controllano la localizzazione di
membrana di alcune proteine di segnalazione
Nella maggior parte delle proteine transmembrana
la catena polipeptidica attraversa il doppio strato
lipidico in una conformazione ad a elica
Le a eliche transmembrana spesso interagiscono
fra loro
Alcuni barili b formano grossi canali transmembrana
Molte proteine di membrana sono glicosilate
Le proteine di membrana possono essere solubilizzate
e purificate in detergenti
La batteriorodopsina è una pompa protonica (H+)
alimentata dalla luce che attraversa il doppio strato
lipidico con sette a eliche
Le proteine di membrana spesso esercitano la loro
funzione sotto forma di grossi complessi
Molte proteine di membrana diffondono nel piano
della membrana
Le cellule possono confinare proteine e lipidi
in domini specifici all’interno di una membrana
Il citoscheletro corticale conferisce forza meccanica
alle membrane e limita la diffusione delle proteine
di membrana
Le proteine che piegano la membrana deformano
il doppio strato
614
Il trasporto attivo può essere spinto da gradienti
ionici
I trasportatori nella membrana plasmatica regolano
il pH citosolico
Una distribuzione asimmetrica di trasportatori
nelle cellule epiteliali è alla base del trasporto
transcellulare di soluti
Ci sono tre classi di pompe spinte da ATP
Una pompa ATPasi di tipo P pompa Ca2+ nel reticolo
sarcoplasmatico delle cellule muscolari
La pompa Na+-K+ di tipo P della membrana
plasmatica stabilisce il gradiente di Na+ attraverso
la membrana plasmatica
I trasportatori ABC costituiscono la più grande
famiglia di proteine di trasporto di membrana
614
SOMMARIO
608
610
■
■
610
■
611
612
614
615
■
I canali ionici e le proprietà elettriche delle
membrane
■
■
617
618
619
620
621
■
■
625
627
627
628
630
632
PROBLEMI
634
635
■
■
■
■
■
■
■
Il trasporto di membrana di piccole
molecole e le proprietà elettriche
delle membrane
637
I principi del trasporto di membrana
638
■
638
Le acquaporine sono permeabili all’acqua ma
impermeabili agli ioni
I canali ionici sono selettivi per gli ioni e oscillano
fra stati aperti e chiusi
Il potenziale di membrana nelle cellule animali
dipende soprattutto dai canali che perdono K+
(K+ leak channel) e dal gradiente di K+ attraverso la
membrana plasmatica
QUADRO 11.1
La derivazione dell’equazione di Nernst
■
633
I doppi strati lipidici privi di proteine sono altamente
impermeabili agli ioni
■
■
CAPITOLO 11
■
SOMMARIO
Trasportatori e trasporto attivo di membrana
■
603
605
607
SOMMARIO
BIBLIOGRAFIA
Ci sono due classi principali di proteine di trasporto
di membrana: trasportatori e canali
Il trasporto attivo è mediato da trasportatori
accoppiati a una fonte di energia
■
Il potenziale a riposo decade lentamente soltanto
quando si ferma la pompa Na+-K+
La struttura tridimensionale di un canale per il K+
batterico mostra come può funzionare un canale
ionico
Canali sensibili a forze meccaniche proteggono
le cellule batteriche da pressioni osmotiche estreme
La funzione di una cellula nervosa dipende dalla sua
struttura allungata
I canali cationici regolati da voltaggio generano
potenziali d’azione nelle cellule eccitabili
elettricamente
L’utilizzo delle canalrodopsine ha rivoluzionato
lo studio dei circuiti neuronali
La mielinizzazione aumenta la velocità e l’efficienza
della propagazione del potenziale d’azione
nelle cellule nervose
Le registrazioni a patch-clamp indicano che singoli
canali ionici si aprono in una modalità tutto o nulla
I canali cationici regolati da voltaggio sono correlati
evolutivamente e strutturalmente
Tipi diversi di neuroni mostrano caratteristiche
proprietà stabili nella generazione di potenziali
d’azione
I canali ionici regolati da trasmettitore convertono
segnali chimici in segnali elettrici a livello delle sinapsi
chimiche
638
639
640
641
642
645
645
646
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661
661
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667
667
669
669
670
INDICE
XXV
© 978-88-08-62126-9
■
■
■
■
■
■
■
■
Le sinapsi chimiche possono essere eccitatorie o
inibitorie
I recettori dell’acetilcolina a livello della giunzione
neuromuscolare sono canali cationici eccitatori
regolati da trasmettitori
I neuroni contengono molti tipi di canali regolati da
trasmettitori
Molti farmaci psicoattivi agiscono a livello delle sinapsi
La trasmissione neuromuscolare comporta
l’attivazione sequenziale di cinque serie diverse di
canali ionici
I singoli neuroni sono complessi dispositivi di
elaborazione dei dati
L’elaborazione neuronale richiede una combinazione
di almeno tre tipi di canali del K+
Il potenziamento a lungo termine (LTP)
nell’ippocampo dei mammiferi dipende dall’ingresso
di Ca2+ attraverso i canali dei recettori NMDA
■
671
■
672
■
674
674
■
675
676
677
■
679
PROBLEMI
682
■
BIBLIOGRAFIA
683
■
■
685
685
■
685
■
■
■
SOMMARIO
Il trasporto di molecole fra il nucleo e il citosol
■
■
■
■
■
■
■
I complessi dei pori nucleari attraversano l’involucro
nucleare
I segnali di localizzazione nucleare dirigono le
proteine nucleari nel nucleo
I recettori di importazione nucleare legano sia segnali
di localizzazione che proteine dell’NPC
L’esportazione dal nucleo funziona come
l’importazione nucleare, ma alla rovescia
La GTPasi Ran conferisce direzionalità al trasporto
attraverso gli NPC
Il trasporto attraverso gli NPC può essere regolato
controllando l’accesso al macchinario di trasporto
L’involucro nucleare si disassembla durante la mitosi
SOMMARIO
Il trasporto di proteine nei mitocondri
e nei cloroplasti
■
■
I perossisomi usano ossigeno molecolare e acqua
ossigenata per svolgere reazioni ossidative
Una breve sequenza segnale dirige l’importazione
di proteine nei perossisomi
SOMMARIO
La compartimentazione delle cellule
■
687
■
689
691
■
692
693
■
693
■
694
■
694
696
■
697
■
698
■
699
701
■
702
703
La traslocazione nei mitocondri dipende da sequenze
segnale e da proteine traslocatrici
704
I precursori delle proteine mitocondriali sono
importati come catene polipeptidiche non ripiegate 705
710
712
Compartimenti intracellulari
e smistamento delle proteine
■
708
I perossisomi
Il reticolo endoplasmatico
Tutte le cellule eucariotiche hanno la stessa serie di
base di organelli racchiusi da membrane
Le origini evolutive spiegano le relazioni topologiche
degli organelli racchiusi da membrana
Le proteine si possono muovere fra i compartimenti
in modi diversi
Sequenze segnale e recettori di smistamento dirigono
le proteine verso il corretto indirizzo cellulare
La maggior parte degli organelli non può essere
costruita dal nulla: sono necessarie informazioni
presenti nell’organello preesistente
707
711
■
CAPITOLO 12
706
SOMMARIO
681
SOMMARIO
■
L’idrolisi di ATP e un potenziale di membrana
sono usati per spingere l’importazione delle proteine
nei mitocondri
I batteri e i mitocondri usano meccanismi simili per
inserire porine nella loro membrana esterna
Il trasporto di proteine nella membrana mitocondriale
interna e nello spazio intermembrana avviene tramite
diverse vie
Due sequenze segnale dirigono le proteine
alla membrana tilacoidale dei cloroplasti
■
Il reticolo endoplasmatico è strutturalmente
e funzionalmente diversificato
Le sequenze segnale sono state scoperte per la prima
volta in proteine importate nel RE ruvido
Una particella di riconoscimento del segnale (SRP)
dirige le sequenze segnale del RE a un recettore
specifico nella membrana del RE ruvido
La catena polipeptidica passa attraverso un poro
acquoso nel traslocatore
La traslocazione attraverso la membrana del RE
non richiede sempre che la catena polipeptidica
si stia allungando
Nelle proteine transmembrana a singolo passaggio,
una singola sequenza segnale interna del RE rimane
nel doppio strato lipidico come a elica che attraversa
la membrana
Combinazioni di segnali di inizio e di stop del
trasferimento determinano la topologia delle
proteine transmembrana a passaggi multipli
Le proteine ancorate al reticolo endoplasmatico
mediante la coda sono integrate nella membrana
del RE da un meccanismo speciale
Le catene polipeptidiche traslocate si ripiegano
e si assemblano nel lume del RE ruvido
La maggior parte delle proteine sintetizzate nel
RE ruvido viene glicosilata per aggiunta di un
oligosaccaride comune legato al gruppo NH2 della
catena laterale di un’asparagina
Gli oligosaccaridi sono usati come etichette per
indicare lo stato di ripiegamento delle proteine
Le proteine ripiegate in modo inappropriato sono
esportate dal RE e degradate nel citosol
Le proteine ripiegate male nel RE attivano una
risposta alle proteine non ripiegate
Alcune proteine di membrana acquisiscono
un’àncora di glicosilfosfatidilinositolo (GPI) attaccata
covalentemente
La maggior parte dei doppi strati lipidici è assemblata
nel RE
712
713
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715
715
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723
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729
731
732
733
735
735
SOMMARIO
738
PROBLEMI
738
BIBLIOGRAFIA
740
INDICE
XXVI
© 978-88-08-62126-9
CAPITOLO 13
Traffico intracellulare di membrana
I meccanismi molecolari del trasporto di
membrana e il mantenimento della diversità
dei compartimenti
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
Esistono vari tipi di vescicole rivestite
L’assemblaggio di un rivestimento di clatrina
determina la formazione della vescicola
Le proteine adattatrici selezionano il cargo dentro
le vescicole rivestite di clatrina
I fosfoinositidi agiscono come marcatori di organelli
e domini di membrana
Le proteine che piegano la membrana contribuiscono
a deformare la membrana durante la formazione
della vescicola
Sia il distacco che la perdita del rivestimento
delle vescicole rivestite sono regolati da proteine
citoplasmatiche
GTPasi monomeriche controllano l’assemblaggio
del rivestimento
Non tutte le vescicole di trasporto sono sferiche
Le proteine Rab guidano le vescicole di trasporto
verso la loro membrana bersaglio
Le cascate di Rab possono cambiare l’identità
di un organello
Le SNARE mediano la fusione delle membrane
Le SNARE che interagiscono devono essere separate
prima di poter funzionare di nuovo
SOMMARIO
Il trasporto dal RE attraverso l’apparato
del Golgi
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
Le proteine lasciano il RE in vescicole di trasporto
rivestite di COPII
Soltanto le proteine che sono ripiegate e assemblate
correttamente possono lasciare il RE
Il trasporto dal RE all’apparato del Golgi è mediato
da gruppi vescicolari tubulari
La via di recupero verso il RE usa segnali di
smistamento
Molte proteine sono trattenute selettivamente nei
compartimenti in cui agiscono
L’apparato del Golgi è costituito da una serie ordinata
di compartimenti
Le catene degli oligosaccaridi sono processate
nell’apparato del Golgi
I proteoglicani sono assemblati nell’apparato
del Golgi
Qual è lo scopo della glicosilazione?
Il trasporto attraverso l’apparato del Golgi può
avvenire per maturazione delle cisterne
Le proteine della matrice del Golgi aiutano a
organizzare la pila
SOMMARIO
Il trasporto dal reticolo del trans-Golgi
ai lisosomi
■
■
■
■
742
■
■
744
■
744
745
■
SOMMARIO
746
747
Il trasporto nella cellula dalla membrana
plasmatica: endocitosi
■
748
749
749
752
■
■
■
■
753
■
755
755
■
■
757
758
■
760
760
762
Il trasporto dal reticolo del trans-Golgi
all’esterno della cellula: esocitosi
■
■
■
763
■
763
765
■
766
768
■
769
■
770
771
771
I lisosomi sono i siti principali di digestione
771
intracellulare
I lisosomi sono eterogenei
772
I vacuoli dei vegetali e dei funghi sono lisosomi molto
773
versatili
Le vescicole pinocitiche si formano da fosse rivestite
nella membrana plasmatica
Non tutte le vescicole pinocitiche sono rivestite di
clatrina
Le cellule importano macromolecole extracellulari
selezionate tramite endocitosi mediata da recettore
Proteine specifiche sono rimosse dagli endosomi
precoci e riportate alla membrana plasmatica
I recettori della segnalazione sulla membrana
plasmatica sono sotto-regolati dalla degradazione
nei lisosomi
Gli endosomi precoci maturano in endosomi tardivi
I complessi proteici ESCRT mediano la formazione
delle vescicole intraluminali nei corpi multivescicolari
Gli endosomi di recupero regolano la composizione
della membrana plasmatica
Cellule fagocitiche specializzate possono ingerire
grosse particelle
SOMMARIO
758
759
Vie multiple portano materiali ai lisosomi
L’autofagia degrada proteine e organelli indesiderati
Un recettore del mannosio 6-fosfato smista le idrolasi
lisosomiali nel reticolo del trans-Golgi
Negli esseri umani i difetti nella GlcNAc
fosfotrasferasi causano una malattia da deposito
lisosomiale
Alcuni lisosomi e alcuni corpi multivescicolari possono
subire esocitosi
■
■
Molte proteine e molti lipidi sono trasportati
automaticamente dal reticolo del trans-Golgi (TGN)
alla superficie della cellula
Le vescicole secretorie gemmano dal reticolo del
trans-Golgi
I precursori delle proteine secretorie sono spesso
processati proteoliticamente durante la formazione
delle vescicole secretorie
Le vescicole secretorie restano in attesa vicino alla
membrana plasmatica fino a che non ricevono il
segnale per rilasciare il loro contenuto
Per l’esocitosi rapida le vescicole sinaptiche
sono pronte a livello della membrana plasmatica
presinaptica
Le vescicole sinaptiche si possono formare
direttamente dalle vescicole endocitiche
I componenti della membrana della vescicola
secretoria sono rimossi rapidamente dalla membrana
plasmatica
Alcuni eventi di esocitosi regolata servono
a ingrandire la membrana plasmatica
Le cellule polarizzate dirigono le proteine dal
reticolo del trans-Golgi al dominio appropriato della
membrana plasmatica
774
774
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795
796
797
799
SOMMARIO
800
PROBLEMI
801
BIBLIOGRAFIA
802
INDICE
XXVII
© 978-88-08-62126-9
CAPITOLO 14
■
Conversione dell’energia: mitocondri
e cloroplasti
804
Il mitocondrio
806
■
■
■
■
■
■
Il mitocondrio ha una membrana esterna e una
membrana interna
Le creste della membrana interna contengono il
macchinario per il trasporto degli elettroni e per la
sintesi dell’ATP
Il ciclo dell’acido citrico nella matrice produce NADH
Il mitocondrio ha molti ruoli essenziali nel
metabolismo cellulare
Un processo chemiosmotico accoppia l’energia di
ossidazione alla produzione di ATP
L’energia derivata dall’ossidazione è conservata
come gradiente elettrochimico
SOMMARIO
Le pompe protoniche della catena di trasporto
degli elettroni
■
■
Il potenziale redox è una misura dell’affinità per gli
elettroni
I trasferimenti di elettroni rilasciano grandi quantità
di energia
QUADRO 14.1
Potenziali redox
■
■
■
■
■
■
■
Gli ioni dei metalli di transizione e i chinoni accettano
e rilasciano facilmente gli elettroni
NADH trasferisce i suoi elettroni all’ossigeno
attraverso tre grandi complessi enzimatici immersi
nella membrana interna
Il complesso della NADH deidrogenasi contiene dei
moduli separati per il trasporto degli elettroni e per
pompare i protoni
La citocromo c reduttasi prende i protoni e li rilascia
sul lato opposto della membrana della cresta,
pompando così i protoni
Il complesso della citocromo c ossidasi pompa i
protoni e riduce O2 utilizzando un centro catalitico
ferro-zolfo
La catena respiratoria forma un supercomplesso nella
membrana della cresta
I protoni si possono muovere rapidamente attraverso
le proteine lungo vie predefinite
SOMMARIO
La produzione di ATP nei mitocondri
■
■
■
■
■
■
Un alto valore negativo di DG per l’idrolisi di ATP
rende l’ATP utile alla cellula
L’ATP sintasi è una nanomacchina che produce ATP
attraverso una catalisi rotatoria
Le turbine spinte dai protoni hanno un’origine antica
Le creste mitocondriali aiutano a rendere efficiente la
sintesi di ATP
Speciali proteine di trasporto scambiano ATP e ADP
attraverso la membrana interna
I meccanismi chemiosmotici sono comparsi per la
prima volta nei batteri
SOMMARIO
Cloroplasti e fotosintesi
■
I cloroplasti assomigliano ai mitocondri ma hanno
un compartimento tilacoidale separato
■
■
808
■
809
809
810
812
812
814
■
■
■
■
■
814
■
814
■
815
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■
817
■
818
820
821
■
■
■
SOMMARIO
821
824
I sistemi genetici dei mitocondri
e dei cloroplasti
■
825
826
■
826
826
828
829
■
■
■
830
831
832
834
■
■
■
834
■
834
I cloroplasti catturano energia dalla luce solare
e la usano per fissare il carbonio
La fissazione del carbonio utilizza ATP e NADPH
per convertire CO2 in zuccheri
Gli zuccheri generati dalla fissazione del carbonio
sono immagazzinati come amido o sono consumati
per produrre ATP
Le membrane tilacoidali dei cloroplasti contengono
i complessi proteici necessari per la fotosintesi
e per la produzione di ATP
I complessi clorofilla-proteina possono trasferire sia
l’energia di eccitazione sia gli elettroni
Un fotosistema è formato da un complesso antenna
e da un centro di reazione
La membrana del tilacoide contiene due diversi
fotosistemi che operano in serie
Il fotosistema II usa un gruppo manganese per
rimuovere gli elettroni dall’acqua
Il complesso del citocromo b6-f collega il fotosistema
II al fotosistema I
Il fotosistema I effettua il secondo passaggio di
separazione della carica nello schema Z
L’ATP sintasi del cloroplasto usa il gradiente protonico
formato dalle reazioni fotosintetiche della luce per
produrre ATP
Tutti i centri di reazione fotosintetici si sono evoluti
da un antenato comune
La forza motrice protonica per la produzione
di ATP nei mitocondri e nei cloroplasti è
sostanzialmente la stessa
I meccanismi chemiosmotici si sono evoluti
per fasi
I batteri fotosintetici, fornendo una fonte
inesauribile di potere riducente, superarono uno
degli ostacoli principali dell’evoluzione
Le catene fotosintetiche di trasporto degli elettroni
dei cianobatteri producevano ossigeno atmosferico
permettendo nuove forme di vita
I sistemi genetici dei mitocondri e dei cloroplasti
assomigliano a quelli dei procarioti
Con il tempo i mitocondri e i cloroplasti hanno
esportato la maggior parte dei loro geni nel nucleo
attraverso il trasferimento genico
La scissione e la fusione dei mitocondri sono processi
topologicamente complessi
I mitocondri animali contengono i sistemi genetici
noti più semplici
I mitocondri presentano un uso leggermente
ridondante dei codoni e possono mostrare lievi
differenze del codice genetico
Tra i cloroplasti e i batteri esistono molte somiglianze
impressionanti
I geni degli organelli sono ereditati per via materna
negli animali e nelle piante
Mutazioni nel DNA mitocondriale possono causare
gravi malattie ereditarie
L’accumulo di mutazioni nel DNA mitocondriale
contribuisce all’invecchiamento
835
836
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838
839
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857
859
860
861
861
INDICE
XXVIII
■
© 978-88-08-62126-9
Perché i mitocondri e i cloroplasti mantengono un
dispendioso sistema separato per la trascrizione
del DNA e per la traduzione?
862
SOMMARIO
862
PROBLEMI
862
BIBLIOGRAFIA
■
864
CAPITOLO 15
866
Principi della segnalazione cellulare
866
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
I segnali extracellulari possono agire su distanze
brevi e lunghe
Le molecole di segnalazione extracellulari si legano
a recettori specifici
Ciascuna cellula è programmata per rispondere
a combinazioni specifiche di segnali extracellulari
Ci sono tre classi principali di recettori proteici di
superficie
I recettori di superficie trasmettono segnali tramite
molecole di segnalazione intracellulari
I segnali intracellulari devono essere specifici e precisi
in un citoplasma con molto rumore di fondo
A livello dei recettori attivati si formano dei complessi
di segnalazione intracellulare
Le interazioni fra proteine di segnalazione
intracellulare sono mediate da domini di legame
modulari
Il rapporto tra segnale e risposta varia nelle diverse
vie di segnalazione
La velocità di una risposta dipende dal turnover
delle molecole di segnalazione
Le cellule possono rispondere in modo brusco
a un segnale che aumenta gradualmente
I feedback positivi possono generare risposte
“tutto o nulla”
Il feedback negativo è comune nei sistemi di
segnalazione
Le cellule possono regolare la loro sensibilità a un
segnale
SOMMARIO
Segnalazione tramite recettori accoppiati
a proteine G
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
Le proteine G trimeriche trasmettono segnali
derivanti dai GPCR
Alcune proteine G regolano la produzione
di AMP ciclico
La proteina chinasi dipendente da AMP ciclico (PKA)
media la maggior parte degli effetti dell’AMP ciclico
Alcune proteine G comunicano attraverso i fosfolipidi
Il Ca2+ ha la funzione di mediatore intracellulare
ubiquitario
Il feedback genera onde e oscillazioni del Ca2+
Proteine chinasi dipendenti da Ca2+/calmodulina
mediano molte delle risposte ai segnali del Ca2+
Alcune proteine G regolano direttamente canali ionici
Olfatto e vista dipendono da GPCR che regolano
canali ionici
L’ossido nitrico è un mediatore gassoso della
segnalazione che passa tra le cellule
SOMMARIO
Segnalazione tramite recettori accoppiati
a enzimi
■
Segnalazione cellulare
■
■
868
869
869
871
872
I segnali sono amplificati da secondi messaggeri
e da cascate enzimatiche
La desensibilizzazione dei GPCR dipende dalla
fosforilazione del recettore
■
■
■
■
■
■
874
■
875
■
875
■
877
■
879
■
880
■
882
■
883
I recettori tirosina chinasi (RTK) attivati fosforilano
se stessi
Le tirosine fosforilate sugli RTK fungono da siti
di attracco per le proteine di segnalazione
intracellulari
Le proteine con domini SH2 si legano a tirosine
fosforilate
La GTPasi Ras media la segnalazione proveniente
dalla maggior parte degli RTK
Ras attiva un modulo di segnalazione della MAP
chinasi
Proteine impalcatura aiutano a impedire interferenze
tra moduli paralleli di MAP chinasi
I recettori presenti sulla superficie cellulare sono
collegati funzionalmente al citoscheletro da GTPasi
della famiglia Rho
La PI 3-chinasi produce siti di attracco per lipidi
nella membrana plasmatica
La via di segnalazione PI 3-chinasi-Akt stimola
le cellule animali a sopravvivere e a crescere
RTK e GPCR attivano vie di segnalazione che si
sovrappongono
Alcuni recettori accoppiati a enzimi sono associati
a tirosina chinasi citoplasmatiche
I recettori delle citochine attivano la via di
segnalazione JAK-STAT
Proteine tirosina fosfatasi specifiche eliminano le
fosforilazioni in tirosina
Le proteine segnale della superfamiglia del TGFb
agiscono tramite recettori serina/treonina chinasi e
Smad
SOMMARIO
884
885
Vie di segnalazione alternative
nella regolazione genica
■
886
■
886
■
888
■
889
890
892
893
■
■
■
894
896
Il recettore Notch è una proteina latente che regola
la trascrizione
Le proteine Wnt si legano a recettori Frizzled e
inibiscono la degradazione della b-catenina
Le proteine Hedgehog si legano a Patched,
rimuovendo la sua inibizione su Smoothened
Molti stimoli infiammatori e di stress agiscono tramite
una via di segnalazione dipendente da NFkB
I recettori nucleari sono regolatori trascrizionali
modulati da ligando
Gli orologi circadiani contengono circuiti a feedback
negativo che controllano l’espressione genica
Tre proteine in una provetta possono ricostituire
l’orologio circadiano di un cianobatterio
SOMMARIO
Segnalazione nei vegetali
898
901
■
Pluricellularità e comunicazione cellulare si sono
evolute in modo indipendente nei vegetali e negli
animali
902
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904
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933
934
935
936
936
INDICE
XXIX
© 978-88-08-62126-9
■
■
■
■
I recettori serina/treonina chinasi sono la classe più
grande di recettori di superficie nei vegetali
L’etilene blocca la degradazione di specifiche
proteine che regolano la trascrizione nel nucleo
Il posizionamento regolato dei trasportatori
di auxina modella la crescita vegetale
I fitocromi rilevano la luce rossa e i criptocromi
la luce blu
940
SOMMARIO
941
PROBLEMI
942
BIBLIOGRAFIA
■
937
SOMMARIO
937
938
944
CAPITOLO 16
946
Funzione e origine del citoscheletro
946
I filamenti citoscheletrici si adattano per formare
strutture dinamiche o stabili
QUADRO 16.1
I tre tipi principali di filamenti proteici che formano
il citoscheletro
■
■
■
■
Il citoscheletro determina l’organizzazione e la
polarità cellulari
I filamenti si assemblano a partire da subunità
proteiche che conferiscono specifiche proprietà
fisiche e dinamiche
I filamenti del citoscheletro sono regolati da proteine
accessorie e da proteine motrici
L’organizzazione e la divisione delle cellule batteriche
dipendono da proteine omologhe a quelle che
costituiscono il citoscheletro degli eucarioti
SOMMARIO
LÕactina e le proteine che legano lÕactina
■
■
Le subunità di actina si assemblano testa-coda,
creando filamenti flessibili e polari
La nucleazione è il passaggio limitante nella
formazione dei filamenti di actina
QUADRO 16.2
La polimerizzazione di actina e tubulina
■
■
■
■
■
I filamenti di actina hanno due estremità distinte e
crescono a velocità diverse
L’idrolisi dell’ATP nei filamenti di actina porta il
treadmilling allo stato stazionario
Le funzioni dei filamenti di actina sono inibite sia
dalle sostanze chimiche che stabilizzano il polimero
sia da quelle che lo destabilizzano
Le proteine che legano l’actina influenzano le
dinamiche e l’organizzazione del filamento
La disponibilità dei monomeri controlla
l’assemblaggio del filamento di actina
QUADRO 16.3
I filamenti di actina
■
■
■
■
I fattori che nucleano l’actina accelerano la
polimerizzazione e formano filamenti ramificati o diritti
Le proteine che legano il filamento di actina alterano
le dinamiche del filamento
Proteine che tagliano i filamenti regolano la
depolimerizzazione dei filamenti di actina
Complessi di ordine superiore di filamenti di actina
influenzano le proprietà meccaniche cellulari e la
segnalazione
Miosina e actina
■
■
■
■
■
Il citoscheletro
■
I batteri possono sequestrare il citoscheletro di actina
dell’ospite
971
947
■
■
950
■
952
■
■
953
958
960
■
■
■
■
■
■
■
962
962
978
981
981
I filamenti intermedi e le septine
■
964
■
966
■
967
■
985
985
986
988
989
990
991
Le proteine che legano le estremità più dei
microtubuli ne regolano la dinamica e la stabilità
992
Le proteine che sequestrano la tubulina e che
tagliano i microtubuli destabilizzano i microtubuli
994
Ci sono due tipi di proteine motrici che si muovono
lungo i microtubuli
994
I microtubuli e i motori muovono gli organelli
e le vescicole
997
La costruzione di assemblaggi complessi di
microtubuli richiede la dinamica dei microtubuli
e le proteine motrici
999
Ciglia e flagelli mobili sono costituiti da microtubuli
e dineine
1000
Le ciglia primarie svolgono importanti funzioni di
segnalazione nelle cellule animali
1002
SOMMARIO
963
968
I microtubuli sono tubi cavi formati
da protofilamenti
I microtubuli sono sottoposti a instabilità dinamica
Le funzioni dei microtubuli sono inibite sia da farmaci
che stabilizzano il polimero sia da farmaci che lo
destabilizzano
I microtubuli sono nucleati da un complesso proteico
che contiene g-tubulina
Nelle cellule animali i microtubuli si estendono dal
centrosoma
Le proteine che legano i microtubuli regolano
l’organizzazione e la dinamica dei filamenti
QUADRO 16.4
I microtubuli
960
961
974
984
949
957
973
I microtubuli
■
956
972
983
948
955
972
SOMMARIO
■
955
Le proteine motrici basate su actina sono membri
della superfamiglia della miosina
La miosina genera forza accoppiando l’idrolisi di ATP
a cambiamenti conformazionali
Lo scivolamento della miosina II lungo i filamenti
di actina causa la contrazione muscolare
La contrazione muscolare inizia con un improvviso
aumento della concentrazione citosolica di Ca2+
Il muscolo cardiaco è una macchina di alta
ingegneria
Actina e miosina svolgono molte funzioni nelle
cellule non muscolari
971
La struttura dei filamenti intermedi dipende
dalla formazione di fasci laterali e dall’avvolgimento
a spirale
I filamenti intermedi conferiscono stabilità
meccanica alle cellule animali
Le proteine linker connettono i filamenti del
citoscheletro e costituiscono un ponte con
l’involucro nucleare
Le septine formano filamenti che regolano
la polarità cellulare
SOMMARIO
1003
1003
1004
1005
1008
1009
1010
INDICE
XXX
La polarizzazione cellulare
e la migrazione
■
■
■
■
■
■
■
■
Molte cellule possono strisciare su un substrato
solido
La protrusione della membrana plasmatica è spinta
dalla polimerizzazione dell’actina
I lamellipodi contengono tutto il macchinario
necessario per la motilità cellulare
La contrazione della miosina e l’adesione
cellulare permettono alle cellule di spingersi
in avanti
La polarizzazione cellulare è controllata da membri
della famiglia di proteine Rho
Segnali extracellulari possono attivare i tre membri
della famiglia di proteine Rho
Segnali esterni possono determinare la direzione
della migrazione cellulare
La comunicazione tra gli elementi del citoscheletro
coordina la polarizzazione e la locomozione
dell’intera cellula
© 978-88-08-62126-9
La mitosi
1010
1010
1011
■
1012
■
■
1014
■
1016
■
1018
■
1018
■
■
1019
SOMMARIO
1020
PROBLEMI
1020
BIBLIOGRAFIA
1022
Una panoramica sul ciclo cellulare
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
1025
■
1028
La fase S
■
■
SOMMARIO
SOMMARIO
■
■
1025
Il sistema di controllo del ciclo cellulare innesca
gli eventi principali del ciclo cellulare
Il sistema di controllo del ciclo cellulare dipende
da proteina chinasi dipendenti da ciclina (Cdk)
attivate ciclicamente
L’attività della Cdk può essere soppressa sia dalla
fosforilazione inibitrice che da proteine
Cdk inibitrici (CKI)
La proteolisi regolata attiva la transizione
da metafase ad anafase
Il controllo del ciclo cellulare dipende anche dalla
regolazione trascrizionale
Il sistema di controllo del ciclo cellulare funziona
come una rete di interruttori biochimici
S-Cdk inizia la replicazione del DNA una volta
per ciclo
La duplicazione dei cromosomi richiede la
duplicazione della struttura della cromatina
Le coesine aiutano a mantenere uniti
i cromatidi fratelli
SOMMARIO
■
1024
Il ciclo cellulare eucariotico si divide in quattro fasi
Il controllo del ciclo cellulare è simile in tutti gli
eucarioti
La progressione del ciclo cellulare può essere
studiata in vari modi
Il sistema di controllo del ciclo cellulare
■
■
CAPITOLO 17
Il ciclo cellulare
■
1027
1027
■
■
1028
La defosforilazione attiva M-Cdk all’inizio
della mitosi
Le condensine aiutano a configurare i cromosomi
duplicati in vista della separazione
Il fuso mitotico è una macchina basata
su microtubuli
Motori proteici dipendenti dai microtubuli
governano l’assemblaggio e la funzione del fuso
Molteplici meccanismi collaborano all’assemblaggio
di un fuso mitotico bipolare
La duplicazione dei centrosomi avviene
precocemente durante il ciclo cellulare
M-Cdk inizia l’assemblaggio del fuso nella profase
Nelle cellule animali il completamento
dell’assemblaggio del fuso richiede la demolizione
dell’involucro nucleare
L’instabilità dei microtubuli aumenta
molto durante la mitosi
I cromosomi mitotici promuovono l’assemblaggio di
fusi bipolari
I cinetocori attaccano i cromatidi fratelli al fuso
Il biorientamento si ottiene per tentativi ed errori
Varie forze spostano i cromosomi sul fuso
APC/C determina la separazione dei cromatidi
fratelli e il completamento della mitosi
I cromosomi non attaccati bloccano la separazione
dei cromatidi fratelli: il punto di controllo
dell’assemblaggio del fuso
I cromosomi segregano nell’anafase A e B
I cromosomi segregati sono introdotti
nei nuclei figli in telofase
SOMMARIO
La citochinesi
1028
1030
■
■
■
1031
1032
1033
1034
1035
■
■
■
■
■
1035
Actina e miosina II nell’anello contrattile generano
la forza per la citochinesi
L’attivazione locale di RhoA innesca l’assemblaggio
e la contrazione dell’anello contrattile
I microtubuli del fuso mitotico determinano il piano
della divisione delle cellule animali
Il fragmoplasto guida la citochinesi nelle piante
superiori
Gli organelli racchiusi da membrana devono essere
distribuiti alle cellule figlie durante la citochinesi
Alcune cellule riposizionano il loro fuso
per dividersi asimmetricamente
La mitosi può avvenire senza citochinesi
La fase G1 è uno stato stabile di inattività di Cdk
SOMMARIO
La meiosi
1036
1038
1038
1039
1039
QUADRO 17.1
Gli stadi principali della fase M (mitosi e citochinesi)
in una cellula animale
1040
■ M-Cdk induce l’ingresso in mitosi
1042
■
■
■
La meiosi comprende due cicli di segregazione dei
cromosomi
Gli omologhi duplicati si appaiano durante
la profase meiotica
L’appaiamento degli omologhi termina con la
formazione di un complesso sinaptonemale
1042
1043
1044
1045
1046
1046
1047
1047
1048
1048
1049
1051
1053
1054
1056
1056
1057
1058
1058
1059
1060
1061
1063
1063
1064
1064
1065
1067
1067
1067
1069
1069
INDICE
XXXI
© 978-88-08-62126-9
■
■
■
La segregazione degli omologhi dipende da molte
caratteristiche peculiari della meiosi I
Il crossing over è strettamente regolato
La meiosi spesso non ha successo
1070
1072
1073
SOMMARIO
1073
Il controllo della divisione cellulare
e della crescita cellulare
■
■
■
■
■
■
■
■
I mitogeni stimolano la divisione cellulare
Le cellule possono entrare in uno stato specializzato
di non divisione
I mitogeni stimolano le attività di G1-Cdk e G1/S-Cdk
Il danno al DNA blocca la divisione cellulare: la
risposta al danneggiamento del DNA
In molte cellule umane c’è un limite innato
al numero delle volte che si possono dividere
Nelle cellule non cancerose segnali anormali di
proliferazione causano l’arresto del ciclo cellulare
o la morte per apoptosi
La proliferazione cellulare è accompagnata dalla
crescita della cellula
Le cellule proliferanti di solito coordinano
crescita e divisione
■
1073
1074
■
■
■
■
■
■
■
■
■
1079
■
1079
■
1080
■
1081
■
1082
1082
BIBLIOGRAFIA
1083
■
■
■
1085
■
1086
1087
1088
1089
1091
1092
1094
1095
1095
1097
PROBLEMI
1097
1099
SOMMARIO
■
■
■
■
■
■
■
PARTE 5
■
LE CELLULE NEL LORO CONTESTO SOCIALE
■
■
CAPITOLO 19
Giunzioni cellulari e matrice
extracellulare
1102
Le giunzioni cellula-cellula
1104
■
Le caderine costituiscono una famiglia diversa di
molecole di adesione
1105
Le caderine mediano l’adesione omofilica
L’adesione cellula-cellula dipendente
dalle caderine guida l’organizzazione dei tessuti
in via di sviluppo
Le transizioni epiteliali-mesenchimali dipendono
dal controllo delle caderine
Le catenine collegano le caderine classiche al
citoscheletro di actina
Le giunzioni aderenti rispondono alle forze generate
dall’actina citoscheletrica
Il rimodellamento tissutale dipende dalla
coordinazione della contrazione mediata dall’actina
con l’adesione cellula-cellula
I desmosomi conferiscono resistenza meccanica
agli epiteli
Le giunzioni strette formano un sigillo
tra le cellule e una barriera tra i domini
delle membrane plasmatiche
Le giunzioni strette contengono filamenti
di proteine di adesione transmembrana
Proteine impalcatura organizzano i complessi
delle proteine giunzionali
Le giunzioni gap accoppiano le cellule sia
elettricamente che metabolicamente
Un connessone di giunzione gap è composto
da sei subunità transmembrana di connessine
Nei vegetali i plasmodesmi svolgono molte
funzioni analoghe a quelle delle giunzioni gap
Le selectine mediano le adesioni transitorie
cellula-cellula nel torrente circolatorio
Membri della superfamiglia delle immunoglobuline
mediano l’adesione cellula-cellula indipendente
da Ca2+
La matrice extracellulare dei tessuti connettivi
animali
■
SOMMARIO
BIBLIOGRAFIA
■
1077
PROBLEMI
La morte cellulare programmata elimina cellule
indesiderate
L’apoptosi dipende da una cascata proteolitica
intracellulare mediata da caspasi
Recettori di morte della superficie cellulare
attivano la via estrinseca dell’apoptosi
La via intrinseca dell’apoptosi dipende
dai mitocondri
Le proteine Bcl2 regolano la via intrinseca
dell’apoptosi
Gli IAP sono coinvolti nel controllo delle caspasi
I fattori di sopravvivenza extracellulari inibiscono
l’apoptosi in vari modi
I fagociti rimuovono la cellula apoptotica
Un’eccessiva o una insufficiente apoptosi possono
contribuire a determinare malattie
■
■
CAPITOLO 18
■
■
1075
1075
SOMMARIO
La morte cellulare
■
■
■
■
La matrice extracellulare è prodotta e orientata
dalle cellule al suo interno
Catene di glicosamminoglicano (GAG) occupano
grandi quantità di spazio e formano gel idratati
Lo ialuronano svolge la funzione di riempitivo
durante la morfogenesi e la riparazione dei tessuti
I proteoglicani sono composti da catene di GAG
unite covalentemente a un nucleo proteico
I collageni sono le proteine principali della matrice
extracellulare
Collageni associati alle fibrille secrete aiutano a
organizzarle
Le cellule aiutano a organizzare le fibrille di collagene
che secernono, esercitando tensione sulla matrice
L’elastina conferisce ai tessuti la loro elasticità
La fibronectina e altre glicoproteine multidominio
aiutano a organizzare la matrice
La fibronectina si lega alle integrine
La tensione esercitata dalle cellule regola
l’assemblaggio delle fibrille di fibronectina
La lamina basale è una forma specializzata
di matrice extracellulare
La laminina e il collagene di tipo IV sono
i componenti principali della lamina basale
Le lamine basali hanno funzioni diverse
1106
1106
1108
1109
1109
1111
1112
1114
1115
1117
1118
1119
1120
1121
1123
1124
1124
1125
1125
1126
1127
1129
1131
1132
1133
1134
1135
1136
1137
1138
1139
INDICE
XXXII
■
■
Le cellule devono essere capaci di degradare
e di produrre la matrice
I proteoglicani della matrice e le glicoproteine
regolano le attività delle proteine secrete
1142
SOMMARIO
1143
Le giunzioni cellula-matrice
■
■
■
■
■
■
■
Le integrine sono eterodimeri transmembrana che
legano la matrice extracellulare al citoscheletro
Difetti delle integrine sono responsabili di molte
malattie genetiche
Le integrine possono passare da una conformazione
attiva a una inattiva
Le integrine si raggruppano per formare adesioni
forti
I punti di attacco alla matrice extracellulare
agiscono tramite le integrine per controllare la
proliferazione e la sopravvivenza cellulari
Le integrine reclutano proteine di segnalazione
intracellulare a livello dei siti di adesione cellulamatrice
Le adesioni cellula-matrice rispondono alle forze
meccaniche
SOMMARIO
La parete cellulare vegetale
■
■
■
■
■
© 978-88-08-62126-9
La composizione della parete cellulare dipende dal
tipo di cellule
La resistenza elastica della parete cellulare permette
alle cellule vegetali di sviluppare la pressione di
turgore
La parete cellulare primaria è costituita da
microfibrille di cellulosa intessute con un reticolo di
polisaccaridi di pectina
La deposizione orientata della parete controlla
la crescita della cellula vegetale
I microtubuli orientano la deposizione della parete
cellulare
■
1141
■
■
1143
■
1144
1145
■
■
1146
1147
SOMMARIO
■
■
1149
■
1150
■
1151
■
1151
■
1153
1153
1154
1155
SOMMARIO
1157
PROBLEMI
1157
BIBLIOGRAFIA
1159
■
■
■
■
■
■
CAPITOLO 20
■
Il cancro
Il cancro come processo microevolutivo
■
■
■
■
■
■
■
■
1161
Le cellule cancerose aggirano i controlli della
1162
proliferazione normale e colonizzano altri tessuti
La maggior parte delle forme di cancro deriva da una
1163
sola cellula anormale
Le cellule cancerose contengono mutazioni
somatiche
1164
Una singola mutazione non è sufficiente a
trasformare una cellula normale in una cancerosa
1164
Il cancro si sviluppa gradualmente da cellule sempre
più aberranti
1165
La progressione tumorale coinvolge cicli successivi di
modificazioni casuali ereditate seguiti da selezione
1166
naturale
Le cellule tumorali umane sono geneticamente
1167
instabili
Le cellule tumorali mostrano un controllo della
1168
crescita alterato
1174
I geni cruciali per il cancro: come si scoprono e
che cosa fanno
1174
1148
1151
Le cellule tumorali hanno un metabolismo dello
zucchero alterato
1168
Le cellule tumorali hanno un’anomala capacità di
sopravvivere allo stress e ai danni del DNA
1169
Le cellule cancerose umane sfuggono a un limite
intrinseco alla proliferazione cellulare
1171
Il microambiente tumorale influenza lo sviluppo del
cancro
1171
Le cellule tumorali devono sopravvivere e proliferare
in un ambiente estraneo
1172
Molte proprietà contribuiscono in genere alla crescita
cancerosa
1173
■
■
■
■
■
■
■
■
L’identificazione di mutazioni con guadagno
di funzione e con perdita di funzione ha
tradizionalmente richiesto metodi differenti
1175
I retrovirus servono da vettori di oncogeni che
alterano il comportamento cellulare
1176
Diverse linee di ricerca di oncogeni hanno portato
allo stesso gene: Ras
1176
I geni mutati nel cancro possono essere resi iperattivi
in molti modi
1177
Studi di rare sindromi cancerose ereditarie hanno
identificato per la prima volta geni soppressori dei
tumori
1178
Meccanismi genetici ed epigenetici possono
inattivare i geni soppressori dei tumori
1179
Il sequenziamento sistematico dei genomi di cellule
cancerose ha trasformato le nostre conoscenze
della malattia
1180
Molti cancri hanno un genoma estremamente
danneggiato
1182
Molte mutazioni nelle cellule cancerose sono
solamente trainate
1183
I geni cruciali per il cancro rappresentano circa l’1%
del genoma umano
1184
Il danneggiamento di poche vie chiave è comune a
molti cancri
1184
Mutazioni nella via di PI3K/Akt/mTOR inducono le
cellule tumorali a crescere
1185
Mutazioni della via di p53 permettono alle cellule
tumorali di sopravvivere e proliferare nonostante lo
stress e i danni al DNA
1186
L’instabilità genomica prende forme diverse in tumori
differenti
1188
I cancri di tessuti specializzati utilizzano varie strade
per colpire le vie cruciali comuni del cancro
1188
Gli studi sui topi aiutano a definire le funzioni dei
geni cruciali per il cancro
1189
Mentre progrediscono i tumori diventano sempre più
eterogenei
1189
Le modificazioni delle cellule tumorali che portano a
metastasi sono ancora in gran parte un mistero
1190
Una piccola popolazione di cellule staminali del
cancro può essere alla base del sostentamento di
molti tumori
1192
Il fenomeno delle cellule staminali del cancro
determina ulteriori difficoltà nella cura dei tumori
1193
I cancri colorettali si evolvono lentamente attraverso
una successione di cambiamenti visibili
1194
INDICE
XXXIII
© 978-88-08-62126-9
■
■
■
Poche lesioni genetiche cruciali sono comuni a una
grande percentuale di cancri colorettali
Alcuni cancri colorettali hanno difetti nella
riparazione delle basi male appaiate nel DNA
I passaggi della progressione tumorale possono
essere spesso correlati a mutazioni specifiche
SOMMARIO
Prevenzione e trattamento del cancro:
presente e futuro
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
L’epidemiologia rivela che molti casi di cancro
possono essere evitati
Saggi sensibili possono rilevare quegli agenti che
causano il cancro e che danneggiano il DNA
Il 50% dei tumori potrebbe essere prevenuto da
cambiamenti nello stile di vita
I virus e altre infezioni contribuiscono a una
percentuale significativa di cancri umani
I tumori della cervice uterina possono essere evitati
con la vaccinazione contro il papillomavirus umano
Agenti infettivi possono causare il cancro in vari
modi
La ricerca di cure per il cancro è difficile ma non è
senza speranza
Le terapie tradizionali sfruttano l’instabilità genetica
e la perdita delle risposte ai punti di controllo
del ciclo cellulare nelle cellule cancerose
Nuovi farmaci possono uccidere le cellule tumorali
selettivamente colpendo mutazioni specifiche
Gli inibitori di PARP uccidono le cellule tumorali che
hanno difetti nei geni Brca1 e Brca2
Si possono progettare piccole molecole che
inibiscono proteine oncogeniche specifiche
Molti tipi di cancro possono essere trattabili
amplificando la risposta immunitaria contro lo
specifico tumore
Il cancro sviluppa resistenza alle terapie
La combinazione di terapie può avere successo
quando falliscono i trattamenti con un farmaco alla
volta
Oggi possediamo strumenti per individuare
combinazioni di terapie su misura per un singolo
paziente
■
1195
■
1196
■
1197
1198
■
1199
1199
■
1201
■
1202
1203
1204
■
1205
■
1205
■
1207
■
1210
1212
1212
1213
1214
PROBLEMI
1214
BIBLIOGRAFIA
1216
■
■
■
■
1220
■
■
■
Una panoramica sullo sviluppo
■
Meccanismi di formazione degli schemi
1204
1218
■
SOMMARIO
■
Lo sviluppo degli organismi pluricellulari
■
■
1204
SOMMARIO
Meccanismi conservati stabiliscono il piano
corporeo di base di un animale
Le potenzialità di sviluppo di una cellula diventano
progressivamente più limitate
La memoria cellulare è alla base delle decisioni della
cellula
Molti organismi modello sono stati importantissimi
per comprendere lo sviluppo
I geni coinvolti nella comunicazione cellula-cellula
e nel controllo trascrizionale sono particolarmente
importanti per lo sviluppo animale
■
1200
CAPITOLO 21
■
■
■
■
1220
1221
■
1221
■
■
1221
■
1222
Il DNA regolatore sembra il maggior responsabile
delle differenze fra le specie animali
Un ridotto numero di vie di segnalazione cellulacellula conservate coordina lo schema spaziale
Segnali semplici possono generare degli schemi
complessi attraverso il controllo combinatorio
e la memoria cellulare
I morfogeni sono segnali induttivi a lungo raggio
che esercitano effetti graduati
L’inibizione laterale può generare schemi di tipi
cellulari differenti
L’attivazione a corto raggio e l’inibizione a lungo
raggio possono generare degli schemi cellulari
complessi
Anche la divisione asimmetrica delle cellule può
generare diversità
Gli schemi iniziali vengono stabiliti in piccoli gruppi
di cellule e vengono rifiniti dall’induzione
sequenziale durante la crescita dell’embrione
La biologia dello sviluppo fornisce indicazioni sulle
malattie e sul mantenimento dei tessuti
1222
1223
1223
1224
1225
1226
1226
1226
1227
1228
1229
Animali differenti utilizzano meccanismi differenti
1229
per stabilire i loro assi primari di polarizzazione
Studi su Drosophila hanno rivelato i meccanismi di
1230
controllo genetico alla base dello sviluppo
I geni di polarità dell’uovo codificano macromolecole
che si depositano nell’uovo per organizzare gli assi
1231
dell’embrione precoce di Drosophila
Tre gruppi di geni controllano la segmentazione di
1232
Drosophila lungo l’asse A-P
Una gerarchia di interazioni di regolazione genica
1234
suddivide l’embrione di Drosophila
I geni di polarità dell’uovo, i gap e i pair-rule
generano uno schema transitorio che viene
ricordato dai geni di polarità segmentale e dai
1235
geni Hox
I geni Hox stabiliscono uno schema permanente
1236
dell’asse A-P
Le proteine Hox conferiscono a ciascun segmento
1237
la sua individualità
I geni Hox sono espressi secondo il loro ordine nel
1237
complesso Hox
I gruppi di proteine Trithorax e Polycomb rendono
i complessi Hox capaci di mantenere una memoria
1238
permanente dell’informazione posizionale
I geni di segnalazione dorso-ventrale generano un
1239
gradiente del regolatore trascrizionale Dorsal
Una gerarchia di interazioni induttive suddivide
1241
l’embrione dei vertebrati
Una competizione fra proteine di segnalazione
secrete determina il patterning dell’embrione di
1242
vertebrato
L’asse dorso-ventrale degli insetti corrisponde
1243
all’asse ventro-dorsale dei vertebrati
I geni Hox controllano l’asse A-P dei vertebrati
1244
Alcuni regolatori trascrizionali possono attivare
un programma che definisce un tipo cellulare
1245
o crea un intero organo
L’inibizione laterale mediata da Notch rifinisce gli
1246
schemi spaziali delle cellule
INDICE
XXXIV
■
■
La divisione cellulare asimmetrica rende differenti
cellule sorelle
Le differenze nel DNA regolatore spiegano le
differenze morfologiche
SOMMARIO
La successione temporale dello sviluppo
■
■
■
■
■
■
■
La vita media delle molecole ha un ruolo cruciale
nella successione temporale dello sviluppo
Un oscillatore di espressione genica agisce come
un orologio per controllare la segmentazione dei
vertebrati
Programmi di sviluppo intracellulari possono
contribuire a determinare la successione temporale
dello sviluppo di una cellula
È raro che le cellule si basino sul conteggio delle
divisioni cellulari per scandire il tempo del loro
sviluppo
Le transizioni durante lo sviluppo sono spesso
regolate da microRNA
Segnali ormonali coordinano i tempi delle transizioni
nello sviluppo
Segnali ambientali determinano il tempo della
fioritura
© 978-88-08-62126-9
■
1248
■
1248
1250
1251
1252
1255
1255
■
■
■
■
■
SOMMARIO
La crescita
■
■
■
La proliferazione, la morte e la dimensione
delle cellule determinano le dimensioni
dell’organismo
Gli animali e gli organi possono misurare
e regolare la massa cellulare totale
Segnali extracellulari stimolano o inibiscono la
crescita
SOMMARIO
Lo sviluppo neurale
■
■
■
Ai neuroni sono assegnate caratteristiche differenti
in base al tempo e al luogo in cui nascono
Il cono di crescita guida gli assoni lungo vie
specifiche verso i loro bersagli
Vari segnali extracellulari guidano gli assoni verso i
loro bersagli
1284
1285
1286
1287
1289
SOMMARIO
1290
PROBLEMI
1290
BIBLIOGRAFIA
1292
CAPITOLO 22
Cellule staminali e rinnovamento
tissutale
1295
1258
Le cellule staminali e il rinnovamento
nei tessuti epiteliali
1295
1260
■
1281
1257
La morfogenesi
■
■
1254
1259
La migrazione cellulare è guidata da segnali
dell’ambiente in cui si trova la cellula
La distribuzione delle cellule migranti dipende da
fattori di sopravvivenza
Il cambiamento dei pattern delle molecole di
adesione cellulare costringe le cellule ad assumere
nuove disposizioni
Interazioni repulsive aiutano a mantenere i confini
fra tessuti
Gruppi di cellule simili possono effettuare dei
riarrangiamenti collettivi radicali
La polarità cellulare planare aiuta a orientare le
strutture cellulari e i movimenti negli epiteli in via di
sviluppo
Le interazioni fra epitelio e mesenchima generano
strutture tubolari ramificate
Un epitelio può ripiegarsi durante lo sviluppo per
formare un tubo o una vescicola
■
■
SOMMARIO
■
■
1251
La specificità neuronale guida la formazione di
mappe neurali ordinate
I rami dei dendriti e degli assoni dello stesso neurone
si evitano l’un l’altro
I tessuti bersaglio rilasciano fattori neurotrofici che
controllano la crescita e la sopravvivenza delle cellule
nervose
La formazione delle sinapsi dipende dalla
comunicazione bidirezionale tra i neuroni e le loro
cellule bersaglio
Il rimodellamento delle sinapsi dipende dall’attività
elettrica e dalla segnalazione sinaptica
I neuroni che emettono scariche insieme si legano
insieme
1260
1262
1263
1264
1264
1265
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■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
1269
■
1270
1271
■
1272
1274
■
1274
1275
Il rivestimento dell’intestino tenue viene rinnovato
continuamente grazie alla proliferazione cellulare
nelle cripte
Le cellule staminali dell’intestino tenue si trovano
vicino alla base delle cripte
Le due cellule figlie di una cellula staminale devono
prendere una decisione
La segnalazione di Wnt mantiene i compartimenti
staminali dell’intestino
Le cellule staminali alla base della cripta sono
multipotenti e generano la gamma completa dei tipi
cellulari differenziati dell’intestino
Le due cellule figlie di una cellula staminale non
sempre devono diventare diverse
Le cellule di Paneth creano la nicchia delle cellule
staminali
Una singola cellula che esprime Lgr5 in coltura può
generare un intero sistema organizzato cripta-villo
La segnalazione efrina-Eph controlla
la segregazione dei diversi tipi cellulari dell’intestino
La segnalazione di Notch controlla la diversificazione
delle cellule intestinali e aiuta a mantenere la
staminalità
Il sistema delle cellule staminali dell’epidermide
garantisce il mantenimento di una barriera
impermeabile che si autorinnova
Quando il rinnovamento del tessuto non dipende
dalle cellule staminali: le cellule che secernono
insulina nel pancreas e gli epatociti nel fegato
Alcuni tessuti non possiedono cellule staminali e non
si rinnovano
SOMMARIO
1296
1297
1298
1298
1299
1301
1302
1302
1303
1303
1303
1304
1306
1306
I fibroblasti e le loro trasformazioni:
la famiglia delle cellule del tessuto connettivo
1307
I fibroblasti cambiano i propri caratteri in risposta a
segnali chimici e fisici
Gli osteoblasti producono la matrice dell’osso
1307
1308
1278
■
1279
■
INDICE
XXXV
© 978-88-08-62126-9
■
■
L’osso viene continuamente rimodellato dalle cellule
1310
al suo interno
Gli osteoclasti sono controllati da segnali provenienti
1310
dagli osteoblasti
SOMMARIO
1311
Riprogrammazione cellulare e cellule staminali
1331
pluripotenti
■
■
Genesi e rigenerazione del muscolo scheletrico 1312
■
■
I mioblasti si fondono per formare nuove fibre del
1313
muscolo scheletrico
Alcuni mioblasti permangono come cellule staminali
1313
quiescenti nell’adulto
SOMMARIO
Vasi sanguigni, vasi linfatici
e cellule endoteliali
■
■
■
■
Le cellule endoteliali rivestono tutti i vasi sanguigni e
linfatici
Le cellule endoteliali dell’apice aprono la strada per
l’angiogenesi
I tessuti che richiedono un apporto sanguigno
rilasciano VEGF
Segnali provenienti dalle cellule endoteliali
controllano il reclutamento dei periciti e delle cellule
del muscolo liscio per formare la parete del vaso
SOMMARIO
Un sistema gerarchico di cellule staminali:
la formazione delle cellule del sangue
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
SOMMARIO
■
■
■
1314
■
■
■
1315
■
1316
■
1317
■
1318
1318
1327
1331
SOMMARIO
1340
PROBLEMI
1341
BIBLIOGRAFIA
1342
CAPITOLO 23
Patogeni e infezione
1344
Introduzione agli agenti patogeni
e al microbiota umano
1344
■
■
■
■
■
■
■
1327
Il verme planaria ha cellule staminali in grado di
1328
rigenerare un intero nuovo corpo
Alcuni vertebrati possono rigenerare interi organi
1329
Le cellule staminali possono essere utilizzate
artificialmente per sostituire le cellule malate o perse:
1330
una terapia per il sangue e l’epidermide
Le cellule staminali neurali possono essere manipolate
in coltura e usate per ripopolare il sistema nervoso
1330
centrale
SOMMARIO
■
1314
I globuli rossi sono tutti uguali; i globuli bianchi si
1318
dividono in tre categorie principali
La produzione di ogni tipo di cellula del sangue nel
1320
midollo osseo è controllata singolarmente
Il midollo osseo contiene cellule staminali
emopoietiche multipotenti capaci di generare tutte le
1321
categorie di cellule del sangue
La determinazione è un processo a più stadi
1322
Le divisioni delle cellule progenitrici determinate
amplificano il numero di cellule specializzate del
1322
sangue
Le cellule staminali dipendono da segnali di contatto
1323
provenienti dalle cellule stromali
I fattori che regolano l’emopoiesi possono essere
1324
analizzati in coltura
L’eritropoiesi dipende dall’ormone eritropoietina
1324
Molteplici CSF influenzano la produzione dei
1325
neutrofili e dei macrofagi
Il comportamento di una cellula emopoietica in parte
1325
dipende dal caso
La regolazione della sopravvivenza cellulare è
importante quanto la regolazione della proliferazione
1326
cellulare
Rigenerazione e riparazione
■
1314
■
I nuclei possono essere riprogrammati trapiantandoli
1332
in un citoplasma estraneo
La riprogrammazione di un nucleo trapiantato
1332
comporta drastiche modifiche epigenetiche
Le cellule staminali embrionali (ES) possono produrre
1333
qualsiasi parte del corpo
Una combinazione essenziale di regolatori della
trascrizione definisce e mantiene lo stato di cellula ES 1334
I fibroblasti possono essere riprogrammati per creare
1334
cellule staminali pluripotenti indotte (cellule iPS)
La riprogrammazione richiede un grande
1335
sconvolgimento del sistema di controllo genico
Una manipolazione sperimentale dei fattori che
modificano la cromatina può aumentare l’efficienza
1336
di riprogrammazione
Le cellule ES e iPS possono essere indotte a generare
1337
specifici tipi di cellule adulte e anche interi organi
Cellule di un tipo specializzato possono essere
indotte a transdifferenziare direttamente in un altro
1338
tipo cellulare
Le cellule ES e iPS sono strumenti utili per la scoperta
1339
di nuovi farmaci e per l’analisi delle malattie
■
■
Il microbiota umano è un sistema ecologico
complesso importante per il nostro sviluppo
e per la nostra salute
Gli agenti patogeni interagiscono in diversi modi
con il loro ospite
Gli agenti patogeni possono contribuire
all’insorgenza del cancro, delle malattie
cardiovascolari e di altre malattie croniche
Gli agenti patogeni possono essere virus, batteri o
eucarioti
I batteri sono caratterizzati da un’ampia diversità
e occupano una notevole varietà di nicchie
ecologiche
Gli agenti patogeni batterici portano geni della
virulenza specializzati
I geni della virulenza batterici codificano proteine
effettrici e sistemi di secrezione per introdurre le
proteine effettrici nelle cellule ospiti
I parassiti fungini e protozoici hanno cicli vitali
complessi con molteplici forme
Tutti gli aspetti della diffusione virale dipendono dal
macchinario delle cellule ospiti
SOMMARIO
Biologia cellulare dell’infezione
■
■
1345
1346
1346
1347
1348
1349
1350
1352
1354
1357
1357
Gli agenti patogeni attraversano le barriere epiteliali
1357
per infettare l’ospite
Gli agenti patogeni che colonizzano gli epiteli devono
1358
eludere i meccanismi difensivi dell’ospite
INDICE
XXXVI
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
■
Gli agenti patogeni extracellulari interferiscono
con le cellule dell’ospite senza penetrarvi
Gli agenti patogeni intracellulari hanno meccanismi
sia per entrare che per uscire dalle cellule ospiti
Le particelle virali si legano a recettori virali esposti
sulla superficie della cellula ospite
I virus entrano nelle cellule ospiti tramite fusione
di membrane, formazione di pori o rottura della
membrana
I batteri entrano nelle cellule ospiti mediante
fagocitosi
I parassiti eucariotici intracellulari invadono
attivamente le cellule ospiti
Alcuni agenti patogeni intracellulari passano dal
fagosoma nel citosol
Molti agenti patogeni per sopravvivere e replicarsi
alterano il traffico delle membrane della cellula
ospite
I virus e i batteri sfruttano il citoscheletro
della cellula ospite per il movimento intracellulare
I virus prendono il controllo del metabolismo della
cellula ospite
I patogeni possono evolvere rapidamente mediante
variazione antigenica
Nell’evoluzione virale domina la replicazione incline
all’errore
I patogeni resistenti ai farmaci rappresentano un
problema crescente
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1359
Una visione d’insieme del sistema immunitario
1393
adattativo
■
1360
■
1360
■
1361
■
1363
SOMMARIO
1364
1365
1366
1369
1371
1372
1374
Le cellule B e le immunoglobuline
■
■
■
■
■
■
1376
SOMMARIO
1378
PROBLEMI
1378
BIBLIOGRAFIA
1380
CAPITOLO 24
Le cellule T e le proteine MHC
■
■
Il sistema immunitario innato
e adattativo
1382
Il sistema immunitario innato
1383
■
■
■
■
■
■
■
■
Le superfici epiteliali svolgono la funzione di barriera
nei confronti delle infezioni
I recettori di riconoscimento di schemi (PRR)
riconoscono caratteristiche conservate degli agenti
patogeni
Ci sono molteplici classi di PRR
I PRR attivati innescano una risposta infiammatoria
nei siti di infezione
Le cellule fagocitiche cercano, inglobano e
distruggono i patogeni
L’attivazione del complemento indirizza i patogeni
alla fagocitosi o alla lisi
Le cellule infettate da virus prendono misure
drastiche per impedire la replicazione virale
Le cellule natural killer inducono le cellule infettate
da virus a suicidarsi
Le cellule dendritiche forniscono il collegamento tra
il sistema immunitario adattativo e quello innato
SOMMARIO
■
■
1383
■
1384
1384
1385
1387
1387
1389
1390
Le cellule B producono immunoglobuline (Ig)
sia come recettori di superficie per l’antigene sia
come anticorpi secreti
I mammiferi producono cinque classi di
immunoglobuline
Le catene pesanti e leggere delle immunoglobuline
sono costituite da regioni variabili e costanti
I geni delle immunoglobuline sono assemblati da
segmenti genici separati durante lo sviluppo dei
linfociti B
L’ipermutazione somatica stimolata dall’antigene
regola finemente le risposte anticorpali
Le cellule B possono cambiare la classe
degli anticorpi che producono
SOMMARIO
■
■
I linfociti B si sviluppano nel midollo osseo,
1394
i linfociti T nel timo
La memoria immunologica dipende sia dall’espansione
1396
clonale sia dal differenziamento dei linfociti
I linfociti ricircolano continuamente attraverso gli
1398
organi linfoidi secondari
La tolleranza immunologica al self assicura
che i linfociti B e T non attacchino le cellule
1399
e le molecole normali dell’ospite
■
■
■
■
■
I recettori delle cellule T (TCR) sono eterodimeri
simili alle Immunoglobuline
Cellule dendritiche attivate possono attivare linfociti
T naïve
I linfociti T riconoscono peptidi estranei legati alle
proteine MHC
Le proteine MHC sono le proteine umane più
polimorfiche conosciute
I corecettori CD4 e CD8 dei linfociti T si legano a
parti invarianti delle proteine MHC
I timociti in via di sviluppo vanno incontro a
selezione negativa e positiva
Le cellule T citotossiche inducono le cellule bersaglio
infettate a suicidarsi
I linfociti T helper effettori aiutano ad attivare altre
cellule dei sistemi immunitari innato e adattativo
I linfociti T helper naïve possono differenziarsi in tipi
diversi di cellule T effettrici
Sia i linfociti T che i linfociti B hanno bisogno di
molteplici segnali extracellulari per essere attivati
Molte proteine presenti sulla superficie cellulare
appartengono alla superfamiglia delle Ig
1401
1402
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1423
1423
1424
1426
SOMMARIO
1427
PROBLEMI
1428
BIBLIOGRAFIA
1431
INDICE ANALITICO
1432
1391
1391
PREFAZIONE
D
a quando è apparsa l’ultima edizione di questo volume fino a oggi sono stati pubblicati più di cinque milioni di articoli scientifici. Al tempo stesso c’è stato anche un aumento della quantità di informazioni
digitali: nuovi elementi riguardanti sequenze genomiche, interazioni tra proteine, strutture molecolari ed espressione genica sono stati raccolti in grandi
banche dati. La sfida, sia per gli scienziati che per coloro che scrivono libri di
testo, è convertire questa enorme quantità di dati in un’esposizione comprensibile e aggiornata del funzionamento della cellula.
Un valido aiuto viene dal grande aumento del numero di articoli che si
propongono di rendere più comprensibile il nuovo materiale, sebbene la maggior parte di essi sia ancora piuttosto specifica. Al tempo stesso, la crescente
mole di risorse in rete può indurre a credere che per padroneggiare la materia siano sufficienti pochi “click” del mouse. In alcuni ambiti questo cambiamento del modo di accedere alle conoscenze ha avuto molto successo, per
esempio per essere informati sulle ultime novità riguardanti un nostro specifico problema di salute. Ma per capire qualcosa della bellezza e della complessità caratteristiche del modo di lavorare delle cellule viventi abbiamo bisogno
di molto più di questa o quella semplice definizione di wikipedia; è estremamente difficile identificare ciò che è davvero importante in un simile groviglio di informazioni. È molto più efficace un’esposizione che progressivamente e con logica guidi i lettori attraverso le idee, i componenti e gli esperimenti, facendo sì che possano costruire il loro personale quadro concettuale della
biologia della cellula. Questo consentirà loro di valutare criticamente tutti i
nuovi concetti scientifici e, cosa ancor più importante, di capirli. Ciò è quanto abbiamo cercato di fare in Biologia molecolare della cellula.
Preparando questa edizione abbiamo dovuto inevitabilmente prendere alcune decisioni difficili. Per poter inserire nuove e interessanti scoperte, mantenendo allo stesso tempo la facilità di consultazione del volume, abbiamo dovuto eliminare parti di testo dell’edizione precedente. Abbiamo aggiunto nuove
sezioni, come quelle sulle funzioni dell’RNA, sugli avanzamenti nella biologia delle cellule staminali, sui nuovi metodi per studiare le proteine e i geni
e per visualizzare le cellule, sulle nuove conoscenze nel campo della genetica
e del trattamento del cancro, sulle tempistiche e sul controllo della crescita e
sulla morfogenesi nello sviluppo.
La chimica delle cellule è estremamente complessa e qualsiasi elenco delle
parti della cellula e delle loro interazioni, indipendentemente da quanto completo, lascia enormi lacune nella comprensione. Abbiamo capito che spiegare
in modo esauriente il comportamento cellulare richiede informazioni quantitative sulle cellule che dovrebbero essere accompagnate da modelli matematici e approcci bioinformatici sofisticati, alcuni dei quali non sono stati ancora
ideati. Di conseguenza un obiettivo prioritario per i biologi cellulari è quello di indirizzare gli studi verso descrizioni quantitative e deduzioni matematiche. Abbiamo messo in evidenza questo approccio e alcuni dei suoi metodi
nella nuova sezione alla fine del Capitolo 8.
Messo di fronte alla vastità delle scoperte della biologia della cellula, uno
studente potrebbe essere erroneamente portato a immaginare che non ci sia
più nulla da scoprire. Di fatto, più scopriamo riguardo alle cellule più emergono nuovi quesiti. Per sottolineare che la nostra conoscenza della biologia
della cellula è incompleta abbiamo messo in evidenza alcune delle maggiori
lacune attuali inserendo la rubrica Quello che non sappiamo al termine di ogni
capitolo, con l’intenzione di fornire solo un esempio dei quesiti cruciali ancora privi di risposta e delle sfide per la prossima generazione di scienziati.
Ci è di stimolo sapere che alcuni dei nostri lettori saranno coloro che forniranno le risposte future.
PREFAZIONE
IV
© 978-88-08-62126-9
Più di 1500 illustrazioni sono state realizzate in modo da fornire un’esposizione parallela, strettamente collegata al testo. Abbiamo migliorato la loro
coerenza, in particolare attraverso l’uso di colori e di icone comuni; le pompe
di membrana e i canali costituiscono un ottimo esempio. Per evitare interruzioni della lettura, una parte del materiale è stata inserita in nuovi quadri facilmente consultabili. La maggior parte delle strutture proteiche raffigurate è
stata ridisegnata e colorata coerentemente. In ogni caso, viene fornito il codice della proteina relativo alla Banca dati di proteine (PDB) che può essere
utilizzato per accedere agli strumenti disponibili in rete, come per esempio
quelle del sito web RCSB PDB (www.rcsb.org). Queste connessioni permetteranno ai lettori di studiare in modo approfondito le proteine alla base della biologia cellulare.
John Wilson e Tim Hunt hanno contribuito ancora una volta alla stesura,
creativa e mai banale, dei problemi in modo da consentire agli studenti una
comprensione più attiva del testo. I problemi, presenti alla fine di ogni capitolo, sottolineano gli approcci quantitativi e incoraggiano il pensiero critico
esaminando gli esperimenti pubblicati.
Viviamo in un mondo che ci pone di fronte a molte questioni complesse
che interessano la biologia della cellula: la biodiversità, il cambiamento climatico, la sicurezza alimentare, il degrado ambientale, l’esaurimento delle risorse e le malattie umane. Speriamo che il nostro volume aiuti il lettore a capire
meglio e, se possibile, ad affrontare queste sfide. Solo conoscenza e comprensione consentono di intervenire.
Siamo in debito con un gran numero di scienziati il cui generoso aiuto verrà menzionato separatamente nei ringraziamenti. Qui vogliamo invece ricordare alcuni collaboratori particolarmente importanti. Per il Capitolo 8 Hana
El-Samadche ha fornito il nucleo centrale della sezione Analisi matematica delle
funzioni cellulari; Karen Hopkin ha validamente contribuito alla sezione Studio
dell’espressione e della funzione dei geni.Werner Kuhlbrandt ci ha aiutato a riorganizzare e riscrivere il Capitolo 14 (Conversione dell’energia: mitocondri e cloroplasti). Rebecca Heald ha fatto lo stesso per il Capitolo 16 (Il citoscheletro), così
come Alexander Schier per il Capitolo 21 (Lo sviluppo degli organismi pluricellulari) e Matt Welch per il Capitolo 23 (Patogeni e infezione). Lewis Lanier ha collaborato alla stesura del Capitolo 24 (Il sistema immunitario innato e adattativo).
Prima di iniziare la revisione di questa edizione abbiamo chiesto ad alcuni scienziati che avevano utilizzato la quinta edizione come manuale per gli
studenti di biologia cellulare di incontrarci per suggerirci miglioramenti. Ci
hanno fornito dei commenti utili che hanno contribuito alla stesura della sesta edizione. Abbiamo anche fatto buon uso dei validi suggerimenti di gruppi
di studenti che hanno letto la maggior parte dei capitoli in bozze.
Sono necessarie molte persone e molto lavoro per trasformare un lungo
manoscritto e una tale quantità di materiale illustrativo in un libro di testo finito. La squadra di Garland Science che ha gestito questo lavoro è stata eccezionale. Denise Schanck, dirigendo le operazioni, ha mostrato pazienza, intuito
ed energia durante tutto il percorso; ha guidato tutti noi in maniera efficace,
assistita abilmente da Allie Bochicchio e Janette Scobie. Nigel Orme ha rivisto e controllato le modifiche alle illustrazioni e ha dato la veste grafica finale.
Tiago Barros ci ha aiutato a rinnovare la presentazione delle strutture proteiche. Michael Morales, assistito da Leah Christians, ha prodotto e assemblato
il complesso apparato di video, animazioni e altro materiale che costituisce il
nucleo centrale delle risorse internet che accompagnano il libro. Adam Sendroff ha raccolto i preziosi giudizi di chi ha utilizzato il libro in ogni parte del
mondo. Elizabeth Zayatz e Sherry Granum Lewis hanno messo a disposizione la loro esperienza di redattrici per organizzare le varie fasi di lavorazione
del volume, insieme a Jo Clayton come revisore di testi e a Sally Huish come
correttrice di bozze. Da Londra, Emily Preece e la squadra di professionisti di
Garland ci hanno fornito competenze, energia e amicizia, seguendo ogni fase
della revisione e rendendo l’intero processo molto piacevole. Gli autori sono
estremamente fortunati a essere stati sostenuti così generosamente.
Ringraziamo i nostri coniugi, le nostre famiglie, gli amici e i colleghi per
il loro continuo sostegno che ancora una volta ha reso possibile la stesura di
questo volume.
PREFAZIONE
© 978-88-08-62126-9
Mentre stavamo completando questa edizione, Julian Lewis, nostro coautore, amico e collega è stato sconfitto da un cancro con il quale ha combattuto eroicamente per dieci anni. Fin dal 1979 Julian ha dato contributi fondamentali a tutte le sei edizioni e, essendo una delle nostre penne più eleganti,
ha elevato e migliorato sia lo stile che il tono espositivo di tutti i capitoli a cui
ha lavorato. Apprezzato per il suo approccio accademico accurato, la chiarezza e la semplicità sono sempre state alla base del suo modo di scrivere. Julian
è insostituibile e tutti noi sentiremo la mancanza della sua amicizia e della sua
collaborazione. Dedichiamo questa sesta edizione alla sua memoria.
V
NOTE PER IL LETTORE
■ Struttura del libro
Sebbene i capitoli di questo libro possano essere letti in
maniera indipendente l’uno dall’altro, essi sono ordinati in una sequenza logica divisa in cinque parti. I primi
tre capitoli della Parte I coprono i principi fondamentali e la biochimica di base e possono servire da introduzione per coloro che non hanno studiato biochimica o come corso di ripasso che coloro che invece già la
conoscono. La Parte II tratta l’immagazzinamento, l’espressione e la trasmissione dell’informazione genetica.
La Parte III presenta i fondamenti dei principali metodi sperimentali per studiare e analizzare le cellule e una
nuova sezione intitolata Analisi matematica delle funzioni
cellulari contenuta nel Capitolo 8, arricchisce ulteriormente la nostra comprensione della regolazione e della
funzione della cellula. La Parte IV descrive l’organizzazione interna della cellula. La Parte V segue il comportamento delle cellule nei sistemi pluricellulari: comprende
lo sviluppo di organismi pluricellulari e il capitolo sui
patogeni e sulle infezioni e quello sul sistema immunitario innato e adattativo.
■ Problemi di fine capitolo
Una lista selezionata di problemi, scritti da John Wilson
e Tim Hunt, compare alla fine di ogni capitolo. In questa edizione sono stati aggiunti nuovi problemi relativi
agli ultimi quattro capitoli sugli organismi pluricellulari. Le soluzioni complete di tutti i problemi si possono
trovare in Molecular Biology of the Cell, Sixth Edition:The
Problems Book.
■ Bibliografia
Un conciso elenco di referenze bibliografiche selezionate si trova al termine di ogni capitolo. Tali referenze
sono organizzate in ordine alfabetico sotto i titoli delle
sezioni principali del capitolo e comprendono talvolta
gli articoli originali nei quali importanti scoperte sono
state riportate per la prima volta.
■ Termini del glossario
In tutto il volume è stato usato il grassetto per mettere in evidenza i termini chiave nel punto del capitolo in
cui vengono principalmente discussi. Il corsivo è stato utilizzato per evidenziare termini importanti con un grado
minore di enfasi. Un ampio glossario disponibile all’indirizzo online.universita.zanichelli.it/alberts6e
include i termini tecnici che sono di uso comune nel
linguaggio della biologia cellulare; questo dovrebbe essere la prima risorsa per il lettore che incontra un termine non familiare.
■ Nomenclatura di geni e proteine
Ogni specie ha la sua convenzione per denominare i geni; l’unica caratteristica comune è che essi sono sempre
scritti in corsivo. In alcune specie (come quella umana)
i nomi dei geni sono scritti in maiuscolo; in altre specie (come il pesce zebra) sono scritti in minuscolo; in altre ancora (come la maggioranza dei geni del topo) con
la prima lettera maiuscola e le altre minuscole o (come
in Drosophila) con combinazioni di lettere maiuscole e
minuscole diverse a seconda che il primo allele mutante scoperto produca un fenotipo dominante o recessivo.
Anche le convenzioni per denominare le proteine variano in modo simile.
Questo caos tipografico fa diventare tutti matti.
Non è solo fastidioso e assurdo ma è anche insostenibile. Non possiamo stabilire in maniera indipendente
una nuova convenzione per ciascuna delle nuove specie fra i milioni di cui desidereremo in futuro studiare
i geni. Inoltre, ci sono molte occasioni, specialmente in
un testo come questo, in cui abbiamo bisogno di riferirci genericamente a un gene, senza dover specificare
la versione del topo, quella umana, del pollo o dell’ippopotamo, perché sono tutte equivalenti per gli scopi della nostra discussione. Quindi, quale convenzione
dovremmo usare?
In questo volume abbiamo deciso di mettere da parte le diverse convenzioni utilizzate per specie individuali e di seguire una regola comune: abbiamo scritto tutti i nomi dei geni, come i nomi di persona e dei luoghi,
con la prima lettera maiuscola e le altre minuscole, ma
tutte in corsivo, per esempio Apc, Bazooka, Cdc2, Dishevelled, Egl1. La proteina corrispondente a ognuno di essi, quando prende il nome dal gene, è scritta nello stesso
modo in caratteri normali anziché in corsivo, per esempio, Apc, Bazooka, Cdc2, Dishevelled, Egl1. Quando è
necessario specificare l’organismo, ciò può essere fatto
anteponendo un prefisso al nome del gene.
Per completezza, elenchiamo alcuni ulteriori dettagli delle regole di nomenclatura che abbiamo seguito. In
alcuni casi una lettera aggiunta al nome del gene viene
tradizionalmente utilizzata per distinguere geni che sono tra loro in relazione funzionale o evolutiva: per tali
geni abbiamo messo quella lettera in maiuscolo solo se
è consuetudine fare così (Lacz, RecA, HoxA4). Non abbiamo usato trattini per separare dal resto del nome le
lettere o i numeri aggiunti.
Le proteine sono un problema più difficile. Molte di
esse hanno nomi che seguono regole proprie, assegnati prima che venisse denominato il gene. Questi nomi
di proteine hanno varie forme benché la maggioranza
di essi inizi tradizionalmente con una lettera minuscola (actina, emoglobina, catalasi), come i nomi di sostanze ordinarie (formaggio, nylon) a meno che non siano
acronimi (come GFP per Green Fluorescent Protein, proteina fluorescente verde, o BMP4 per Bone Morphogenetic Protein 4, proteina morfogenica dell’osso numero 4).
Uniformare forzatamente tutti questi nomi sarebbe stata
NOTE PER IL LETTORE
VII
© 978-88-08-62126-9
una violenza eccessiva nei confronti degli usi consolidati e quindi li abbiamo semplicemente scritti nel modo
tradizionale (actina, GFP, e così via).Tuttavia, per i nomi
dei geni corrispondenti a tutti questi casi abbiamo utilizzato la nostra regola standard: Actina, Emoglobina, Catalasi, Bmp4, Gfp. Quando è stato necessario mettere in
evidenza il nome di una proteina scrivendolo in corsi-
vo al fine di metterlo in risalto, tale intenzione risulterà
generalmente chiara nel contesto.
Per coloro che desiderano conoscere questi nomi la
tabella riportata sotto mostra alcune delle convenzioni ufficiali per le singole specie, convenzioni che perlopiù abbiamo violato in questo testo, nel modo che abbiamo spiegato.
Convenzione specie-specifica
Convenzione unificata usata in questo libro
Organismo
Gene
Proteina
Gene
Proteina
Topo
Hoxa4
Bmp4
integrina α-1, Itgα1
HOXA4
cyclops, cyc
unc-6
sevenless, sev (così
chiamato dal fenotipo
mutante recessivo)
Deformed, Dfd (così
chiamato dal fenotipo
mutante dominante)
Hoxa4
BMP4
integrina α1
HOXA4
Cyclops, Cyc
UNC-6
Sevenless, SEV
HoxA4
Bmp4
Integrina α1, Itgα1
HoxA4
Cyclops, Cyc
Unc6
Sevenless, Sev
HoxA4
BMP4
integrina α1
HoxA4
Cyclops, Cyc
Unc6
Sevenless, Sev
Deformed, DFD
Deformed, Dfd
Deformed, Dfd
CDC28
Cdc28, Cdc28p
Cdc28
Cdc28
Cdc2
Cdc2, Cdc2p
Cdc2
Cdc2
GAI
uvrA
GAI
UvrA
Gai
UvrA
GAI
UvrA
Uomo
Pesce zebra
Caenorhabditis
Drosophila
Lievito
Saccharomyces cerevisiae
(lievito gemmante)
Schizosaccharomyces
pombe (lievito a fissione)
Arabidopsis
E. coli
Le risorse multimediali
All’indirizzo online.universita.zanichelli.it/alberts6e sono disponibili: il glossario, le tecniche animate, i test
interattivi a scelta multipla e (in lingua inglese) le animazioni, i filmati, le micrografie interattive. I filmati sono espressamente richiamati nel testo.
Chi acquista il libro può inoltre scaricare gratuitamente l’ebook, seguendo le istruzioni presenti nel sito sopra
indicato. L’ebook si legge con l’applicazione Booktab, che si scarica gratis da App Store (sistemi operativi Apple) o
da Google Play (sistemi operativi Android).
Per accedere alle risorse protette è necessario registrarsi su myzanichelli.it inserendo la chiave di attivazione
personale contenuta nel libro.
RINGRAZIAMENTI
Nella stesura di questo volume abbiamo tratto grande aiuto dai consigli di molti biologi e biochimici.Vogliamo
ringraziare i seguenti per i loro suggerimenti nella realizzazione di questa edizione (elencati per primi), come pure coloro che hanno contribuito alle edizioni precedenti.
Generale:
Steven Cook (Imperial College London), Jose A. Costoya
(Universidade de Santiago de Compostela), Arshad Desai
(University of California, San Diego), Susan K. Dutcher
(Washington University, St. Louis), Michael Elowitz
(California Institute of Technology), Benjamin S. Glick
(University of Chicago), Gregory Hannon (Cold Spring
Harbor Laboratories), Rebecca Heald (University of
California, Berkeley), Stefan Kanzok (Loyola University
Chicago), Doug Kellogg (University of California, Santa
Cruz), David Kimelman (University of Washington,
Seattle), Maria Krasilnikova (Pennsylvania State
University),Werner Kühlbrandt (Max Planck Institute
of Biophysics), Lewis Lanier (University of California,
San Francisco), Annette Müller-Taubenberger (Ludwig
Maximilians University), Sandra Schmid (University
of Texas Southwestern), Ronald D.Vale (University
of California, San Francisco), D. Eric Walters (Chicago
Medical School), Karsten Weis (Swiss Federal Institute of
Technology)
Capitolo 2: H. Lill (VU University)
Capitolo 3: David S. Eisenberg (University of
California, Los Angeles), F. Ulrich Hartl (Max Planck
Institute of Biochemistry), Louise Johnson (University
of Oxford), H. Lill (VU University), Jonathan Weissman
(University of California, San Francisco)
Capitolo 4: Bradley E. Bernstein (Harvard Medical
School),Wendy Bickmore (MRC Human Genetics
Unit, Edinburgh), Jason Brickner (Northwestern
University), Gary Felsenfeld (NIH), Susan M. Gasser
(University of Basel), Shiv Grewal (National Cancer
Institute), Gary Karpen (University of California,
Berkeley), Eugene V. Koonin, (NCBI, NLM, NIH),
Hiten Madhani (University of California, San Francisco),
Tom Misteli (National Cancer Institute), Geeta Narlikar
(University of California, San Francisco), Maynard
Olson (University of Washington, Seattle), Stephen
Scherer (University of Toronto), Rolf Sternglanz (Stony
Brook University), Chris L.Woodcock (University
of Massachusetts, Amherst), Johanna Wysocka and lab
members (Stanford School of Medicine)
Capitolo 5: Oscar Aparicio (University of Southern
California), Julie P. Cooper (National Cancer Institute),
Neil Hunter (Howard Hughes Medical Institute),
Karim Labib (University of Manchester), Joachim Li
(University of California, San Francisco), Stephen West
(Cancer Research UK), Richard D.Wood (University of
Pittsburgh Cancer Institute)
Capitolo 6: Briana Burton (Harvard University),
Richard H. Ebright (Rutgers University), Daniel Finley
(Harvard Medical School), Michael R. Green (University
of Massachusetts Medical School), Christine Guthrie
(University of California, San Francisco), Art Horwich
(Yale School of Medicine), Harry Noller (University of
California, Santa Cruz), David Tollervey (University of
Edinburgh), Alexander J.Varshavsky (California Institute
of Technology)
Capitolo 7: Adrian Bird (The Wellcome Trust Centre,
UK), Neil Brockdorff (University of Oxford), Christine
Guthrie (University of California, San Francisco),
Jeannie Lee (Harvard Medical School), Michael Levine
(University of California, Berkeley), Hiten Madhani
(University of California, San Francisco), Duncan Odom
(Cancer Research UK), Kevin Struhl (Harvard Medical
School), Jesper Svejstrup (Cancer Research UK)
Capitolo 8: Hana El-Samad [contributo principale]
(University of California, San Francisco), Karen Hopkin
[contributo principale], Donita Brady (Duke University),
David Kashatus (University of Virginia), Melanie McGill
(University of Toronto), Alex Mogilner (University of
California, Davis), Richard Morris (John Innes Centre,
UK), Prasanth Potluri (The Children’s Hospital of
Philadelphia Research Institute), Danielle Vidaurre
(University of Toronto), Carmen Warren (University of
California, Los Angeles), Ian Woods (Ithaca College)
Capitolo 9: Douglas J. Briant (University of Victoria),
Werner Kühlbrandt (Max Planck Institute of Biophysics),
Jeffrey Lichtman (Harvard University), Jennifer
Lippincott-Schwartz (NIH), Albert Pan (Georgia
Regents University), Peter Shaw (John Innes Centre,
UK), Robert H. Singer (Albert Einstein School of
Medicine), Kurt Thorn (University of California, San
Francisco)
Capitolo 10: Ari Helenius (Swiss Federal Institute of
Technology),Werner Kühlbrandt (Max Planck Institute
of Biophysics), H. Lill (VU University), Satyajit Mayor
(National Centre for Biological Sciences, India), Kai
Simons (Max Planck Institute of Molecular Cell
Biology and Genetics), Gunnar von Heijne (Stockholm
University),Tobias Walther (Harvard University)
Capitolo 11: Graeme Davis (University of California,
San Francisco), Robert Edwards (University of
California, San Francisco), Bertil Hille (University of
Washington, Seattle), Lindsay Hinck (University of
California, Santa Cruz),Werner Kühlbrandt (Max Planck
RINGRAZIAMENTI
IX
© 978-88-08-62126-9
Institute of Biophysics), H. Lill (VU University), Roger
Nicoll (University of California, San Francisco), Poul
Nissen (Aarhus University), Robert Stroud (University
of California, San Francisco), Karel Svoboda (Howard
Hughes Medical Institute), Robert Tampé (GoetheUniversity Frankfurt)
Capitolo 12: John Aitchison (Institute for System
Biology, Seattle), Amber English (University of
Colorado at Boulder), Ralf Erdmann (Ruhr University
of Bochum), Larry Gerace (The Scripps Research
Institute, La Jolla), Ramanujan Hegde (MRC Laboratory
of Molecular Biology, Cambridge, UK), Martin W.
Hetzer (The Salk Institute), Lindsay Hinck (University
of California, Santa Cruz), James A. McNew (Rice
University), Nikolaus Pfanner (University of Freiberg),
Peter Rehling (University of Göttingen), Michael
Rout (The Rockefeller University), Danny J. Schnell
(University of Massachusetts, Amherst), Sebastian
Schuck (University of Heidelberg), Suresh Subramani
(University of California, San Diego), Gia Voeltz
(University of Colorado, Boulder), Susan R.Wente
(Vanderbilt University School of Medicine)
Capitolo 13: Douglas J. Briant (University of Victoria,
Canada), Scott D. Emr (Cornell University), Susan
Ferro-Novick (University of California, San Diego),
Benjamin S. Glick (University of Chicago), Ari Helenius
(Swiss Federal Institute of Technology), Lindsay Hinck
(University of California, Santa Cruz), Reinhard Jahn
(Max Planck Institute for Biophysical Chemistry), Ira
Mellman (Genentech), Peter Novick (University of
California, San Diego), Hugh Pelham (MRC Laboratory
of Molecular Biology, Cambridge, UK), Graham Warren
(Max F. Perutz Laboratories,Vienna), Marino Zerial
(Max Planck Institute of Molecular Cell Biology and
Genetics)
Capitolo 14: Werner Kühlbrandt [contributo
principale] (Max Planck Institute of Biophysics),Thomas
D. Fox (Cornell University), Cynthia Kenyon (University
of California, San Francisco), Nils-Göran Larsson (Max
Planck Institute for Biology of Aging), Jodi Nunnari
(University of California, Davis), Patrick O’Farrell
(University of California, San Francisco), Alastair Stewart
(The Victor Chang Cardiac Research Institute, Australia),
Daniela Stock (The Victor Chang Cardiac Research
Institute, Australia), Michael P.Yaffe (California Institute
for Regenerative Medicine)
Capitolo 15: Henry R. Bourne (University of
California, San Francisco), Dennis Bray (University of
Cambridge), Douglas J. Briant (University of Victoria,
Canada), James Briscoe (MRC National Institute
for Medical Research, UK), James Ferrell (Stanford
University), Matthew Freeman (MRC Laboratory
of Molecular Biology, Cambridge, UK), Alan Hall
(Memorial Sloan Kettering Cancer Center), CarlHenrik Heldin (Uppsala University), James A. McNew
(Rice University), Roel Nusse (Stanford University),
Julie Pitcher (University College London)
Capitolo 16: Rebecca Heald [contributo principale]
(University of California, Berkeley), Anna Akhmanova
(Utrecht University), Arshad Desai (University of
California, San Diego),Velia Fowler (The Scripps
Research Institute, La Jolla),Vladimir Gelfand
(Northwestern University), Robert Goldman
(Northwestern University), Alan Rick Horwitz
(University of Virginia),Wallace Marshall (University
of California, San Francisco), J. Richard McIntosh
(University of Colorado, Boulder), Maxence Nachury
(Stanford School of Medicine), Eva Nogales (University
of California, Berkeley), Samara Reck-Peterson
(Harvard Medical School), Ronald D.Vale (University of
California, San Francisco), Richard B.Vallee (Columbia
University), Michael Way (Cancer Research UK),
Orion Weiner (University of California, San Francisco),
Matthew Welch (University of California, Berkeley)
Capitolo 17: Douglas J. Briant (University of Victoria,
Canada), Lindsay Hinck (University of California, Santa
Cruz), James A. McNew (Rice University)
Capitolo 18: Emily D. Crawford (University of
California, San Francisco), James A. McNew (Rice
University), Shigekazu Nagata (Kyoto University), Jim
Wells (University of California, San Francisco)
Capitolo 19: Jeffrey Axelrod (Stanford University
School of Medicine), John Couchman (University of
Copenhagen), Johan de Rooij (The Hubrecht Institute,
Utrecht), Benjamin Geiger (Weizmann Institute of
Science, Israel), Andrew P. Gilmore (University of
Manchester),Tony Harris (University of Toronto), Martin
Humphries (University of Manchester), Andreas Prokop
(University of Manchester), Charles Streuli (University
of Manchester), Masatoshi Takeichi (RIKEN Center
for Developmental Biology, Japan), Barry Thompson
(Cancer Research UK), Kenneth M.Yamada (NIH),
Alpha Yap (The University of Queensland, Australia)
Capitolo 20: Anton Berns (Netherlands Cancer
Institute), J. Michael Bishop (University of California,
San Francisco),Trever Bivona (University of California,
San Francisco), Fred Bunz (Johns Hopkins University),
Paul Edwards (University of Cambridge), Ira Mellman
(Genentech), Caetano Reis e Sousa (Cancer Research
UK), Marc Shuman (University of California, San
Francisco), Mike Stratton (Wellcome Trust Sanger
Institute, UK), Ian Tomlinson (Cancer Research UK)
Capitolo 21: Alex Schier [contributo principale]
(Harvard University), Markus Affolter (University of
Basel),Victor Ambros (University of Massachusetts,
Worcester), James Briscoe (MRC National Institute
for Medical Research, UK), Donald Brown (Carnegie
Institution for Science, Baltimore), Steven Burden (New
York University School of Medicine), Moses Chao
(New York University School of Medicine), Caroline
Dean (John Innes Centre, UK), Chris Doe (University
of Oregon, Eugene), Uwe Drescher (King’s College
London), Gordon Fishell (New York University School
of Medicine), Brigid Hogan (Duke University), Phil
Ingham (Institute of Molecular and Cell Biology,
Singapore), Laura Johnston (Columbia University),
David Kingsley (Stanford University),Tom Kornberg
(University of California, San Francisco), Richard Mann
(Columbia University), Andy McMahon (University
of Southern California), Marek Mlodzik (Mount Sinai
Hospital, New York), Patrick O’Farrell (University of
California, San Francisco), Duojia Pan (Johns Hopkins
RINGRAZIAMENTI
X
Medical School), Olivier Pourquie (Harvard Medical
School), Erez Raz (University of Muenster), Chris
Rushlow (New York University), Stephen Small (New
York University), Marc Tessier-Lavigne (Rockefeller
University)
Capitolo 22: Simon Hughes (King’s College London),
Rudolf Jaenisch (Massachusetts Institute of Technology),
Arnold Kriegstein (University of California, San
Francisco), Doug Melton (Harvard University), Stuart
Orkin (Harvard University),Thomas A. Reh (University
of Washington, Seattle), Amy Wagers (Harvard
University), Fiona M.Watt (Wellcome Trust Centre for
Stem Cell Research, UK), Douglas J.Winton (Cancer
Research UK), Shinya Yamanaka (Kyoto University)
Capitolo 23: Matthew Welch [contributo principale]
(University of California, Berkeley), Ari Helenius
(Swiss Federal Institute of Technology), Dan Portnoy
(University of California, Berkeley), David Sibley
(Washington University, St. Louis), Michael Way (Cancer
Research UK)
Capitolo 24: Lewis Lanier (University of California,
San Francisco).
Lettori: Najla Arshad (Indian Institute of Science),
Venice Chiueh (University of California, Berkeley),
Quyen Huynh (University of Toronto), Rachel Kooistra
(Loyola University, Chicago),Wes Lewis (University of
Alabama), Eric Nam (University of Toronto),Vladislav
Ryvkin (Stony Brook University), Laasya Samhita
(Indian Institute of Science), John Senderak (Jefferson
Medical College), Phillipa Simons (Imperial College,
UK), Anna Constance Vind (University of Copenhagen),
Steve Wellard (Pennsylvania State University), Evan
Whitehead (University of California, Berkeley), Carrie
Wilczewski (Loyola University, Chicago), Anna Wing
(Pennsylvania State University), John Wright (University
of Alabama)
Prima, seconda, terza, quarta e quinta
edizione: Jerry Adams (The Walter and Eliza Hall
Institute of Medical Research, Australia), Ralf Adams
(London Research Institute), David Agard (University of
California, San Francisco), Julie Ahringer (The Gurdon
Institute, UK), Michael Akam (University of
Cambridge), David Allis (The Rockefeller University),
Wolfhard Almers (Oregon Health and Science
University), Fred Alt (CBR Institute for Biomedical
Research, Boston), Linda Amos (MRC Laboratory of
Molecular Biology, Cambridge), Raul Andino
(University of California, San Francisco), Clay
Armstrong (University of Pennsylvania), Martha Arnaud
(University of California, San Francisco), Spyros
Artavanis-Tsakonas (Harvard Medical School), Michael
Ashburner (University of Cambridge), Jonathan
Ashmore (University College London), Laura Attardi
(Stanford University),Tayna Awabdy (University of
California, San Francisco), Jeffrey Axelrod (Stanford
University Medical Center), Peter Baker (deceduto),
David Baldwin (Stanford University), Michael Banda
(University of California, San Francisco), Cornelia
Bargmann (The Rockefeller University), Ben Barres
(Stanford University), David Bartel (Massachusetts
Institute of Technology), Konrad Basler (University of
© 978-88-08-62126-9
Zurich),Wolfgang Baumeister (Max Planck Institute of
Biochemistry), Michael Bennett (Albert Einstein
College of Medicine), Darwin Berg (University of
California, San Diego), Anton Berns (Netherlands
Cancer Institute), Merton Bernfield (Harvard Medical
School), Michael Berridge (The Babraham Institute,
Cambridge, UK),Walter Birchmeier (Max Delbrück
Center for Molecular Medicine, Germany), Adrian Bird
(Wellcome Trust Centre, UK), David Birk (UMDNJ—
Robert Wood Johnson Medical School), Michael Bishop
(University of California, San Francisco), Elizabeth
Blackburn (University of California, San Francisco),Tim
Bliss (National Institute for Medical Research, London),
Hans Bode (University of California, Irvine), Piet Borst
(Jan Swammerdam Institute, University of Amsterdam),
Henry Bourne (University of California, San Francisco),
Alan Boyde (University College London), Martin Brand
(University of Cambridge), Carl Branden (deceduto),
Andre Brandli (Swiss Federal Institute of Technology,
Zurich), Dennis Bray (University of Cambridge), Mark
Bretscher (MRC Laboratory of Molecular Biology,
Cambridge), James Briscoe (National Institute for
Medical Research, UK), Marianne Bronner-Fraser
(California Institute of Technology), Robert Brooks
(King’s College London), Barry Brown (King’s College
London), Michael Brown (University of Oxford),
Michael Bulger (University of Rochester Medical
Center), Fred Bunz (Johns Hopkins University), Steve
Burden (New York University of Medicine), Max
Burger (University of Basel), Stephen Burley (SGX
Pharmaceuticals), Keith Burridge (University of North
Carolina, Chapel Hill), John Cairns (Radcliffe Infirmary,
Oxford), Patricia Calarco (University of California, San
Francisco), Zacheus Cande (University of California,
Berkeley), Lewis Cantley (Harvard Medical School),
Charles Cantor (Columbia University), Roderick
Capaldi (University of Oregon), Mario Capecchi
(University of Utah), Michael Carey (University of
California, Los Angeles), Adelaide Carpenter (University
of California, San Diego), John Carroll (University
College London),Tom Cavalier-Smith (King’s College
London), Pierre Chambon (University of Strasbourg),
Hans Clevers (Hubrecht Institute,The Netherlands),
Enrico Coen (John Innes Institute, Norwich, UK),
Philip Cohen (University of Dundee, Scotland), Robert
Cohen (University of California, San Francisco),
Stephen Cohen (EMBL Heidelberg, Germany), Roger
Cooke (University of California, San Francisco), John
Cooper (Washington University School of Medicine, St.
Louis), Michael Cox (University of Wisconsin, Madison),
Nancy Craig (Johns Hopkins University), James Crow
(University of Wisconsin, Madison), Stuart Cull-Candy
(University College London), Leslie Dale (University
College London), Caroline Damsky (University of
California, San Francisco), Johann De Bono (The
Institute of Cancer Research, UK), Anthony DeFranco
(University of California, San Francisco), Abby
Dernburg (University of California, Berkeley), Arshad
Desai (University of California, San Diego), Michael
Dexter (The Wellcome Trust, UK), John Dick
(University of Toronto, Canada), Christopher Dobson
(University of Cambridge), Russell Doolittle (University
of California, San Diego),W. Ford Doolittle (Dalhousie
University, Canada), Julian Downward (Cancer Research
UK), Keith Dudley (King’s College London), Graham
Dunn (MRC Cell Biophysics Unit, London), Jim
RINGRAZIAMENTI
XI
© 978-88-08-62126-9
Dunwell (John Innes Institute, Norwich, UK), Bruce
Edgar (Fred Hutchinson Cancer Research Center,
Seattle), Paul Edwards (University of Cambridge),
Robert Edwards (University of California, San
Francisco), David Eisenberg (University of California,
Los Angeles), Sarah Elgin (Washington University, St.
Louis), Ruth Ellman (Institute of Cancer Research,
Sutton, UK), Beverly Emerson (The Salk Institute),
Charles Emerson (University of Virginia), Scott D. Emr
(Cornell University), Sharyn Endow (Duke University),
Lynn Enquist (Princeton University),Tariq Enver
(Institute of Cancer Research, London), David Epel
(Stanford University), Gerard Evan (University of
California, Comprehensive Cancer Center), Ray Evert
(University of Wisconsin, Madison), Matthias Falk
(Lehigh University), Stanley Falkow (Stanford
University), Douglas Fearon (University of Cambridge),
Gary Felsenfeld (NIH), Stuart Ferguson (University of
Oxford), James Ferrell (Stanford University), Christine
Field (Harvard Medical School), Daniel Finley (Harvard
University), Gary Firestone (University of California,
Berkeley), Gerald Fischbach (Columbia University),
Robert Fletterick (University of California, San
Francisco), Harvey Florman (Tufts University), Judah
Folkman (Harvard Medical School), Larry Fowke
(University of Saskatchewan, Canada), Jennifer Frazier
(Exploratorium¨, San Francisco), Matthew Freeman
(Laboratory of Molecular Biology, UK), Daniel Friend
(University of California, San Francisco), Elaine Fuchs
(University of Chicago), Joseph Gall (Carnegie
Institution of Washington), Richard Gardner (University
of Oxford), Anthony Gardner-Medwin (University
College London), Peter Garland (Institute of Cancer
Research, London), David Garrod (University of
Manchester, UK), Susan M. Gasser (University of Basel),
Walter Gehring (Biozentrum, University of Basel),
Benny Geiger (Weizmann Institute of Science, Rehovot,
Israel), Larry Gerace (The Scripps Research Institute),
Holger Gerhardt (London Research Institute), John
Gerhart (University of California, Berkeley), Günther
Gerisch (Max Planck Institute of Biochemistry), Frank
Gertler (Massachusetts Institute of Technology), Sankar
Ghosh (Yale University School of Medicine), Alfred
Gilman (The University of Texas Southwestern Medical
Center), Reid Gilmore (University of Massachusetts,
Amherst), Bernie Gilula (deceduto), Charles Gilvarg
(Princeton University), Benjamin S. Glick (University of
Chicago), Michael Glotzer (University of Chicago),
Larry Goldstein (University of California, San Diego),
Bastien Gomperts (University College Hospital Medical
School, London), Daniel Goodenough (Harvard Medical
School), Jim Goodrich (University of Colorado,
Boulder), Jeffrey Gordon (Washington University, St.
Louis), Peter Gould (Middlesex Hospital Medical
School, London), Alan Grafen (University of Oxford),
Walter Gratzer (King’s College London), Michael Gray
(Dalhousie University), Douglas Green (St. Jude
Children’s Hospital), Howard Green (Harvard
University), Michael Green (University of Massachusetts,
Amherst), Leslie Grivell (University of Amsterdam),
Carol Gross (University of California, San Francisco),
Frank Grosveld (Erasmus Universiteit,The Netherlands),
Michael Grunstein (University of California, Los
Angeles), Barry Gumbiner (Memorial Sloan Kettering
Cancer Center), Brian Gunning (Australian National
University, Canberra), Christine Guthrie (University of
California, San Francisco), James Haber (Brandeis
University), Ernst Hafen (Universitat Zurich), David
Haig (Harvard University), Andrew Halestrap
(University of Bristol, UK), Alan Hall (Memorial Sloan
Kettering Cancer Center), Jeffrey Hall (Brandeis
University), John Hall (University of Southampton, UK),
Zach Hall (University of California, San Francisco),
Douglas Hanahan (University of California, San
Francisco), David Hanke (University of Cambridge),
Nicholas Harberd (University of Oxford), Graham
Hardie (University of Dundee, Scotland), Richard
Harland (University of California, Berkeley), Adrian
Harris (Cancer Research UK), John Harris (University
of Otago, New Zealand), Stephen Harrison (Harvard
University), Leland Hartwell (University of Washington,
Seattle), Adrian Harwood (MRC Laboratory for
Molecular Cell Biology and Cell Biology Unit, London),
Scott Hawley (Stowers Institute for Medical Research,
Kansas City), Rebecca Heald (University of California,
Berkeley), John Heath (University of Birmingham, UK),
Ramanujan Hegde (NIH), Carl-Henrik Heldin
(Uppsala University), Ari Helenius (Swiss Federal
Institute of Technology), Richard Henderson (MRC
Laboratory of Molecular Biology, Cambridge, UK),
Glenn Herrick (University of Utah), Ira Herskowitz
(deceduto), Bertil Hille (University of Washington,
Seattle), Alan Hinnebusch (NIH, Bethesda), Brigid
Hogan (Duke University), Nancy Hollingsworth (State
University of New York, Stony Brook), Frank Holstege
(University Medical Center,The Netherlands), Leroy
Hood (Institute for Systems Biology, Seattle), John
Hopfield (Princeton University), Robert Horvitz
(Massachusetts Institute of Technology), Art Horwich
(Yale University School of Medicine), David Housman
(Massachusetts Institute of Technology), Joe Howard
(Max Planck Institute of Molecular Cell Biology and
Genetics), Jonathan Howard (University of Washington,
Seattle), James Hudspeth (The Rockefeller University),
Simon Hughes (King’s College London), Martin
Humphries (University of Manchester, UK),Tim Hunt
(Cancer Research UK), Neil Hunter (University of
California, Davis), Laurence Hurst (University of Bath,
UK), Jeremy Hyams (University College London),Tony
Hyman (Max Planck Institute of Molecular Cell Biology
and Genetics), Richard Hynes (Massachusetts Institute
of Technology), Philip Ingham (University of Sheffield,
UK), Kenneth Irvine (Rutgers University), Robin Irvine
(University of Cambridge), Norman Iscove (Ontario
Cancer Institute,Toronto), David Ish-Horowicz (Cancer
Research UK), Lily Jan (University of California, San
Francisco), Charles Janeway (deceduto),Tom Jessell
(Columbia University), Arthur Johnson (Texas A&M
University), Louise Johnson (deceduto), Andy Johnston
(John Innes Institute, Norwich, UK), E.G. Jordan
(Queen Elizabeth College, London), Ron Kaback
(University of California, Los Angeles), Michael Karin
(University of California, San Diego), Eric Karsenti
(European Molecular Biology Laboratory, Germany),
Ken Keegstra (Michigan State University), Ray Keller
(University of California, Berkeley), Douglas Kellogg
(University of California, Santa Cruz), Regis Kelly
(University of California, San Francisco), John
Kendrick-Jones (MRC Laboratory of Molecular
Biology, Cambridge), Cynthia Kenyon (University of
California, San Francisco), Roger Keynes (University of
Cambridge), Judith Kimble (University of Wisconsin,
RINGRAZIAMENTI
XII
Madison), Robert Kingston (Massachusetts General
Hospital), Marc Kirschner (Harvard University), Richard
Klausner (NIH), Nancy Kleckner (Harvard University),
Mike Klymkowsky (University of Colorado, Boulder),
Kelly Komachi (University of California, San Francisco),
Eugene Koonin (NIH), Juan Korenbrot (University of
California, San Francisco), Roger Kornberg (Stanford
University),Tom Kornberg (University of California,
San Francisco), Stuart Kornfeld (Washington University,
St. Louis), Daniel Koshland (University of California,
Berkeley), Douglas Koshland (Carnegie Institution of
Washington, Baltimore), Marilyn Kozak (University of
Pittsburgh), Mark Krasnow (Stanford University),
Werner Kühlbrandt (Max Planck Institute for
Biophysics), John Kuriyan (University of California,
Berkeley), Robert Kypta (MRC Laboratory for
Molecular Cell Biology, London), Peter Lachmann
(MRC Centre, Cambridge), Ulrich Laemmli (University
of Geneva, Switzerland),Trevor Lamb (University of
Cambridge), Hartmut Land (Cancer Research UK),
David Lane (University of Dundee, Scotland), Jane
Langdale (University of Oxford), Lewis Lanier
(University of California, San Francisco), Jay Lash
(University of Pennsylvania), Peter Lawrence (MRC
Laboratory of Molecular Biology, Cambridge), Paul
Lazarow (Mount Sinai School of Medicine), Robert J.
Lefkowitz (Duke University), Michael Levine
(University of California, Berkeley),Warren Levinson
(University of California, San Francisco), Alex Levitzki
(Hebrew University, Israel), Ottoline Leyser (University
of York, UK), Joachim Li (University of California, San
Francisco),Tomas Lindahl (Cancer Research UK),Vishu
Lingappa (University of California, San Francisco),
Jennifer Lippincott-Schwartz (NIH), Joseph Lipsick
(Stanford University School of Medicine), Dan Littman
(New York University School of Medicine), Clive Lloyd
(John Innes Institute, Norwich, UK), Richard Locksley
(University of California, San Francisco), Richard Losick
(Harvard University), Daniel Louvard (Institut Curie,
France), Robin Lovell-Badge (National Institute for
Medical Research, London), Scott Lowe (Cold Spring
Harbor Laboratory), Shirley Lowe (University of
California, San Francisco), Reinhard Lührman (Max
Planck Institute of Biophysical Chemistry), Michael
Lynch (Indiana University), Laura Machesky (University
of Birmingham, UK), Hiten Madhani (University of
California, San Francisco), James Maller (University of
Colorado Medical School),Tom Maniatis (Harvard
University), Colin Manoil (Harvard Medical School),
Elliott Margulies (NIH), Philippa Marrack (National
Jewish Medical and Research Center, Denver), Mark
Marsh (Institute of Cancer Research, London),Wallace
Marshall (University of California, San Francisco), Gail
Martin (University of California, San Francisco), Paul
Martin (University College London), Joan Massagué
(Memorial Sloan Kettering Cancer Center), Christopher
Mathews (Oregon State University), Brian McCarthy
(University of California, Irvine), Richard McCarty
(Cornell University),William McGinnis (University of
California, San Diego), Anne McLaren (Wellcome/
Cancer Research Campaign Institute, Cambridge),
Frank McNally (University of California, Davis),
Freiderick Meins (Freiderich Miescher Institut, Basel),
Stephanie Mel (University of California, San Diego), Ira
Mellman (Genentech), Barbara Meyer (University of
California, Berkeley), Elliot Meyerowitz (California
© 978-88-08-62126-9
Institute of Technology), Chris Miller (Brandeis
University), Robert Mishell (University of Birmingham,
UK), Avrion Mitchison (University College London),
N.A. Mitchison (University College London),Timothy
Mitchison (Harvard Medical School), Quinn Mitrovich
(University of California, San Francisco), Peter
Mombaerts (The Rockefeller University), Mark
Mooseker (Yale University), David Morgan (University
of California, San Francisco), Michelle Moritz
(University of California, San Francisco), Montrose
Moses (Duke University), Keith Mostov (University of
California, San Francisco), Anne Mudge (University
College London), Hans Müller-Eberhard (Scripps Clinic
and Research Institute), Alan Munro (University of
Cambridge), J. Murdoch Mitchison (Harvard
University), Richard Myers (Stanford University), Diana
Myles (University of California, Davis), Andrew Murray
(Harvard University), Shigekazu Nagata (Kyoto
University, Japan), Geeta Narlikar (University of
California, San Francisco), Kim Nasmyth (University of
Oxford), Mark E. Nelson (University of Illinois, UrbanaChampaign), Michael Neuberger (deceduto),Walter
Neupert (University of Munich, Germany), David
Nicholls (University of Dundee, Scotland), Roger Nicoll
(University of California, San Francisco), Suzanne Noble
(University of California, San Francisco), Harry Noller
(University of California, Santa Cruz), Jodi Nunnari
(University of California, Davis), Paul Nurse (Francis
Crick Institute), Roel Nusse (Stanford University),
Michael Nussenzweig (Rockefeller University), Duncan
O’Dell (deceduto), Patrick O’Farrell (University of
California, San Francisco), Bjorn Olsen (Harvard
Medical School), Maynard Olson (University of
Washington, Seattle), Stuart Orkin (Harvard University),
Terry Orr-Weaver (Massachusetts Institute of
Technology), Erin O’Shea (Harvard University), Dieter
Osterhelt (Max Planck Institute of Biochemistry),
William Otto (Cancer Research UK), John Owen
(University of Birmingham, UK), Dale Oxender
(University of Michigan), George Palade (deceduto),
Barbara Panning (University of California, San
Francisco), Roy Parker (University of Arizona,Tucson),
William W. Parson (University of Washington, Seattle),
Terence Partridge (MRC Clinical Sciences Centre,
London),William E. Paul (NIH),Tony Pawson
(deceduto), Hugh Pelham (MRC, UK), Robert Perry
(Institute of Cancer Research, Philadelphia), Gordon
Peters (Cancer Research UK), Greg Petsko (Brandeis
University), Nikolaus Pfanner (University of Freiburg,
Germany), David Phillips (The Rockefeller University),
Jeremy Pickett-Heaps (The University of Melbourne,
Australia), Jonathan Pines (Gurdon Institute,
Cambridge), Julie Pitcher (University College London),
Jeffrey Pollard (Albert Einstein College of Medicine),
Tom Pollard (Yale University), Bruce Ponder (University
of Cambridge), Daniel Portnoy (University of California,
Berkeley), James Priess (University of Washington,
Seattle), Darwin Prockop (Tulane University), Mark
Ptashne (Memorial Sloan Kettering Cancer Center),
Dale Purves (Duke University), Efraim Racker (Cornell
University), Jordan Raff (University of Oxford), Klaus
Rajewsky (Max Delbrück Center for Molecular
Medicine, Germany), George Ratcliffe (University of
Oxford), Elio Raviola (Harvard Medical School), Martin
Rechsteiner (University of Utah, Salt Lake City), David
Rees (National Institute for Medical Research, London),
RINGRAZIAMENTI
© 978-88-08-62126-9
Thomas A. Reh (University of Washington, Seattle),
Louis Reichardt (University of California, San
Francisco), Renee Reijo (University of California, San
Francisco), Caetano Reis e Sousa (Cancer Research
UK), Fred Richards (Yale University), Conly Rieder
(Wadsworth Center, Albany), Phillips Robbins
(Massachusetts Institute of Technology), Elizabeth
Robertson (The Wellcome Trust Centre for Human
Genetics, UK), Elaine Robson (University of Reading,
UK), Robert Roeder (The Rockefeller University), Joel
Rosenbaum (Yale University), Janet Rossant (Mount
Sinai Hospital,Toronto), Jesse Roth (NIH), Jim
Rothman (Memorial Sloan Kettering Cancer Center),
Rodney Rothstein (Columbia University), Erkki
Ruoslahti (La Jolla Cancer Research Foundation), Gary
Ruvkun (Massachusetts General Hospital), David
Sabatini (New York University), Alan Sachs (University
of California, Berkeley), Edward Salmon (University of
North Carolina, Chapel Hill), Aziz Sancar (University of
North Carolina, Chapel Hill), Joshua Sanes (Harvard
University), Peter Sarnow (Stanford University), Lisa
Satterwhite (Duke University Medical School), Robert
Sauer (Massachusetts Institute of Technology), Ken
Sawin (The Wellcome Trust Centre for Cell Biology,
UK), Howard Schachman (University of California,
Berkeley), Gerald Schatten (Pittsburgh Development
Center), Gottfried Schatz (Biozentrum, University of
Basel), Randy Schekman (University of California,
Berkeley), Richard Scheller (Stanford University),
Giampietro Schiavo (Cancer Research UK), Ueli
Schibler (University of Geneva, Switzerland), Joseph
Schlessinger (New York University Medical Center),
Danny J. Schnell (University of Massachusetts, Amherst),
Michael Schramm (Hebrew University, Israel), Robert
Schreiber (Washington University School of Medicine),
James Schwartz (Columbia University), Ronald
Schwartz (NIH), François Schweisguth (Institut Pasteur,
France), John Scott (University of Manchester, UK),
John Sedat (University of California, San Francisco),
Peter Selby (Cancer Research UK), Zvi Sellinger
(Hebrew University, Israel), Gregg Semenza (Johns
Hopkins University), Philippe Sengel (University of
Grenoble, France), Peter Shaw (John Innes Institute,
Norwich, UK), Michael Sheetz (Columbia University),
Morgan Sheng (Massachusetts Institute of Technology),
Charles Sherr (St. Jude Children’s Hospital), David
Shima (Cancer Research UK), Samuel Silverstein
(Columbia University), Melvin I. Simon (California
Institute of Technology), Kai Simons (Max Planck
Institute of Molecular Cell Biology and Genetics),
Jonathan Slack (Cancer Research UK), Alison Smith
(John Innes Institute, Norfolk, UK), Austin Smith
(University of Edinburgh, UK), Jim Smith (The Gurdon
Institute, UK), John Maynard Smith (University of
Sussex, UK), Mitchell Sogin (Woods Hole Institute),
Frank Solomon (Massachusetts Institute of Technology),
Michael Solursh (University of Iowa), Bruce Spiegelman
(Harvard Medical School),Timothy Springer (Harvard
Medical School), Mathias Sprinzl (University of
Bayreuth, Germany), Scott Stachel (University of
California, Berkeley), Andrew Staehelin (University of
Colorado, Boulder), David Standring (University of
California, San Francisco), Margaret Stanley (University
of Cambridge), Martha Stark (University of California,
San Francisco),Wilfred Stein (Hebrew University, Israel),
Malcolm Steinberg (Princeton University), Ralph
XIII
Steinman (deceduto), Len Stephens (The Babraham
Institute, UK), Paul Sternberg (California Institute of
Technology), Chuck Stevens (The Salk Institute),
Murray Stewart (MRC Laboratory of Molecular
Biology, Cambridge), Bruce Stillman (Cold Spring
Harbor Laboratory), Charles Streuli (University of
Manchester, UK), Monroe Strickberger (University of
Missouri, St. Louis), Robert Stroud (University of
California, San Francisco), Michael Stryker (University
of California, San Francisco),William Sullivan
(University of California, Santa Cruz), Azim Surani (The
Gurdon Institute, University of Cambridge), Daniel
Szollosi (Institut National de la Recherche
Agronomique, France), Jack Szostak (Harvard Medical
School), Clifford Tabin (Harvard Medical School),
Masatoshi Takeichi (RIKEN Center for Developmental
Biology, Japan), Nicolas Tapon (London Research
Institute), Diethard Tautz (University of Cologne,
Germany), Julie Theriot (Stanford University), Roger
Thomas (University of Bristol, UK), Craig Thompson
(Memorial Sloan Kettering Cancer Center), Janet
Thornton (European Bioinformatics Institute, UK),
Vernon Thornton (King’s College London), Cheryll
Tickle (University of Dundee, Scotland), Jim Till
(Ontario Cancer Institute,Toronto), Lewis Tilney
(University of Pennsylvania), David Tollervey (University
of Edinburgh, UK), Ian Tomlinson (Cancer Research
UK), Nick Tonks (Cold Spring Harbor Laboratory),
Alain Townsend (Institute of Molecular Medicine, John
Radcliffe Hospital, Oxford), Paul Travers (Scottish
Institute for Regeneration Medicine), Robert Trelstad
(UMDNJ—Robert Wood Johnson Medical School),
Anthony Trewavas (Edinburgh University, Scotland),
Nigel Unwin (MRC Laboratory of Molecular Biology,
Cambridge),Victor Vacquier (University of California,
San Diego), Ronald D.Vale (University of California,
San Francisco),Tom Vanaman (University of Kentucky),
Harry van der Westen (Wageningen,The Netherlands),
Harold Varmus (National Cancer Institute, United
States), Alexander J.Varshavsky (California Institute of
Technology), Donald Voet (University of Pennsylvania),
Harald von Boehmer (Harvard Medical School), Madhu
Wahi (University of California, San Francisco),Virginia
Walbot (Stanford University), Frank Walsh
(GlaxoSmithKline, UK),Trevor Wang (John Innes
Institute, Norwich, UK), Xiaodong Wang (The
University of Texas Southwestern Medical School),YuLie Wang (Worcester Foundation for Biomedical
Research, MA), Gary Ward (University of Vermont),
Anne Warner (University College London), Graham
Warren (Yale University School of Medicine), Paul
Wassarman (Mount Sinai School of Medicine), Clare
Waterman-Storer (The Scripps Research Institute),
Fiona Watt (Cancer Research UK), John Watts (John
Innes Institute, Norwich, UK), Klaus Weber (Max
Planck Institute for Biophysical Chemistry), Martin
Weigert (Institute of Cancer Research, Philadelphia),
Robert Weinberg (Massachusetts Institute of
Technology), Harold Weintraub (deceduto), Karsten Weis
(Swiss Federal Institute of Technology), Irving Weissman
(Stanford University), Jonathan Weissman (University of
California, San Francisco), Susan R.Wente (Vanderbilt
University School of Medicine), Norman Wessells
(University of Oregon, Eugene), Stephen West (Cancer
Research UK), Judy White (University of Virginia),
William Wickner (Dartmouth College), Michael Wilcox
RINGRAZIAMENTI
XIV
(deceduto), Lewis T.Williams (Chiron Corporation),
Patrick Williamson (University of Massachusetts,
Amherst), Keith Willison (Chester Beatty Laboratories,
London), John Wilson (Baylor University), Alan Wolffe
(deceduto), Richard Wolfenden (University of North
Carolina, Chapel Hill), Sandra Wolin (Yale University
School of Medicine), Lewis Wolpert (University College
London), Richard D.Wood (University of Pittsburgh
Cancer Institute), Abraham Worcel (University of
Rochester), Nick Wright (Cancer Research UK), John
© 978-88-08-62126-9
Wyke (Beatson Institute for Cancer Research, Glasgow),
Michael P.Yaffe (California Institute for Regenerative
Medicine), Kenneth M.Yamada (NIH), Keith Yamamoto
(University of California, San Francisco), Charles Yocum
(University of Michigan, Ann Arbor), Peter Yurchenco
(UMDNJ – Robert Wood Johnson Medical School),
Rosalind Zalin (University College London), Patricia
Zambryski (University of California, Berkeley), Marino
Zerial (Max Planck Institute of Molecular Cell Biology
and Genetics).
PARTE
1
INTRODUZIONE
ALLA
CELLULA
1
Cellule e genomi
2
Chimica
e bioenergetica
della cellula
3
Le proteine
CAPITOLO
1
• Le caratteristiche universali
delle cellule sulla Terra
• La diversità dei genomi
e l’albero della vita
• L’informazione genetica
negli eucarioti
Cellule e genomi
L
a superficie del nostro pianeta è popolata da esseri viventi, fabbriche chimiche organizzate in modo complesso che assumono materia dall’ambiente circostante e usano questo materiale grezzo per generare copie
di se stesse. Gli organismi viventi appaiono straordinariamente diversi. Che
cosa potrebbe esserci di più diverso di una tigre e un’alga, o di un batterio e
un albero? Tuttavia, i nostri antenati, senza sapere nulla di cellule o di DNA,
notarono che tutti questi organismi avevano qualcosa in comune. Essi chiamarono questo qualcosa “vita”, ne rimasero meravigliati, lottarono per definirla e disperarono di poter spiegare che cosa fosse o come funzionasse in relazione alla materia inanimata.
Le scoperte del secolo scorso non hanno diminuito la meraviglia, piuttosto il contrario. Ma hanno svelato il mistero che circonda la natura della vita. Oggi possiamo vedere che tutti gli esseri viventi sono costituiti da cellule:
piccole unità circondate da una membrana e piene di una soluzione acquosa
concentrata di sostanze chimiche, e con la straordinaria capacità di produrre
copie di se stesse crescendo e poi dividendosi in due.
Poiché le cellule sono le unità fondamentali della vita, dobbiamo rivolgerci
alla biologia cellulare – lo studio della struttura, della funzione e del comportamento delle cellule – per poter rispondere alle domande che cos’è la vita e come
funziona. Con una conoscenza più profonda delle cellule e della loro evoluzione, possiamo affrontare gli enormi problemi che tradizionalmente riguardano
la vita sulla Terra: le sue origini misteriose, la sua incredibile diversità e la sua
invasione di ogni habitat possibile. Come ha sottolineato tempo fa il pioniere della biologia cellulare E. B.Wilson, “la chiave di ogni problema biologico
deve essere ricercata nella cellula, dal momento che ogni essere vivente è, o in
qualche momento della sua storia è stato, una cellula”.
Gli esseri viventi, sebbene infinitamente diversi se osservati dall’esterno, sono fondamentalmente simili all’interno. L’intera biologia è un contrappunto
fra due temi: stupefacente varietà nei singoli particolari; stupefacente costanza nei meccanismi fondamentali. In questo primo capitolo iniziamo esaminando gli aspetti che sono universali in tutti gli esseri viventi del nostro pianeta. Quindi passiamo brevemente in rassegna la diversità delle cellule.Vediamo come, grazie al codice comune in cui sono scritte le specifiche per tutti
gli organismi viventi, sia possibile leggere, misurare e decifrare queste specifiche per ottenere una comprensione coerente di tutte le forme di vita, dalla
più piccola alla più grande.
Le caratteristiche universali
delle cellule sulla Terra
Si stima che vi siano più di 10 milioni – forse addirittura 100 milioni – di specie viventi oggi sulla Terra. Ciascuna specie è diversa e ciascuna si riproduce
fedelmente, generando una progenie che appartiene alla stessa specie: l’organismo genitore trasmette l’informazione che specifica le caratteristiche della
prole in modo straordinariamente dettagliato. Questo fenomeno dell’ereditarietà è parte centrale della definizione di vita: distingue la vita da altri processi, come la crescita di un cristallo, o una candela che brucia, o la formazione
di onde sull’acqua, in cui si generano strutture ordinate ma senza lo stesso tipo di legame fra le peculiarità dei genitori e quelle della progenie. Come la
fiamma di una candela, l’organismo vivente consuma energia libera per creare e mantenere la sua organizzazione; ma la vita utilizza l’energia libera per far
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
3
© 978-88-08-62126-9
avanzare un sistema estremamente complesso di processi chimici che è specificato dall’informazione ereditaria.
La maggior parte degli organismi viventi è costituita da cellule singole; altri, come noi, sono vaste “città” pluricellulari in cui gruppi di cellule svolgono funzioni specializzate e sono collegati da sistemi complessi di comunicazione. Ma anche l’aggregato di più di 1013 cellule che forma un corpo umano
è stato generato da divisioni cellulari a partire da una singola cellula (Figura
1.1). Questa cellula comprende il macchinario necessario a raccogliere materiali grezzi dall’ambiente e a costruire da essi una nuova cellula a sua immagine, completa di una nuova copia dell’informazione ereditaria. Ogni singola
cellula è assolutamente sorprendente.
■ Tutte le cellule conservano la loro informazione ereditaria
nello stesso codice chimico lineare: il DNA
I computer ci hanno reso familiare il concetto di informazione come quantità misurabile: un milione di byte che corrispondono a qualche centinaio di
pagine di testo o a un’immagine di una macchina fotografica digitale, 600
milioni per la musica su un CD, e così via. Essi ci hanno anche reso coscienti del fatto che la stessa informazione può essere registrata in molte forme fisiche diverse: i dischi e i nastri che usavamo venti anni fa per i nostri archivi
elettronici sono diventati illeggibili sulle macchine di oggi. Le cellule viventi, come i computer, hanno a che fare con l’informazione e si stima che abbiano continuato a evolversi e a diversificarsi per più di 3,5 miliardi di anni.
È difficile aspettarsi che debbano tutte conservare le loro informazioni nella stessa forma o che gli archivi di un tipo di cellula debbano essere leggibili
dal macchinario che gestisce le informazioni di un’altra. Eppure è così. Tutte
le cellule viventi sulla Terra conservano la loro informazione ereditaria sotto
forma di molecole a doppio filamento di DNA – lunghe catene polimeriche
accoppiate senza ramificazioni, formate sempre dagli stessi quattro tipi di monomeri. Questi monomeri hanno nomi derivati da un alfabeto a quattro lettere – A,T, C, G – e sono attaccati insieme in una lunga sequenza lineare che
codifica l’informazione genetica, proprio come la sequenza di 1 e 0 codifica
l’informazione in un file di computer. Possiamo prendere un tratto di DNA
da una cellula umana e inserirlo in un batterio, o un pezzo di DNA batterico e inserirlo in una cellula umana, e l’informazione verrà letta, interpretata
e copiata con successo. Usando metodi chimici, i ricercatori possono leggere
(A)
(B)
(C)
100 µm
(D)
Figura 1.1 L’informazione
ereditaria nella cellula uovo
fecondata determina la
natura dell’intero organismo
pluricellulare. Sebbene le loro cellule
di partenza sembrino esteriormente
simili, un uovo di riccio di mare dà
origine a un riccio di mare (A e B). Un
uovo di topo dà origine a un topo (C e
D). Un uovo dell’alga Fucus dà origine
a un’alga Fucus (E ed F). (A, per
gentile concessione di David McClay;
B, per gentile concessione di M.
Gibbs, Oxford Scientific Films; C, per
gentile concessione di Patricia Calarco,
da G. Martin, Science 209: 768776, 1980. © AAAS; D, per gentile
concessione di O. Newman, Oxford
Scientific Films; E ed F, per gentile
concessione di Colin Brownlee.)
(E)
50 µm
(F)
50 µm
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
4
© 978-88-08-62126-9
la sequenza completa di monomeri in qualunque molecola di DNA – che si
estende per milioni di nucleotidi – e così decifrare l’informazione ereditaria
contenuta in ciascun organismo.
■ Tutte le cellule replicano la loro informazione ereditaria
mediante polimerizzazione su stampo
I meccanismi che rendono possibile la vita dipendono dalla struttura della
molecola di DNA a doppio filamento. Ciascun monomero in un singolo filamento di DNA – cioè, ciascun nucleotide – consiste di due parti: uno zucchero (deossiribosio) con un gruppo fosfato attaccato, e una base, che può essere adenina (A), guanina (G), citosina (C) o timina (T) (Figura 1.2). Ciascuno
zucchero è legato al successivo tramite il gruppo fosfato, creando una catena
polimerica composta da un’ossatura ripetitiva zucchero-fosfato con una serie
di basi che sporgono da un lato. Il polimero di DNA viene esteso aggiungendo monomeri a una estremità. I monomeri possono, in linea di principio, essere aggiunti in qualunque ordine a un filamento singolo isolato, perché ciascuno si lega al successivo nello stesso modo, tramite la parte della molecola
che è uguale per tutti. Nella cellula vivente però il DNA non è sintetizzato
come un filamento libero isolato, ma su uno stampo formato da un filamento
(A)
componenti del DNA
(D)
DNA a doppio filamento
fosfato
zucchero
+
zucchero
fosfato
(B)
G
G
base
nucleotide
A
T
T
G
C
C
A
G
T
G
T
A
A
C
G
G
T
C
A
filamento di DNA
G
T
A
A
C
G
G
T
ossatura
di zucchero-fosfato
A
C
(E)
(C)
C
coppie di basi unite
da legami idrogeno
doppia elica di DNA
polimerizzazione su stampo del nuovo filamento
monomeri
di nucleotidi
C
C
A
A
C
T
T
A
G
C
G
G
T
T
G
T
T
A
G
G
G
G
A
C
A
A
G
C
T
C
A
Figura 1.2 Il DNA e le unità che lo compongono.
(A) Il DNA è composto da subunità semplici, chiamate
nucleotidi, ciascuna consistente di una molecola di zuccherofosfato con attaccato un gruppo laterale contenente azoto,
o base. Le basi sono di quattro tipi (adenina, guanina,
citosina e timina), che corrispondono a quattro distinti
nucleotidi, indicati come A, G, C e T. (B) Un singolo filamento
di DNA è costituito da nucleotidi uniti da legami zuccherofosfato. Si noti che le singole unità di zucchero-fosfato
sono asimmetriche e danno all’ossatura del filamento una
direzionalità definita, o polarità. Questa direzionalità guida
i processi molecolari tramite i quali l’informazione nel DNA
viene interpretata e copiata nelle cellule: l’informazione è
sempre “letta” in un ordine definito, proprio come il testo
scritto in italiano viene letto da sinistra a destra. (C) Tramite
polimerizzazione su stampo la sequenza di nucleotidi di
C
G
A
C
C
A
un filamento esistente di DNA controlla la sequenza in cui
i nucleotidi vengono uniti in un nuovo filamento di DNA;
T su un filamento si accoppia con A nell’altro, e G in un
filamento si accoppia con C nell’altro. Il nuovo filamento
ha una sequenza nucleotidica complementare a quella del
vecchio filamento e un’ossatura con direzionalità opposta:
in corrispondenza con il GTAA... del filamento originale esso
ha ...TTAC. (D) Una normale molecola di DNA consiste di due
filamenti complementari di questo tipo. I nucleotidi all’interno
di ciascun filamento sono uniti da legami chimici forti
(covalenti); i nucleotidi complementari su filamenti opposti
sono tenuti insieme più debolmente da legami idrogeno.
(E) I due filamenti si avvolgono l’uno sull’altro formando
una doppia elica, una struttura robusta che può contenere
qualunque sequenza di nucleotidi senza alterare la propria
struttura di base (Vedi Filmato 4.1).
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
5
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filamento stampo
nuovo filamento
Figura 1.3 La duplicazione
dell’informazione genetica
mediante replicazione del DNA.
In questo processo i due filamenti di
una doppia elica di DNA sono separati
e ciascuno di essi serve da stampo
per la sintesi di un nuovo filamento
complementare.
nuovo filamento
doppia elica parentale di DNA
filamento stampo
preesistente di DNA. Le basi che sporgono dal filamento esistente si legano a
basi del filamento che viene sintetizzato, secondo una regola rigida definita da
strutture complementari delle basi: A si lega a T e C si lega a G. Questi appaiamenti delle basi mantengono i nuovi monomeri in posizione e quindi controllano la scelta di quale dei quattro monomeri verrà aggiunto al filamento in
crescita. In questo modo si crea una struttura a doppio filamento, che consiste
di due sequenze esattamente complementari di A, C,T e G. I due filamenti si
avvolgono l’uno intorno all’altro, formando una doppia elica (Figura 1.2E).
I legami fra le coppie di basi sono deboli in confronto ai legami zucchero-fosfato e ciò permette ai due filamenti di DNA di separarsi senza che l’ossatura si rompa. Ciascun filamento può quindi servire da stampo, nel modo appena descritto, per la sintesi di un nuovo filamento di DNA complementare a
se stesso, cioè una nuova copia dell’informazione ereditaria (Figura 1.3). In tipi
diversi di cellule questo processo di replicazione del DNA avviene a velocità differenti, con controlli diversi per iniziarlo o fermarlo, e con molecole ausiliarie differenti. Ma le basi sono universali: il DNA è il depositario dell’informazione e la polimerizzazione su stampo è il modo in cui questa informazione è
copiata in tutto il mondo vivente.
■ Tutte le cellule trascrivono porzioni della loro informazione
ereditaria nella stessa forma intermedia: l’RNA
Per svolgere la sua funzione di deposito dell’informazione il DNA deve fare
ben più che copiare se stesso. Deve anche esprimere la sua informazione, usandola per guidare la sintesi di altre molecole nella cellula. Anche questo processo avviene tramite un meccanismo che è lo stesso in tutti gli organismi viventi e che porta soprattutto alla produzione di due altre classi chiave di polimeri: RNA e proteine. Il processo (discusso in dettaglio nei Capitoli 6 e 7) inizia
con una polimerizzazione su stampo chiamata trascrizione, in cui segmenti della sequenza del DNA sono usati come stampo per guidare la sintesi di
molecole più corte del polimero, strettamente correlato, acido ribonucleico, o RNA. In seguito, nel processo più complesso della traduzione, molte
di queste molecole di RNA dirigono la sintesi di polimeri di una classe chimica radicalmente diversa, le proteine (Figura 1.4).
Nell’RNA l’ossatura è formata da uno zucchero leggermente diverso da
quello del DNA – ribosio invece di deossiribosio – e una delle quattro basi
è leggermente diversa: uracile (U) al posto di timina (T); ma le altre tre basi – A, C e G – sono le stesse, e tutte e quattro le basi si accoppiano con le
loro controparti complementari nel DNA: A, U, C e G dell’RNA con T, A,
G e C del DNA. Durante la trascrizione, i monomeri dell’RNA sono allineati e scelti per la polimerizzazione su un filamento stampo di DNA nello
stesso modo in cui i monomeri del DNA sono selezionati durante la replicazione. Il risultato è perciò un polimero la cui sequenza di nucleotidi rappresenta fedelmente una parte dell’informazione genetica della cellula, anche se scritta in un alfabeto leggermente diverso, che consiste di monomeri
di RNA invece che di monomeri di DNA.
Lo stesso segmento di DNA può essere usato ripetutamente per guidare la
sintesi di molti trascritti identici di RNA. Quindi, mentre l’archivio dell’infor-
DNA
sintesi del DNA
REPLICAZIONE
nucleotidi
DNA
sintesi dell’RNA
TRASCRIZIONE
RNA
sintesi proteica
TRADUZIONE
PROTEINA
amminoacidi
Figura 1.4 Da DNA a proteina.
L’informazione genetica viene letta
e utilizzata mediante un processo in
due passaggi. Per prima cosa, nella
trascrizione, segmenti della sequenza
del DNA sono usati per dirigere la
sintesi di molecole di RNA. Quindi,
nella traduzione, le molecole di RNA
sono usate per dirigere la sintesi di
molecole proteiche.
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
6
© 978-88-08-62126-9
MOLECOLE DI RNA COME TRASPORTATORI
DI INFORMAZIONI
DNA A DOPPIO FILAMENTO COME
ARCHIVIO DI INFORMAZIONI
TRASCRIZIONE
filamento usato come stampo
per dirigere la sintesi di RNA
molti trascritti
identici di RNA
Figura 1.5 Il modo in cui
l’informazione genetica è
trasmessa per essere usata
all’interno della cellula. Ciascuna
cellula contiene una serie fissa di
molecole di DNA, il suo archivio di
informazione genetica. Un dato
segmento di questo DNA ha la
funzione di guidare la sintesi di molti
trascritti identici di RNA, che servono
da copie di lavoro dell’informazione
conservata nell’archivio. Si possono
produrre molte serie diverse di
molecole di RNA trascrivendo parti
selezionate di una lunga sequenza di
DNA, permettendo così a ciascuna
cellula di usare il suo deposito di
informazioni in modo diverso.
mazione genetica della cellula sotto forma di DNA è fisso e sacrosanto, i trascritti di RNA sono prodotti in massa e sono monouso (Figura 1.5). Come vedremo, questi trascritti agiscono da intermedi nel trasferimento dell’informazione genetica: servono soprattutto da RNA messaggero (mRNA) che guida la sintesi di proteine secondo le istruzioni genetiche conservate nel DNA.
Le molecole di RNA hanno strutture caratteristiche che possono anche
conferire loro altre capacità chimiche specializzate. Essendo a singolo filamento, la loro ossatura è flessibile, così che la catena polimerica può ripiegarsi all’indietro su se stessa per permettere a una parte della molecola di formare deboli legami con un’altra parte della stessa molecola. Ciò avviene quando segmenti della sequenza sono localmente complementari: un segmento
...GGGG..., per esempio, tenderà ad associarsi a un segmento ...CCCC... Questi tipi di associazioni interne possono causare il ripiegamento di una catena
di RNA in una forma specifica che è dettata dalla sua sequenza (Figura 1.6).
La forma della molecola di RNA, a sua volta, può permetterle di riconoscere
altre molecole a cui si lega selettivamente (e anche, in certi casi, di catalizzare
modificazioni chimiche nelle molecole legate). Come vedremo nel Capitolo 6, alcune reazioni chimiche catalizzate da molecole di RNA sono cruciali
per parecchi dei più antichi e fondamentali processi delle cellule viventi, ed è
stato ipotizzato che una catalisi più estesa da parte dell’RNA abbia avuto un
ruolo centrale nelle prime fasi dell’evoluzione della vita.
■ Tutte le cellule usano proteine come catalizzatori
Le proteine, come le molecole di DNA e di RNA, sono lunghe catene polimeriche non ramificate, formate dall’unione in serie di unità monomeriche
derivate da un repertorio standard che è lo stesso in tutte le cellule viventi.
Come il DNA e l’RNA, portano l’informazione sotto forma di una sequenza
lineare di simboli, proprio come un messaggio umano scritto usando un alfa-
G
U
A
U
C
A
U
A
Figura 1.6 La conformazione
di una molecola di RNA.
(A) L’appaiamento di nucleotidi fra
regioni diverse della stessa catena
polimerica di RNA fa adottare alla
molecola una forma caratteristica.
(B) La struttura tridimensionale di
una reale molecola di RNA, dal virus
dell’epatite delta, che catalizza la
rottura del filamento di RNA. Il nastro
blu rappresenta l’ossatura di zuccherofosfato; le barre rappresentano coppie
di basi. (vedi Filmato 6.1)
(B, basata su A.R. Ferré D’Amaré, K.
Zhou e J.A. Doudna, Nature 395:567574, 1998. Per gentile concessione di
MacMillan Publishers Ltd.)
G
C
C
A
G
U
U
A
G
C
C
G
C
CC U
G GG
(A)
A
A
G
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U
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A
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G
A
A
U
U
U
A
U
G
C
A
U
U
A
C
G
U
A
AAA
UU
U
(B)
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
7
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beto. In ogni cellula ci sono molte proteine diverse, che – se non consideriamo l’acqua – costituiscono la maggior parte della massa cellulare.
I monomeri delle proteine, gli amminoacidi, sono molto diversi da quelli del DNA e dell’RNA, e ce ne sono 20 tipi invece di 4. Ciascun amminoacido è costruito intorno alla stessa struttura centrale attraverso la quale può
essere legato in un modo standard a qualunque altro amminoacido della serie; attaccato a questo nucleo si trova un gruppo laterale che conferisce a ciascun amminoacido un carattere chimico specifico. Ciascuna molecola proteica è un polipeptide, creato unendo amminoacidi in una sequenza particolare. Attraverso miliardi di anni di evoluzione, questa sequenza è stata selezionata in modo da dare alla proteina una funzione utile. Quindi, ripiegandosi in
una forma tridimensionale precisa con siti reattivi sulla sua superficie (Figura
1.7A), questi polimeri di amminoacidi possono legare con alta specificità altre
molecole e possono agire da enzimi che catalizzano reazioni in cui si formano o si spezzano legami covalenti. In questo modo dirigono la grande maggioranza dei processi chimici nella cellula (Figura 1.7B).
Le proteine hanno anche una quantità di altre funzioni – mantenere strutture, generare movimenti, rilevare segnali, e così via – e ciascuna molecola
proteica svolge una funzione peculiare secondo la propria sequenza di amminoacidi specificata geneticamente. Le proteine sono soprattutto le molecole
che mettono in opera l’informazione genetica della cellula.
Quindi i polinucleotidi specificano le sequenze amminoacidiche delle
proteine. Le proteine, a loro volta, catalizzano molte reazioni chimiche, comprese quelle che portano alla sintesi di nuove molecole di DNA. Da un punto di vista di base, una cellula vivente è un insieme di catalizzatori in grado
di autoreplicarsi che catturano cibo, elaborano questo cibo per derivarne sia
le unità molecolari da costruzione che l’energia necessari per formare altri
catalizzatori e scartare il materiale non utilizzato come rifiuto (Figura 1.8A).
Un circuito a feedback che collega proteine e polinucleotidi costituisce la
base di questo comportamento autocatalitico e capace di autoriprodursi degli organismi viventi (Figura 1.8B).
■ Tutte le cellule traducono RNA in proteine allo stesso modo
Negli anni ’50 era ancora un mistero il modo in cui l’informazione codificata
nel DNA specifichi la produzione di proteine, quando si scoprì che la struttura
a doppia elica del DNA era alla base dell’ereditarietà; ma negli anni successivi gli scienziati hanno dipanato l’elegante meccanismo che ne è responsabile.
La traduzione dell’informazione genetica dall’alfabeto a 4 lettere dei polinucleotidi nell’alfabeto a 20 lettere delle proteine è un processo complesso. Le
regole di questa traduzione sembrano per alcuni aspetti chiare e razionali, ma
per altri aspetti stranamente arbitrarie, dato che sono (con piccole eccezioni)
catena
di polisaccaride
+
+
sito catalitico
(B)
molecola
di lisozima
Figura 1.7 Il modo in cui una molecola proteica agisce da catalizzatore per una
(A) lisozima
reazione chimica. (A) In una molecola proteica la catena polimerica si ripiega in una
forma specifica definita dalla sua sequenza di amminoacidi. Una fessura sulla superficie di
questa particolare molecola ripiegata, l’enzima lisozima, forma un sito catalitico. (B) Una
molecola di polisaccaride (rosso) – una catena polimerica di monomeri di zuccheri – si lega
al sito catalitico del lisozima e viene spezzata, come risultato di una reazione di rottura di
un legame covalente catalizzata dagli amminoacidi che rivestono la fessura (vedi Filmato
3.9) (Codice PDB: 1LYD).
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
8
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(A)
CIBO IN ENTRATA
RIFIUTI IN USCITA
(B)
amminoacidi
nucleotidi
unità
molecolari
fondamentali
energia
funzione
catalitica
insieme di catalizzatori
della cellula
proteine
informazione
di sequenza
polinucleotidi
I CATALIZZATORI DELLA CELLULA
COLLABORANO TRA DI LORO PER RIPRODURRE
L’INTERO INSIEME DI CATALIZZATORI
PRIMA DELLA DIVISIONE CELLULARE
Figura 1.8 La vita come processo
autocatalitico. (A) La cellula come
una collezione di catalizzatori che si
autoreplicano. (B) Polinucleotidi (gli
acidi nucleici DNA e RNA, che sono
polimeri di nucleotidi) forniscono
l’informazione della sequenza mentre
le proteine (polimeri di amminoacidi)
forniscono la maggior parte delle
funzioni catalitiche che servono –
attraverso una serie complessa di
reazioni chimiche – a eseguire la
sintesi di ulteriori polinucleotidi e
proteine degli stessi tipi.
identiche in tutti gli esseri viventi. Si ritiene che questi aspetti arbitrari riflettano incidenti “congelati” nella storia precoce della vita: proprietà casuali dei
primi organismi che sono state trasmesse come eredità e sono diventate così
profondamente inglobate nella costituzione di tutte le cellule viventi da non
potere essere cambiate senza effetti disastrosi.
L’informazione nella sequenza di una molecola di RNA messaggero è letta
in gruppi di tre nucleotidi alla volta: ciascuna tripletta di nucleotidi, o codone,
specifica (codifica) un singolo amminoacido in una proteina corrispondente.
Poiché il numero di triplette diverse che può formarsi a partire da 4 nucleotidi è 43, vi sono 64 codoni possibili, tutti esistenti in natura.Tuttavia, ci sono
soltanto 20 amminoacidi presenti in natura. Questo significa che devono per
forza esserci molti casi in cui diversi codoni corrispondono allo stesso amminoacido. Questo codice genetico è letto da una classe speciale di piccole molecole di RNA, gli RNA transfer (tRNA). Ciascun tipo di tRNA ha attaccato
a una estremità un amminoacido specifico e porta all’altra estremità una sequenza specifica di tre nucleotidi – un anticodone – che gli permette, tramite
appaiamento di basi, di riconoscere un codone particolare o un gruppo di codoni nell’mRNA. La chimica intricata che consente a questi tRNA di tradurre una specifica sequenza di nucleotidi A, C, G e U presenti in una molecola
di mRNA nella specifica sequenza di amminoacidi che forma una molecola
proteica è possibile grazie al ribosoma, una gigantesca macchina multimolecolare formata sia da proteine sia da RNA ribosomiale. Tutti questi processi sono
descritti in dettaglio nel Capitolo 6.
■ Ogni proteina • codificata da un gene specifico
Le molecole di DNA di regola sono molto grandi e contengono le specifiche di
migliaia di proteine. Sequenze speciali nel DNA fungono da punteggiatura, definendo dove inizia e dove finisce l’informazione per ciascuna proteina. Singoli segmenti dell’intera sequenza di DNA sono trascritti in molecole di mRNA
separate e ciascun segmento codifica una proteina diversa. Ciascuno di questi segmenti di DNA rappresenta un gene. Una complicazione è rappresentata dal fatto che le molecole di RNA trascritte dallo stesso segmento di DNA
possono essere spesso modificate in più di un modo, dando origine a una serie
di versioni alternative di una proteina, specialmente nelle cellule più complesse come quelle dei vegetali e degli animali. Inoltre, alcuni segmenti di DNA
– un numero più piccolo – sono trascritti in molecole di RNA che non vengono tradotte ma che hanno funzioni catalitiche, regolatorie o strutturali; tali segmenti di DNA sono considerati geni. Un gene è perciò definito come il
segmento di sequenza di DNA che corrisponde a una singola proteina o a una
serie di varianti alternative di una proteina o a una singola molecola catalitica,
regolatrice o strutturale di RNA.
In tutte le cellule l’espressione dei singoli geni è regolata: invece di produrre
continuamente l’intero repertorio di proteine possibili a gran velocità, la cellula regola il tasso di trascrizione e di traduzione di geni diversi in modo indipendente, secondo le necessità.Tratti di DNA regolatore sono sparsi fra i seg-
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
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menti che codificano proteine e queste regioni non codificanti legano speciali
molecole proteiche che controllano la velocità locale di trascrizione. La quantità e l’organizzazione del DNA regolatore e dell’altro DNA non codificante
variano moltissimo da una classe di organismi a un’altra, ma la strategia di base è universale. In questo modo il genoma della cellula – cioè il totale della
sua informazione genetica contenuta nella sua sequenza completa di DNA –
detta non solo la natura delle proteine della cellula, ma anche quando e dove
queste devono essere prodotte.
■ La vita richiede energia libera
Una cellula vivente è un sistema chimico dinamico, che funziona ben lungi
dall’equilibrio chimico. Affinché la cellula cresca o produca una nuova cellula
a sua immagine, essa deve assumere energia libera dall’ambiente, oltre a materiali grezzi, per spingere le necessarie reazioni di sintesi. Questo consumo di
energia libera è fondamentale per la vita. Quando si arresta, una cellula decade verso l’equilibrio chimico e rapidamente muore.
Anche l’informazione genetica è fondamentale per la vita ed è necessaria
energia libera per propagare questa informazione. Per esempio, specificare un
bit di informazione – cioè una scelta sì/no fra due alternative egualmente probabili – costa una quantità definita di energia libera che può essere calcolata.
La relazione quantitativa richiede dei ragionamenti complessi e dipende dalla
definizione precisa del termine “energia libera”, che sarà discussa nel Capitolo
2. L’idea fondamentale, tuttavia, non è difficile da comprendere intuitivamente.
Immaginate le molecole presenti in una cellula come uno sciame di oggetti dotati di energia termica, che si muovono violentemente a caso, urtandosi in continuazione. Per specificare l’informazione genetica – sotto forma
di una sequenza di DNA, per esempio – le molecole devono essere catturate
da questa “folla selvaggia”, disposte in un ordine specifico definito da qualche
stampo preesistente, e unite in una relazione fissa. I legami che trattengono le
molecole nei punti appropriati sullo stampo e le uniscono tra loro devono essere abbastanza forti da resistere all’effetto che crea disordine del movimento
termico. Il processo è spinto in avanti dal consumo di energia libera, necessario per assicurare che si formino i legami corretti e che questi siano robusti. Nel caso più semplice le molecole possono essere paragonate a trappole
a molla, pronte a scattare in uno stato più stabile, legato con minore energia
quando incontrano i partner appropriati; nel momento in cui scattano insieme nella disposizione legata, l’energia immagazzinata disponibile – l’energia
libera – come l’energia della molla della trappola, viene rilasciata e dissipata
sotto forma di calore. In una cellula i processi chimici sottostanti al trasferimento dell’informazione sono più complessi, ma si applica lo stesso principio
di base: si deve spendere energia libera per creare ordine.
Per replicare fedelmente la sua informazione genetica e di fatto per produrre tutte le sue molecole complesse secondo le specificazioni corrette la cellula richiede perciò energia libera, che deve essere importata in qualche modo
dall’ambiente circostante. Come vedremo nel Capitolo 2 l’energia libera necessaria alle cellule animali deriva dai legami chimici presenti nelle molecole
costituenti il cibo che l’animale mangia, mentre le piante ottengono la loro
energia libera dalla luce solare.
■ Tutte le cellule funzionano come fabbriche biochimiche
che utilizzano le stesse unitˆ molecolari di base
Poiché tutte le cellule producono DNA, RNA e proteine e queste macromolecole sono composte dalla stessa serie di subunità in tutti i casi, tutte le cellule
devono contenere e manipolare un insieme simile di piccole molecole, fra cui
zuccheri semplici, nucleotidi e amminoacidi, oltre ad altre sostanze che sono
richieste universalmente.Tutte le cellule, per esempio, necessitano del nucleotide fosforilato ATP (adenosina trifosfato) come unità da costruzione per la sintesi di DNA e RNA; e tutte le cellule producono e consumano questa molecola anche come trasportatore di energia libera e gruppi fosfato per spingere
un enorme numero di reazioni chimiche nella cellula.
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CAPITOLO 1 Cellule e genomi
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Sebbene tutte le cellule funzionino come fabbriche biochimiche sotto
molti aspetti di tipo simile, molti dettagli delle loro transazioni di piccole molecole differiscono. Alcuni organismi, come i vegetali, richiedono soltanto i
nutrienti più semplici e imbrigliano l’energia della luce solare per produrre
quasi tutte le loro piccole molecole organiche; altri organismi, come gli animali, si nutrono di esseri viventi e ottengono molte delle loro molecole organiche già pronte.Torneremo su questo punto più avanti.
■ Tutte le cellule sono racchiuse da una membrana
plasmatica attraverso la quale devono passare i nutrienti
e i materiali di rifiuto
monostrato
fosfolipidico
OLIO
doppio
strato
fosfolipidico
ACQUA
Figura 1.9 Formazione di una
membrana da parte di molecole
anfipatiche di fosfolipidi.
I fosfolipidi hanno un gruppo di testa
idrofilico (che ama l’acqua, fosfato)
e una coda idrofobica (che evita
l’acqua, idrocarburo). All’interfaccia
fra olio e acqua essi si dispongono
come un singolo foglio con i gruppi di
testa verso l’acqua e i gruppi di coda
verso l’olio. Quando sono immersi in
acqua si aggregano formando doppi
strati che racchiudono compartimenti
acquosi, come indicato nella figura.
Un’altra caratteristica universale è la seguente: ogni cellula è circondata da
una membrana, la membrana plasmatica. Questo contenitore agisce da
barriera selettiva che permette alla cellula di concentrare i nutrienti raccolti
dall’ambiente e di trattenere i prodotti che sintetizza per il proprio uso, mentre espelle i suoi prodotti di rifiuto. Senza una membrana plasmatica la cellula non potrebbe mantenere la sua integrità come sistema chimico coordinato.
Le molecole che formano questa membrana hanno la semplice proprietà
fisico-chimica di essere anfipatiche, cioè consistono di una parte che è idrofobica (insolubile in acqua) e di un’altra parte che è idrofilica (solubile in acqua).
Quando molecole di questo tipo sono poste in acqua si aggregano spontaneamente, disponendo le loro porzioni idrofobiche il più possibile in contatto fra
loro per allontanarle dall’acqua e tenendo esposte le loro porzioni idrofiliche.
Molecole anfipatiche di forma appropriata, come i fosfolipidi che compongono la maggior parte della membrana plasmatica, si aggregano spontaneamente in acqua formando un doppio strato che crea piccole vescicole chiuse
(Figura 1.9). Il fenomeno può essere dimostrato in una provetta semplicemente mescolando insieme fosfolipidi e acqua; in condizioni appropriate si formano piccole vescicole il cui contenuto acquoso è isolato dal mezzo esterno.
Sebbene i dettagli chimici varino, le code idrofobiche delle molecole predominanti delle membrane di tutte le cellule sono polimeri idrocarburici
(–CH2–CH2–CH2–) e il loro assemblaggio spontaneo in una vescicola a doppio strato non è che uno dei molti esempi di un importante principio generale: le cellule producono molecole le cui proprietà chimiche ne provocano
l’autoassemblaggio nelle strutture di cui la cellula ha bisogno.
Il confine della cellula non può essere totalmente impermeabile. Se una
cellula deve crescere e riprodursi, essa deve essere capace di importare materiali grezzi ed esportare i rifiuti attraverso la sua membrana plasmatica.Tutte
le cellule perciò hanno proteine specializzate immerse nella loro membrana che servono a trasportare molecole specifiche da un lato all’altro. Alcune di queste proteine di trasporto di membrana, come alcune delle proteine che
catalizzano le reazioni fondamentali delle piccole molecole all’interno della cellula, si sono conservate così bene nel corso dell’evoluzione che è possibile riconoscere le somiglianze di famiglia fra di esse anche confrontando
i gruppi più distanti di organismi viventi.
Le proteine di trasporto di membrana determinano in gran parte quali
molecole entrano nella cellula e le proteine catalitiche all’interno della cellula
determinano le reazioni che queste molecole subiscono. Quindi, specificando
la serie di proteine che la cellula deve produrre, l’informazione genetica registrata nella sequenza del DNA detta l’intera chimica della cellula; e non solo
la sua chimica, ma anche la sua forma e il suo comportamento, poiché anche
questi sono costruiti e controllati principalmente dalle proteine della cellula.
■ Ci pu˜ essere una cellula vivente con meno di 500 geni
I principi di base del trasferimento dell’informazione biologica sono abbastanza semplici, ma quanto sono complesse le vere cellule viventi? In particolare,
quali sono i requisiti minimi? Possiamo ottenere un’indicazione approssimativa considerando la specie che ha il genoma più piccolo conosciuto, il batterio Mycoplasma genitalium (Figura 1.10). Questo organismo vive come parassita
nei mammiferi e il suo ambiente gli fornisce molte delle sue piccole moleco-
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le già pronte. Nonostante ciò, deve ancora produrre tutte le grosse molecole
– DNA, RNA e proteine – necessarie per i processi base dell’eredità. Esso ha
circa 530 geni di cui circa 400 sono essenziali. Il suo genoma di 580 070 coppie di nucleotidi rappresenta 145 018 byte di informazione, circa quanto ci
vuole per registrare il testo di un capitolo di questo libro. La biologia cellulare può essere complicata, ma non in modo impossibile.
Il numero minimo di geni per una cellula vitale nell’ambiente attuale è
probabilmente non inferiore a 300, sebbene il nucleo di geni condiviso da tutte le specie viventi contenga soltanto circa 60 geni.
SOMMARIO La singola cellula è l’unità minima della materia vivente che si
autoriproduce e consiste di un insieme di catalizzatori che si possono autoriprodurre.
Di importanza centrale per la riproduzione è la trasmissione dell’informazione
genetica alle cellule figlie. Ogni cellula sul nostro pianeta conserva la sua informazione
genetica nella stessa forma chimica, un DNA a doppio filamento. La cellula replica
la sua informazione separando i filamenti appaiati di DNA e usando ciascuno di
essi come stampo per la polimerizzazione al fine di produrre un nuovo filamento
di DNA con una sequenza complementare di nucleotidi. La stessa strategia di
polimerizzazione su stampo è usata per trascrivere porzioni dell’informazione da DNA
in molecole del polimero strettamente correlato, RNA. Queste molecole di RNA a loro
volta guidano la sintesi di molecole proteiche grazie al meccanismo più complesso
della traduzione, che coinvolge una grande macchina multimolecolare, il ribosoma. Le
proteine sono i principali catalizzatori per quasi tutte le reazioni chimiche nella cellula;
altre loro funzioni comprendono l’importazione e l’esportazione selettiva di piccole
molecole attraverso la membrana plasmatica che forma il confine della cellula. La
funzione peculiare di ciascuna proteina dipende dalla sua sequenza di amminoacidi,
che è specificata dalla sequenza nucleotidica di un segmento corrispondente del
DNA, il gene che codifica quella proteina. In questo modo il genoma della cellula ne
determina la chimica; e la chimica di ogni cellula vivente è fondamentalmente simile,
poiché deve provvedere alla sintesi di DNA, RNA e proteine. Le cellule più semplici
note possono sopravvivere con circa 400 geni. ●
La diversità dei genomi e l’albero della vita
Il successo degli organismi viventi basati su DNA, RNA e proteine è stato
spettacolare. La vita ha popolato gli oceani, coperto il suolo, infiltrato la crosta
terrestre e modellato la superficie del nostro pianeta. La nostra atmosfera ricca
di ossigeno, i depositi di carbone e di petrolio, gli strati di minerali ferrosi, le
rupi di gesso, di arenaria e di marmo – tutti questi sono prodotti, direttamente o indirettamente, della passata attività biologica sulla Terra.
Gli esseri viventi non sono confinati nel familiare reame temperato di terra,
acqua e luce solare abitato da vegetali e da animali che mangiano vegetali. Essi
si possono trovare nelle più buie profondità dell’oceano, nei fanghi bollenti dei
vulcani, in laghi sotto la superficie congelata dell’Antartide e sepolti a chilometri di profondità nella crosta terrestre. Le creature che vivono in questi ambienti estremi sono generalmente poco familiari, non solo perché sono inaccessibili ma anche perché sono perlopiù microscopiche. Anche negli habitat più favorevoli la maggior parte degli organismi è troppo piccola per essere visibile
senza un equipaggiamento speciale: essi tendono a passare inosservati, a meno
che non provochino una malattia o facciano marcire il legno delle nostre case.
Eppure i microrganismi compongono la maggior parte della massa totale della
materia vivente sul nostro pianeta. Solo di recente, con nuovi metodi di analisi
molecolare e in modo specifico tramite l’analisi delle sequenze del DNA, abbiamo cominciato a ottenere un quadro della vita sulla Terra che non sia grossolanamente distorto dalla nostra prospettiva falsata che ci porta a vederla dal
punto di vista di grandi animali che vivono sulla terraferma.
In questa sezione consideriamo la diversità degli organismi e le relazioni
fra di essi. Poiché l’informazione genetica per ogni organismo è scritta nel
linguaggio universale di sequenze di DNA e la sequenza del DNA di ogni
dato organismo può essere ottenuta per mezzo di tecniche biochimiche standard, è ora possibile caratterizzare, catalogare e confrontare qualunque serie
(A)
(B)
5 µm
0,2 µm
Figura 1.10 Mycoplasma
genitalium. (A) Micrografia
elettronica a scansione che mostra
la forma irregolare di questo piccolo
batterio, che riflette la mancanza
di una parete rigida. (B) Sezione
trasversale (micrografia elettronica
a trasmissione) di una cellula di
Mycoplasma. Dei 530 geni del
Mycoplasma genitalium, 43 codificano
RNA transfer, ribosomiale e altri RNA
non messaggeri. Si conoscono, o
si possono supporre, le funzioni di
339 geni che codificano proteine:
di questi, 154 sono coinvolti nella
replicazione, trascrizione e traduzione
del DNA e in processi correlati che
coinvolgono DNA, RNA e proteine; 98
sono coinvolti nella membrana e nelle
strutture di superficie della cellula;
46 nel trasporto di nutrienti e di altre
molecole attraverso la membrana;
71 nella conversione dell’energia e
nella sintesi e degradazione di piccole
molecole e 12 nella regolazione della
divisione cellulare e in altri processi.
(A, da S. Razin, M. Banai, H. Gamliel,
A. Pollack, W. Bredt e I. Kahane,
Infect. Immun. 30:538-546, 1980, per
gentile concessione della American
Society for Microbiology; B, per
gentile concessione di Roger Cole, in
Medical Microbiology, 4a ed., a cura
di S. Baron. Galveston: University of
Texas Medical Branch, 1996.)
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
12
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di organismi viventi riferendosi a queste sequenze. Da questi confronti possiamo stimare la posizione di ciascun organismo nell’albero genealogico delle specie viventi, l’“albero della vita”. Ma prima di descrivere ciò che questo approccio rivela, dobbiamo considerare le vie tramite le quali cellule in
ambienti diversi ottengono la materia e l’energia indispensabili per sopravvivere e proliferare e i modi in cui alcune classi di organismi dipendono da
altri per le loro necessità chimiche di base.
■ Le cellule possono essere alimentate da varie fonti
di energia libera
Gli organismi viventi ottengono la loro energia libera in modi diversi. Alcuni,
come animali, funghi e batteri che vivono nell’intestino umano, la ottengono
nutrendosi di altri esseri viventi o dei prodotti chimici organici che essi producono; questi organismi sono detti organotrofici (dalla parola greca trophé, che
significa “nutrimento”). Altri derivano la loro energia direttamente dal mondo inanimato. Questi si dividono in due classi: quelli che ottengono l’energia dalla luce solare e quelli che catturano la loro energia da sistemi ricchi di
energia di sostanze chimiche inorganiche presenti nell’ambiente (sistemi chimici lontani dall’equilibrio chimico). Gli organismi della prima classe si chiamano fototrofici (che si nutrono di luce); quelli della seconda si chiamano litotrofici (che si nutrono di roccia). Gli organismi organotrofici non potrebbero
esistere senza questi convertitori primari di energia, che costituiscono la massa maggiore della materia vivente sulla Terra.
Gli organismi fototrofici comprendono molti tipi di batteri, oltre ad alghe
e vegetali, dai quali noi – e praticamente tutti gli esseri viventi che vediamo
comunemente intorno a noi – dipendiamo. Gli organismi fototrofici hanno
modificato l’intera chimica del nostro ambiente: l’ossigeno nell’atmosfera terrestre è un sottoprodotto delle loro attività biosintetiche.
Gli organismi litotrofici non sono un aspetto così evidente del nostro mondo, perché sono microscopici e vivono per la maggior parte in habitat non popolati dagli esseri umani, per esempio nelle profondità dell’oceano, sepolti nella crosta terrestre o in vari altri ambienti inospitali. Ma costituiscono una delle
componenti principali del mondo vivente e sono particolarmente importanti
in qualunque considerazione della storia della vita sulla Terra.
Alcuni litotrofi ottengono energia da reazioni aerobiche, che usano ossigeno molecolare dell’ambiente; poiché l’O2 atmosferico è alla fine il prodotto
di organismi viventi, questi litotrofi aerobici si nutrono, in un certo senso, dei
prodotti della vita passata. Ci sono tuttavia altri litotrofi che vivono anaerobicamente, in luoghi in cui l’ossigeno molecolare è scarsamente presente o è
assente, in circostanze simili a quelle che devono essere esistite nei primi momenti di vita sulla Terra, prima che si accumulasse ossigeno.
I più estremi di questi siti sono i camini idrotermali bollenti che si trovano sul
fondo dell’oceano Pacifico e dell’oceano Atlantico, in regioni in cui il fondo
dell’oceano si allarga man mano che nuove porzioni della crosta terrestre si formano per un graduale sollevamento di materiale dall’interno della Terra (Figura 1.11).
Acqua di mare che percola verso il basso è riscaldata e spinta di nuovo in alto
come un geyser sottomarino, trasportando con sé una corrente di sostanze chimiche dalle rocce bollenti sottostanti. Un tipico cocktail potrebbe comprendere H2S, H2, CO, Mn2+, Fe2+, Ni2+, CH2, NH4+ e composti contenenti fosforo. Una densa popolazione di batteri vive nelle vicinanze del camino, crescendo con questa dieta austera e raccogliendo energia libera da reazioni fra i composti chimici disponibili. Altri organismi – conchiglie, muscoli e vermi marini giganti – a loro volta vivono dei batteri presenti presso il camino, formando
un intero ecosistema analogo al sistema di vegetali e animali a cui apparteniamo, ma alimentato dall’energia geochimica invece che dalla luce (Figura 1.12).
■ Alcune cellule fissano azoto e anidride carbonica per le altre
Costruire una cellula vivente richiede materia, oltre a energia libera. DNA,
RNA e proteine sono composti da appena sei elementi: idrogeno, carbonio,
azoto, ossigeno, zolfo e fosforo. Questi sono abbondanti nell’ambiente inani-
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
13
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Figura 1.11 La geologia di un
MARE
nube scura
di acqua calda
ricca di minerali
bocca del camino
idrotermale
batteri litotrofici
anaerobici
comunità di animali
invertebrati
camino costituito
da solfuri metallici
precipitati
2–3 °C
fondo del mare
camino idrotermale bollente nel
fondo dell’oceano. L’acqua percola
verso la roccia fusa calda che sale
dall’interno della Terra e viene scaldata
e spinta verso l’alto, trasportando
minerali rilasciati dalla roccia calda. Si
stabilisce un gradiente di temperatura,
da più di 350 °C vicino al nucleo
del camino a 2-3 °C nell’oceano
circostante. I minerali precipitano
dall’acqua quando questa si raffredda,
formando un camino. Classi diverse
di organismi, che prosperano a
temperature diverse, vivono a distanze
diverse dal camino. Un tipico camino
può essere alto alcuni metri, con un
flusso di 1-2 m/sec.
contorno
dei 350 °C
percolazione
di acqua
di mare
soluzione calda di minerali
basalto caldo
mato, nelle rocce, nell’acqua e nell’atmosfera, ma non in forme chimiche che
ne permettano una facile incorporazione in molecole biologiche. In particolare, l’N2 e la CO2 atmosferici sono estremamente non reattivi e una grande quantità di energia libera è necessaria per spingere le reazioni che usano
queste molecole inorganiche per dare origine ai prodotti organici necessari per ulteriori biosintesi, cioè per fissare azoto e anidride carbonica, in modo da rendere N e C disponibili per gli organismi viventi. Molti tipi di cellule
viventi sono privi del macchinario biochimico per eseguire questa fissazione
e si basano su altre classi di cellule che eseguono questo lavoro per loro. Noi
energia geochimica
e materiali grezzi inorganici
Figura 1.12 Organismi viventi a
batteri
animali multicellulari, ad es. vermi tubolari
1m
2500 metri di profondità vicino a
un camino idrotermale. Vicino al
camino, a temperature fino a circa
120 °C, vivono varie specie litotrofiche
di batteri e di archei (archebatteri),
alimentati direttamente dall’energia
geochimica. Poco più lontano, dove
la temperatura è minore, vivono vari
animali invertebrati che si nutrono di
questi microrganismi. I più notevoli
sono i vermi tubolari giganti (2 metri)
Riftia pachyptila che, invece di nutrirsi
delle cellule litotrofiche, vivono in
simbiosi con esse: organi specializzati
nei vermi ospitano enormi quantità di
batteri simbionti che ossidano lo zolfo.
Questi batteri imbrigliano l’energia
geochimica e forniscono nutrimento
ai loro ospiti, che non hanno bocca,
intestino o ano. Si pensa che i vermi
tubolari si siano evoluti da animali più
convenzionali e che si siano adattati
alla vita nei camini idrotermali in
un secondo momento. (Per gentile
concessione di Monika Bright,
Università di Vienna, Austria)
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
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animali dipendiamo dai vegetali per il rifornimento di composti organici del
carbonio e dell’azoto. I vegetali invece, anche se possono fissare anidride carbonica dall’atmosfera, sono privi della capacità di fissare l’azoto atmosferico e
dipendono in parte da batteri fissatori di azoto per soddisfare le loro necessità
di composti dell’azoto. I vegetali della famiglia del pisello, per esempio, ospitano batteri simbionti fissatori di azoto in noduli delle loro radici.
Le cellule viventi differiscono perciò ampiamente in alcuni degli aspetti più basilari della loro biochimica. Non sorprende che cellule con necessità
e capacità complementari abbiano sviluppato associazioni strette. Alcune di
queste associazioni, come vedremo più avanti, si sono evolute fino al punto
in cui i partner hanno perso del tutto le loro identità separate: hanno unito le
forze per formare una singola cellula composita.
■ La diversità biochimica maggiore si osserva fra le cellule
procariotiche
Figura 1.13 Forme e dimensioni di
alcuni batteri. Sebbene la maggior
parte sia piccola, come mostrato,
e siano lunghi pochi micrometri,
esistono anche specie giganti. Un
esempio estremo (non mostrato)
è il batterio a forma di sigaro
Epulopiscium fishelsoni, che vive nello
stomaco del pesce chirurgo e può
essere lungo fino a 600 mm.
Dalla semplice osservazione al microscopio è chiaro da molto tempo che gli
organismi viventi possono essere classificati in base alla struttura cellulare in
due gruppi: gli eucarioti e i procarioti. Negli eucarioti il DNA si trova
in un compartimento intracellulare distinto circondato da una membrana,
chiamato nucleo. (Il termine eucariote deriva dal greco e significa “veramente nucleato”, dalle parole eu, “bene” o “veramente”, e karyon, “nocciolo” o
“nucleo”.) I procarioti non hanno un compartimento nucleare distinto per
accogliere il loro DNA. Vegetali, funghi e animali sono eucarioti; i batteri
sono procarioti, come gli archei, una classe separata di cellule procariotiche,
di cui parleremo più avanti.
Per la maggior parte le cellule procariotiche sono piccole e semplici nell’aspetto esterno (Figura 1.13) e vivono soprattutto come individui indipendenti o comunità poco organizzate anziché come organismi pluricellulari. Sono
di norma sferiche o a bastoncino e misurano pochi micrometri in dimensione lineare. Spesso hanno un rivestimento protettivo robusto, chiamato parete
cellulare, al di sotto del quale una membrana plasmatica racchiude un singolo
compartimento citoplasmatico che contiene DNA, RNA, proteine e le molte piccole molecole necessarie per la vita. Al microscopio elettronico l’interno della cellula appare come una matrice di consistenza variabile senza alcuna struttura organizzata interna discernibile (Figura 1.14).
Le cellule procariotiche vivono in un’enorme varietà di nicchie ecologiche e hanno capacità biochimiche diversificate in modo stupefacente, molto più delle cellule eucariotiche. Le specie organotrofiche possono utilizzare
praticamente qualunque tipo di molecola organica come cibo, dagli zuccheri
e gli amminoacidi agli idrocarburi e al gas metano. Le specie fototrofiche (Figura 1.15) ricavano l’energia dalla luce in vari modi, alcuni dei quali generano
ossigeno come sottoprodotto, altri no. Le specie litotrofiche si possono nutrire di una dieta composta soltanto da nutrienti inorganici, ottenendo il carbonio da CO2 e basandosi su H2S per alimentare le necessità energetiche (Figura 1.16), o su H2, o su Fe2+, o su zolfo elementare, o su uno qualunque di una
vasta gamma di altri composti chimici che si trovano nell’ambiente.
Molte parti di questo mondo di organismi microscopici sono di fatto inesplorate. I metodi tradizionali della batteriologia ci hanno fornito una buona
2 µm
cellule sferiche,
ad es. Streptococcus
cellule a bastoncino,
ad es. Escherichia coli,
Vibrio cholerae
le cellule più piccole,
ad es. Mycoplasma,
Spiroplasma
cellule spirali,
ad es. Treponema pallidum
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Figura 1.14 La struttura di un batterio. (A) Il batterio Vibrio cholerae, con la sua
semplice organizzazione interna. Come molte altre specie, il Vibrio ha un’appendice
elicoidale a una estremità – un flagello – che ruota come un’elica per spingere la cellula
in avanti. Può infettare l’intestino tenue umano causando il colera; la grave diarrea
provocata da questa malattia uccide più di 100 000 persone all’anno. (B) Una micrografia
elettronica di una sezione longitudinale del batterio, molto studiato, Escherichia coli
(E. coli). Il DNA della cellula è concentrato nella regione in grigio chiaro. Pur facendo
parte della nostra flora intestinale, E. coli è correlato al Vibrio ma ha molti flagelli
distribuiti sulla superficie che non sono visibili in questa sezione. (B, per gentile
concessione di E. Kellenberger.)
membrana
plasmatica
DNA
parete cellulare
flagello
1 µm
ribosomi
(A)
(B)
1 µm
Figura 1.15 Il batterio fototrofico
H
S
V
10 µm
Anabaena cylindrica visto al
microscopio ottico. Le cellule di
questa specie formano lunghi filamenti
pluricellulari. La maggior parte delle
cellule (marcate V) svolge la fotosintesi,
mentre altre sono specializzate per la
fissazione dell’azoto (marcate H) o si
sviluppano in spore resistenti (marcate
S). (Per gentile concessione di Dave G.
Adams.)
conoscenza di quelle specie che si possono isolare e coltivare in laboratorio. Ma
l’analisi della sequenza del DNA delle popolazioni di batteri in campioni derivati da habitat naturali – come terreno o acqua di mare, o anche la bocca umana – ci ha fatto capire che la maggior parte delle specie non può essere coltivata
con le tecniche standard di laboratorio. Secondo una stima, almeno il 99% delle specie procariotiche resta da caratterizzare. Identificate solo dal loro DNA,
non è stato ancora possibile far crescere la maggioranza di esse in laboratorio.
■ L’albero della vita ha tre ramificazioni principali: i batteri,
gli archei e gli eucarioti
La classificazione degli esseri viventi è dipesa tradizionalmente dal confronto del loro aspetto esteriore: possiamo vedere che un pesce ha occhi, mascelle, scheletro, cervello e così via, proprio come noi, mentre un verme non ha
nulla del genere; che un cespuglio di rose è cugino di un melo, ma è meno simile a un’erba. Come ha dimostrato Darwin, possiamo facilmente interpretare somiglianze strette di questo tipo in termini di evoluzione da progenitori comuni e possiamo trovare ciò che rimane di molti di questi progenitori conservato nei fossili. In questo modo è stato possibile iniziare a disegnare
un albero genealogico degli organismi viventi, che mostra le varie linee di discendenza, oltre a punti di ramificazione evolutiva, in cui i progenitori di un
gruppo di specie sono diventati diversi da quelli di un altro.
Quando le diversità fra organismi diventano molto grandi, però, questi metodi iniziano a fallire. In che modo possiamo decidere se un fungo è parente più
stretto di un vegetale o di un animale? Quando si tratta dei procarioti, il compito diventa ancora più difficile: bastoncini e sfere microscopiche sembrano tutti
6 µm
Figura 1.16 Un batterio litotrofico.
Beggiatoa, che vive in ambienti
sulfurei, ottiene la sua energia
ossidando H2S e può fissare il carbonio
anche al buio. Si notino i depositi gialli
di zolfo all’interno delle cellule. (Per
gentile concessione di Ralph W. Wolfe.)
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uomo
Sulfolobus
Haloferax
Aeropyrum
Methanothermobacter
mais
lievito
EU
C
Paramecium
AR
I
I
BAT
TER
I (E
I)
ER
T
T
BA cianobatteri
OT
U
EI (ARCHEBATTERI)
ARCH
Bacillus
Methanococcus
Dictyostelium
Euglena
E. coli
primo eucariote
Thermotoga
Aquifex
Figura 1.17 Le tre divisioni
principali (domini) del mondo
vivente. Si noti che tradizionalmente
la parola batteri è stata usata per
riferirsi ai procarioti in generale, ma
più recentemente è stata ridefinita
per riferirsi specificamente agli
eubatteri. L’albero qui rappresentato
si basa su confronti della sequenza
nucleotidica di una subunità di RNA
ribosomiale nelle diverse specie. La
lunghezza delle linee rappresenta una
stima del numero di cambiamenti
evolutivi che si sono verificati in
questa molecola in ciascuna linea
(vedi Figura 1.18). Le parti dell’albero
coperte da un’ombreggiatura grigia
rappresentano incertezze riguardo
ai dettagli del vero schema di
divergenza delle specie nel corso
dell’evoluzione: il confronto delle
sequenze nucleotidiche o degli
amminoacidi di molecole diverse
dall’rRNA, oltre ad altri argomenti,
porta ad alberi in parte diversi. Come
indicato, oggi si pensa che il nucleo
delle cellule eucariotiche sia emerso
da un sottoramo all’interno degli
archei, cosicché l’inizio dell’albero ha
solamente due rami: batteri e archei.
cellula
progenitrice
comune
Trypanosoma
Giardia
Trichomonas
1 cambiamento/10 nucleotidi
uguali. I microbiologi hanno perciò tentato di classificare i procarioti in termini della loro biochimica e delle loro necessità nutrizionali. Ma questo approccio ha anch’esso i suoi inconvenienti. Nella sconcertante varietà di comportamenti biochimici è difficile sapere quali diversità riflettono veramente differenze nella storia evolutiva.
L’analisi del genoma ci ha dato un mezzo più semplice, più diretto e più
potente per determinare relazioni evolutive. La sequenza completa del DNA
di un organismo definisce la specie con precisione quasi perfetta e con un dettaglio esauriente. Inoltre questa specificazione è in forma digitale – una stringa di lettere – che può essere immessa direttamente in un computer e confrontata con l’informazione corrispondente di qualunque altro essere vivente.
Poiché il DNA è soggetto a cambiamenti casuali che si accumulano in lunghi
periodi di tempo (come vedremo fra breve), il numero di differenze fra le sequenze di DNA di due organismi può fornire un’indicazione diretta, oggettiva e quantitativa della distanza evolutiva fra di essi.
Questo approccio ha dimostrato che alcuni degli organismi che erano tradizionalmente classificati insieme come “batteri” possono essere tanto largamente separati nella loro origine evolutiva quanto lo è un qualunque procariote da un eucariote. Oggi sappiamo che i procarioti comprendono due gruppi distinti che si sono separati precocemente nella storia della vita sulla Terra,
prima che i progenitori degli eucarioti si separassero in un gruppo a parte. I
due gruppi di procarioti sono chiamati batteri (o eubatteri) e archei (o archebatteri). Analisi dettagliate del genoma hanno recentemente mostrato che
la prima cellula eucariotica si è formata dopo che un particolare tipo di cellula appartenente agli archei ha inglobato un antico batterio (vedi Figura 12.3).
Quindi oggi si ritiene che il mondo vivente consista di tre divisioni principali
o domini: batteri, archei ed eucarioti (Figura 1.17).
Gli archei si trovano spesso in ambienti che gli esseri umani evitano, come
paludi, impianti di trattamento di fognature, profondità oceaniche, salamoie e
sorgenti bollenti acide, anche se oggi si sa che sono ben rappresentati anche in
ambienti meno estremi e più favorevoli, da terreni e laghi agli stomaci del bestiame. Come aspetto esterno non sono facilmente distinguibili dai batteri. A
livello molecolare gli archei sembrano assomigliare agli eucarioti in modo più
diretto nel macchinario che gestisce l’informazione genetica (replicazione, trascrizione e traduzione), ma più strettamente ai batteri nell’apparato per il metabolismo e la conversione dell’energia. Discuteremo più avanti in che modo
ciò può essere spiegato.
■ Alcuni geni evolvono rapidamente, altri sono altamente
conservati
Sia nella conservazione che nella copiatura dell’informazione genetica si verificano incidenti ed errori casuali che alterano la sequenza nucleotidica, cioè
creano mutazioni. Perciò, quando una cellula si divide, le due cellule figlie
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uomo
Methanococcus
E. coli
uomo
spesso non sono identiche né fra loro né alla cellula progenitrice. In rare occasioni l’errore può rappresentare un cambiamento per il meglio; più probabilmente non provocherà una differenza significativa nella prospettiva della
cellula ma in molti casi l’errore causerà un danno serio, per esempio, distruggendo la sequenza che codifica una proteina chiave. I cambiamenti dovuti a
errori del primo tipo tenderanno a essere perpetuati, poiché la cellula alterata ha una maggiore probabilità di riprodursi. Cambiamenti dovuti a errori del
secondo tipo – cambiamenti selettivamente neutri – possono essere perpetuati o no: nella competizione per risorse limitate, se sopravviverà la cellula alterata o l’altra è una questione lasciata al caso. Ma cambiamenti che provocano
un danno serio non portano da nessuna parte: la cellula che li subisce muore,
senza lasciare progenie. Attraverso infinite ripetizioni di questo ciclo di errore e prova – di mutazione e selezione naturale – gli organismi evolvono: le loro
specifiche genetiche cambiano, dando loro nuovi modi di sfruttare più efficacemente l’ambiente, di sopravvivere in competizione con altri e di riprodursi con successo.
Alcune parti del genoma cambiano più facilmente di altre nel corso
dell’evoluzione. Un segmento di DNA che non codifica proteine e non ha
un ruolo regolatore significativo è libero di cambiare a una velocità limitata soltanto dalla frequenza degli errori casuali. Invece un gene che codifica
una proteina o una molecola di RNA essenziale altamente ottimizzata non
può alterarsi così facilmente: quando avvengono degli errori le cellule difettose vengono quasi sempre eliminate. I geni di questo secondo tipo sono
perciò altamente conservati. Nel corso di 3,5 miliardi di anni o più di storia
evolutiva molti aspetti del genoma sono cambiati in modo da diventare irriconoscibili; ma i geni più conservati rimangono perfettamente riconoscibili in tutte le specie viventi.
Questi ultimi geni sono quelli che devono essere esaminati se vogliamo
tracciare relazioni familiari fra gli organismi imparentati più alla lontana nell’albero della vita. Gli studi che hanno portato alla classificazione del mondo vivente nei tre domini dei batteri, degli archei e degli eucarioti si sono basati
principalmente sull’analisi di uno degli rRNA che compongono il ribosoma.
Poiché il processo di traduzione è essenziale per tutte le cellule viventi, questo componente del ribosoma si è ben conservato fin dall’inizio della storia
della vita sulla Terra (Figura 1.18).
■ La maggior parte dei batteri e degli archei ha 1000-6000 geni
La selezione naturale ha generalmente favorito quelle cellule procariotiche
che si riproducono più velocemente assumendo materiali grezzi dall’ambiente e replicando se stesse in modo più efficiente, alla massima velocità permessa
dalla disponibilità di cibo. Piccole dimensioni implicano un grande rapporto
fra area di superficie e volume, aiutando così a massimizzare l’assunzione di
nutrienti attraverso la membrana plasmatica e aumentando la velocità riproduttiva di una cellula.
Presumibilmente per queste ragioni la maggior parte delle cellule procariotiche ha un bagaglio superfluo molto ridotto; i loro genomi sono piccoli, con i geni compattati strettamente insieme e minime quantità di DNA regolatore fra di essi. Le piccole dimensioni del genoma hanno reso facile l’utilizzo delle moderne tecniche di sequenziamento del DNA per determinare la sequenza completa dei genomi. Oggi abbiamo queste informazioni per
migliaia di specie di batteri e di archei e per centinaia di specie di eucarioti.
La maggior parte dei genomi dei batteri e degli archei contiene fra 106 e 107
coppie di nucleotidi, che codificano 1000-6000 geni.
Una sequenza completa del DNA rivela sia i geni che un organismo possiede sia quelli di cui è privo. Quando confrontiamo i tre domini del mondo
Figura 1.18 Informazione
genetica dell’ultimo antenato
comune di tutti gli esseri viventi
attualmente conservata.
È mostrata una parte del gene per
il più piccolo dei due RNA principali
che compongono il ribosoma. (La
molecola completa è lunga circa
1500-1900 nucleotidi, secondo la
specie.) Segmenti corrispondenti di
sequenza nucleotidica di un archeo
(Methanococcus jannaschii), di un
eubatterio (Escherichia coli) e di
un eucariote (Homo sapiens) sono
allineati in parallelo. I siti in cui i
nucleotidi sono identici fra specie
sono indicati da un trattino rosso; la
sequenza umana è ripetuta in basso
in modo da poter osservare tutti gli
allineamenti fra due sequenze. Un
punto a metà della sequenza di E. coli
indica un sito in cui una base è stata
deleta dalla linea degli eubatteri nel
corso dell’evoluzione o inserita nelle
altre due linee. Si noti che le sequenze
di questi tre organismi, rappresentativi
dei tre domini del mondo vivente,
differiscono l’una dall’altra in
grado abbastanza simile, mentre
mantengono ancora somiglianze
indiscutibili.
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vivente, possiamo iniziare a vedere quali geni sono comuni a tutti – e devono
perciò essere stati presenti nella cellula progenitrice di tutti gli esseri viventi
odierni – e quali geni sono peculiari di un singolo ramo dell’albero della vita. Per spiegare le scoperte, però, dobbiamo considerare un po’ più da vicino
il modo in cui si formano nuovi geni ed evolvono i genomi.
■ Nuovi geni sono generati da geni preesistenti
Il materiale grezzo dell’evoluzione è la sequenza di DNA preesistente: non
c’è un meccanismo naturale per creare lunghi tratti di nuova sequenza casuale. In questo senso nessun gene è interamente nuovo. L’innovazione può, tuttavia, verificarsi in parecchi modi (Figura 1.19).
1. Mutazione intragenica: un gene esistente può essere modificato in seguito a
cambiamenti nella sequenza di DNA, tramite vari tipi di errori che si verificano soprattutto durante il processo di replicazione del DNA.
2. Duplicazione genica: un gene esistente può essere duplicato in modo da creare inizialmente una coppia di geni identici all’interno di una singola cellula; questi due geni possono quindi divergere nel corso dell’evoluzione.
3. Rimescolamento di segmenti di DNA: due o più geni esistenti possono essere
spezzati e riuniti per produrre un gene ibrido che consiste di segmenti di
DNA che originariamente appartenevano a geni separati.
4. Trasferimento orizzontale (intercellulare): un tratto di DNA può essere trasferito dal genoma di una cellula a quello di un’altra (anche a una cellula di
un’altra specie). Questo processo si differenzia dal solito trasferimento verticale dell’informazione genetica da genitore a progenie.
Ciascuno di questi tipi di cambiamento lascia una traccia caratteristica
nella sequenza del DNA dell’organismo, fornendo una prova chiara che tutti e quattro i processi si sono verificati. Nei capitoli successivi parleremo dei
meccanismi sottesi, ma per il momento ci concentreremo sulle conseguenze.
GENOMA ORIGINALE
INNOVAZIONE GENETICA
MUTAZIONE
INTRAGENICA
mutazione
1
gene
DUPLICAZIONE
GENICA
+
2
gene A
RIMESCOLAMENTO
DI SEGMENTI DI DNA
+
3
+
gene B
organismo A
Figura 1.19 Quattro modalità
di innovazione genetica e i loro
effetti sulla sequenza del DNA di
un organismo. Una forma speciale
di trasferimento orizzontale si verifica
quando due tipi diversi di cellule
entrano in un’associazione simbiotica
permanente. I geni di una delle cellule
possono essere trasferiti nel genoma
dell’altra, come vedremo più avanti
quando parleremo di mitocondri e
cloroplasti.
4
+
TRASFERIMENTO
ORIZZONTALE
organismo B
organismo B
con un nuovo gene
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■ Duplicazioni geniche danno origine a famiglie di geni
correlati all’interno di una singola cellula
Una cellula duplica il suo intero genoma ogni volta che si divide in due cellule figlie.Tuttavia, degli incidenti portano occasionalmente alla duplicazione inappropriata soltanto di una parte del genoma, con mantenimento dei
segmenti originali duplicati in una singola cellula. Una volta che un gene è
stato duplicato in questo modo, una delle due copie del gene è libera di mutare e di specializzarsi per svolgere una funzione diversa nella stessa cellula.
Cicli ripetuti di questo processo di duplicazione e di divergenza, nel corso di
molti milioni di anni, hanno permesso a un gene di dare origine a un’intera
famiglia di geni che si trovano tutti all’interno di un singolo genoma. L’analisi della sequenza del DNA dei genomi procariotici rivela molti esempi di
queste famiglie di geni: nel Bacillus subtilis, per esempio, il 47% dei geni ha
uno o più parenti evidenti (Figura 1.20).
Quando i geni si duplicano e divergono in questo modo, gli individui di
una specie si trovano dotati di varianti multiple di un gene primordiale. Questo
processo evolutivo deve essere distinto dalla divergenza genetica che si verifica
quando una specie di organismo si divide in due linee di discendenza separate a
un punto di ramificazione dell’albero genealogico, per esempio quando la linea
di discendenza umana si separò da quella degli scimpanzé. In questo caso i geni gradualmente si diversificano nel corso dell’evoluzione, ma è probabile che
continuino ad avere funzioni corrispondenti nelle due specie sorelle. Geni che
sono correlati per discendenza in questo modo – cioè geni in due specie separate che derivano dallo stesso gene ancestrale nell’ultimo progenitore comune
di queste due specie – sono detti ortologhi. Geni correlati che sono derivati da un evento di duplicazione genica all’interno di un singolo genoma – ed è
probabile che abbiano funzioni diverse – sono detti paraloghi. Geni che sono
correlati per discendenza in uno di questi modi sono chiamati omologhi, un
termine generale usato per riferirsi a entrambi i tipi di relazione (Figura 1.21).
■ I geni possono essere trasferiti fra organismi, sia in
laboratorio che in natura
I procarioti forniscono validi esempi di trasferimento orizzontale di geni da una
specie di cellula a un’altra. I segni rivelatori più evidenti sono sequenze riconoscibili come derivate da virus batterici, chiamati anche batteriofagi (Figura 1.22). I
virus sono piccoli pacchetti di materiale genetico che si sono evoluti come parassiti del macchinario riproduttivo e biosintetico delle cellule ospiti. Sebbene
non siano cellule viventi agiscono spesso da vettori per il trasferimento di geni. I virus si replicano in una cellula, ne emergono con un involucro protettivo
e quindi entrano in un’altra cellula, che può essere della stessa specie o di una
specie diversa, e la infettano. Spesso la cellula infettata viene uccisa dalla massiccia proliferazione delle particelle virali al suo interno, ma talvolta il DNA virale,
invece di generare direttamente queste particelle, può persistere nell’ospite per
molte generazioni come passeggero relativamente innocuo, come frammento
283 geni in famiglie
con 38-77 geni membri
764 geni in famiglie
con 4-19 geni membri
273 geni in famiglie
con 3 geni membri
568 geni in famiglie
con 2 geni membri
2126 geni senza relazioni
di famiglia
Figura 1.20 Famiglie di geni
evolutivamente correlati nel
genoma del Bacillus subtilis.
La famiglia più grande consiste
di 77 geni che codificano varietà
di trasportatori ABC, una classe di
proteine di trasporto di membrana
che si trovano in tutti e tre i domini
del mondo vivente. (Adattata da
F. Kunst et al., Nature 390:249-256,
1997. Con il permesso di MacMillan
Publishers Ltd.)
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Figura 1.21 Geni paraloghi e
ortologhi: due tipi di omologia
genica basati su diverse vie
evolutive. (A) Geni ortologhi.
(B) Geni paraloghi.
organismo ancestrale
organismo ancestrale
gene G
gene G
LA SPECIAZIONE DÀ ORIGINE
A DUE SPECIE SEPARATE
specie A
specie B
gene GA
gene GB
DUPLICAZIONE GENICA
E DIVERGENZA
organismo ancestrale successivo
gene G1
gene G2
(A)
i geni GA e GB sono ortologhi
(B)
i geni G1 e G2 sono paraloghi
intracellulare separato di DNA, noto col nome di plasmide, o come sequenza
inserita nel genoma regolare della cellula. Nei loro spostamenti i virus possono accidentalmente raccogliere frammenti di DNA dal genoma di una cellula
ospite e portarli in un’altra cellula. Questi trasferimenti di materiale genetico
sono molto frequenti nei procarioti.
I trasferimenti orizzontali di geni fra cellule eucariotiche di specie diverse
sono molto rari e non sembrano avere avuto un ruolo significativo nell’evoluzione degli eucarioti (anche se nel corso dell’evoluzione dei mitocondri e
dei cloroplasti si sono verificati massicci trasferimenti dai genomi batterici a
quelli eucariotici, come vedremo più avanti). I trasferimenti orizzontali avvengono invece molto più frequentemente fra specie diverse di procarioti.
Molti procarioti hanno una notevole capacità di assumere anche molecole
di DNA non virale dall’ambiente circostante e catturare così l’informazione genetica portata da queste molecole. In questo modo, o tramite trasferi-
Figura 1.22 Il trasferimento virale
di DNA da una cellula a un’altra.
(A) Una micrografia elettronica di
particelle di un virus batterico, il
batteriofago T4. La testa di questo
virus contiene il DNA virale; la coda
contiene l’apparato per iniettare il
DNA in un ospite batterico. (B) Una
sezione trasversale di un batterio
E. coli con un batteriofago T4
attaccato alla superficie. I grossi punti
scuri dentro al batterio sono le teste
di nuove particelle di T4 in corso
di assemblaggio. Quando saranno
mature, il batterio scoppierà per
rilasciarle. (C-E) Il processo di iniezione
del DNA all’interno del batterio,
visualizzato mediante microscopia
crio-elettronica di campioni congelati
non colorati. (C) Inizia l’adesione.
(D) Fase di adesione durante
l’iniezione di DNA. (E) La testa del
virus è stata svuotata di tutto il suo
DNA trasferito nel batterio. (A, per
gentile concessione di James Paulson;
B, per gentile concessione di Jonathan
King e Erika Hertwig, da G. Karp, Cell
and Molecular Biology, 2a ed., New
York: John Wiley & Sons, 1999. Con
il permesso di John Wiley & Sons.
C-E, per gentile concessione di Ian
Molineux, Texas University, Austin e
Jun Liu Health Science Center, Texas
University, Houston).
(B)
(A)
100 nm
(C)
(D)
100 nm
(E)
100 nm
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mento mediato da virus, i batteri e gli archei in natura possono acquisire geni
da cellule circostanti con relativa facilità. I geni che conferiscono resistenza
a un antibiotico o la capacità di produrre una tossina, per esempio, possono
essere trasferiti da specie a specie e fornire al batterio ricevente un vantaggio selettivo. In questo modo si è osservata l’evoluzione di ceppi batterici
nuovi e talvolta pericolosi negli ecosistemi batterici che popolano ospedali
o le varie nicchie del corpo umano. Per esempio, il trasferimento orizzontale di geni è responsabile della diffusione negli ultimi 40 anni di ceppi resistenti alla penicillina di Neisseria gonorrhoeae, il batterio che causa la gonorrea. Su una scala temporale più ampia le conseguenze possono essere ancora
più profonde; è stato stimato che almeno il 18% di tutti i geni del genoma
odierno di E. coli è stato acquisito per trasferimento orizzontale da un’altra
specie negli ultimi 100 milioni di anni.
■ Il sesso porta a scambi orizzontali di informazione genetica
all’interno di una specie
Il trasferimento genico orizzontale fra i batteri ha un parallelo in un fenomeno
a tutti familiare: il sesso. Oltre al consueto trasferimento verticale di materiale
genetico da genitore a progenie, la riproduzione sessuale provoca un trasferimento orizzontale su vasta scala di informazioni genetiche fra due linee cellulari inizialmente separate, quelle del padre e della madre. Un aspetto chiave del
sesso, naturalmente, è che lo scambio genetico normalmente avviene soltanto fra individui della stessa specie. Ma, indipendentemente dal fatto che avvenga all’interno di una specie o fra specie diverse, il trasferimento orizzontale di
geni lascia un’impronta caratteristica: porta a individui che sono correlati più
strettamente a una serie di parenti per quel che riguarda certi geni e più strettamente a un’altra serie di parenti per altri. Confrontando le sequenze di DNA
di singoli genomi umani, un visitatore intelligente venuto dallo spazio potrebbe dedurre che gli esseri umani si riproducono sessualmente anche se non sapesse niente del comportamento umano.
La riproduzione sessuale è un fenomeno molto diffuso (anche se non universale), specialmente fra gli eucarioti. Anche tra i batteri ogni tanto avvengono scambi sessuali controllati di DNA con altri membri della stessa specie.
La selezione naturale ha chiaramente favorito organismi che si riproducono
sessualmente, anche se i teorici dell’evoluzione ancora discutono su quale sia
precisamente il vantaggio selettivo del sesso.
■ La funzione di un gene può spesso essere dedotta
dalla sua sequenza
Le relazioni familiari fra i geni sono importanti non soltanto per il loro interesse storico, ma perché semplificano la decifrazione della funzione di un gene. Una volta che la sequenza di un gene appena scoperto è stata determinata,
un ricercatore può premere qualche tasto su un computer per cercare nell’intero database di sequenze geniche note geni a esso correlati. In molti casi la
funzione di uno o più di questi omologhi sarà già stata determinata sperimentalmente e quindi, poiché la sequenza di un gene ne determina la funzione, si
può spesso formulare una valida congettura sulla funzione del nuovo gene: è
probabile che sia simile a quella degli omologhi già noti.
In questo modo diventa possibile decifrare gran parte della biologia di un
organismo semplicemente analizzando la sequenza del DNA del suo genoma e usando le informazioni che già possediamo sulle funzioni di geni in altri organismi che sono stati studiati più intensamente.
■ Più di 200 famiglie di geni sono comuni a tutti e tre i rami
principali dell’albero della vita
Essendo disponibili le sequenze genomiche di organismi che rappresentano
tutti e tre i domini – archei, eubatteri ed eucarioti – si possono cercare sistematicamente omologie che attraversano questa enorme distanza evolutiva. In
questo modo possiamo iniziare a considerare l’eredità comune di tutti gli es-
21
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
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seri viventi. In questa impresa ci sono delle considerevoli difficoltà. Per esempio, singole specie hanno spesso perso qualche gene ancestrale; altri geni sono
stati acquisiti quasi certamente per trasferimento orizzontale da un’altra specie
e perciò possono non essere veramente ancestrali, anche se condivisi. In effetti i confronti dei genomi indicano con forza che sia la perdita di geni specifica di una linea, sia il trasferimento orizzontale di geni, in alcuni casi fra specie
evolutivamente distanti, sono stati fattori importanti dell’evoluzione, almeno
nel mondo procariotico. Infine, nel corso di 2 o 3 miliardi di anni alcuni geni
che erano inizialmente condivisi saranno stati cambiati attraverso il processo
di mutazione al di là di ogni possibilità di riconoscimento.
A causa di tutti questi capricci del processo evolutivo sembra che soltanto
una piccola percentuale di famiglie di geni ancestrali si sia mantenuta universalmente in forma riconoscibile. Così, delle 4873 famiglie di geni che codificano proteine definite confrontando i genomi di 50 specie di batteri, di 13
archei e di 3 eucarioti unicellulari, soltanto 63 sono veramente ubiquitarie
(cioè rappresentate in tutti i genomi analizzati). La grande maggioranza di
queste famiglie universali comprende componenti dei sistemi di traduzione e trascrizione. È difficile che in questo modo ci si avvicini a un’approssimazione realistica di una serie di geni ancestrali. Un’idea migliore – anche
se ancora da perfezionare – di questa serie può essere ottenuta contando le
famiglie di geni che hanno rappresentanti in più specie, ma non necessariamente in tutte, tratte da tutti e tre i domini principali. Questa analisi rivela
264 antiche famiglie conservate. A ciascuna di queste famiglie si può assegnare una funzione (almeno in termini di attività biochimica generale, ma
di solito con più precisione) e il numero maggiore di famiglie di geni condivise è coinvolto nella traduzione e nel metabolismo e trasporto degli amminoacidi (Tabella 1.1). Tuttavia, questa serie di famiglie di geni altamente
conservate rappresenta soltanto un quadro molto approssimativo dell’eredità comune di tutta la vita attuale; una ricostruzione più precisa del corredo
di geni dell’ultimo progenitore universale comune potrebbe diventare possibile con l’ulteriore sequenziamento di genomi e con forme più sofisticate di analisi comparativa.
■ Le mutazioni rivelano le funzioni dei geni
Senza ulteriori informazioni, per quanto si osservino le sequenze del genoma,
non si riuscirà a scoprire la funzione dei geni. Possiamo riconoscere che il gene B è simile al gene A, ma in che modo scopriamo in primo luogo la funzioTABELLA 1.1 I numeri di famiglie di geni, classificate per funzione, che sono comuni a tutti e tre i domini
del mondo vivente
Elaborazione dell’informazione
Metabolismo
Traduzione
63
Trascrizione
7
Replicazione, riparazione, ricombinazione
13
Processi cellulari e segnalazione
Produzione e conversione di energia
19
Trasporto e metabolismo dei carboidrati
16
Trasporto e metabolismo degli amminoacidi
43
Trasporto e metabolismo dei nucleotidi
15
22
Controllo del ciclo cellulare, mitosi e meiosi
2
Trasporto e metabolismo dei coenzimi
Meccanismi di difesa
3
Trasporto e metabolismo dei lipidi
9
Meccanismi di trasduzione del segnale
1
Trasporto e metabolismo di ioni inorganici
8
Biogenesi della parete e della membrana
cellulare
2
Biosintesi, trasporto e catabolismo di
metaboliti secondari
5
Traffico intracellulare e secrezione
4
Poco caratterizzata
Modificazioni post-traduzionali, turnover delle
proteine, chaperoni
8
Funzioni biochimiche generali previste;
ruolo biologico specifico sconosciuto
24
Per gli scopi di questa analisi le famiglie di geni sono definite come “universali” se sono rappresentate nei genomi di almeno due archei diversi
(Archaeoglobus fulgidus e Aeropyrum pernix), due batteri evolutivamente distanti (Escherichia coli e Bacillus subtilis) e un eucariote (lievito,
Saccharomyces cerevisiae). (Dati da R.L. Tatusov, E.V. Koonin e D.J. Lipman, Science 278:631-637, 1997, con il permesso di AAAS; R.L. Tatusov et
al., BMC Bioinformatics 4:441, 2003, con il permesso di BioMed Central e il database COGs della US National Library of Medicine.)
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
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ne del gene A? E anche se conosciamo la funzione del gene A, in che modo
controlliamo se la funzione del gene B è davvero la stessa, come la somiglianza
di sequenza suggerisce? In che modo tracciamo la connessione fra il mondo
dell’informazione genetica astratta e il mondo degli organismi viventi reali?
L’analisi delle funzioni dei geni dipende da due approcci complementari: genetica e biochimica. La genetica inizia con lo studio di mutanti: troviamo o produciamo un organismo in cui un gene è alterato ed esaminiamo gli
effetti sulla struttura e sulle prestazioni dell’organismo (Figura 1.23). La biochimica esamina le funzioni delle molecole: estraiamo molecole da un organismo e quindi ne studiamo l’attività chimica. Unendo genetica e biochimica è possibile trovare quelle molecole la cui produzione dipende da un
dato gene. Allo stesso tempo studi delle prestazioni dell’organismo mutante ci mostrano quale ruolo quelle molecole hanno nelle attività dell’organismo nel suo insieme. Quindi genetica e biochimica combinate forniscono
un modo di scoprire la connessione di geni e molecole alla struttura e funzione dell’organismo.
Negli ultimi anni le informazioni di sequenza del DNA e i potenti strumenti della biologia molecolare hanno permesso un rapido progresso. Mediante confronti delle sequenze si possono spesso identificare regioni particolari all’interno di un gene che si sono conservate quasi senza cambiamenti nel
corso dell’evoluzione. Queste regioni conservate sono probabilmente le parti più importanti del gene in termini di funzione. Possiamo controllare il loro
contributo individuale all’attività del prodotto del gene creando in laboratorio mutazioni di siti specifici all’interno del gene, o costruendo geni ibridi artificiali che combinano parte di un gene con una parte di un altro. Gli organismi possono essere ingegnerizzati per produrre l’RNA o la proteina specificata dal gene in grandi quantità per facilitare l’analisi biochimica. Specialisti
in struttura molecolare possono determinare la conformazione tridimensionale del prodotto del gene, rivelando la posizione esatta di tutti i suoi atomi.
I biochimici possono determinare in che modo le varie parti della molecola
specificata geneticamente contribuiscono al suo comportamento chimico. I
biologi cellulari possono analizzare il comportamento di cellule ingegnerizzate per esprimere una versione mutante del gene.
Non esiste tuttavia un’unica semplice ricetta per scoprire la funzione di
un gene, né un semplice formato universale standard che la descriva. Possiamo scoprire, per esempio, che il prodotto di un dato gene catalizza una data
reazione chimica eppure non avere idea di come e perché quella reazione sia
importante per l’organismo. La caratterizzazione funzionale di ciascuna nuova
famiglia di prodotti genici, a differenza della descrizione delle sequenze dei geni, presenta una nuova sfida per il biologo. Inoltre la funzione di un gene non
è mai compresa del tutto fino a che non conosciamo il suo ruolo nella vita
dell’organismo nel suo insieme. Per dare il senso finale alle funzioni di un gene
dobbiamo perciò studiare organismi interi e non soltanto molecole o cellule.
■ I biologi molecolari si sono concentrati su E. coli
Poiché gli organismi viventi sono così complessi, più impariamo su una specie particolare, più questa diventa interessante come oggetto di ulteriori studi. Ciascuna scoperta solleva nuove domande e fornisce nuovi strumenti con
i quali affrontare questioni generali che riguardano l’organismo scelto. Per
questa ragione grandi comunità di biologi si sono dedicate a studiare diversi
aspetti dello stesso organismo modello.
Nel mondo enormemente vario dei batteri il riflettore della biologia molecolare si è per lungo tempo concentrato intensamente su una singola specie: Escherichia coli o E. coli (vedi Figure 1.13 e 1.14). Questa piccola cellula
batterica a forma di bastoncino vive normalmente nell’intestino dell’uomo e
di altri vertebrati, ma può essere fatta crescere facilmente in un semplice brodo nutriente in una fiasca da coltura. Il batterio si adatta a condizioni chimiche variabili, si riproduce rapidamente e può evolvere per mutazione e selezione a notevole velocità. Come per altri batteri, ceppi diversi di E. coli, anche
se sono classificati come membri di una singola specie, differiscono geneticamente in grado maggiore di quanto differiscano fra loro varietà diverse di
5 µm
Figura 1.23 Un fenotipo mutante
che riflette la funzione di un
gene. Un lievito normale (della
specie Schizosaccharomyces pombe)
è confrontato con un mutante in cui
un cambiamento in un singolo gene
ha convertito la cellula da una forma
a sigaro (sinistra) a una forma a T
(destra). Il gene mutante ha perciò
una funzione nel controllo della forma
della cellula. Ma come, in termini
molecolari, questo gene svolge tale
funzione? Questa è una domanda
più difficile e necessita di un’analisi
biochimica per avere risposta. (Per
gentile concessione di Kenneth Sawin
e Paul Nurse.)
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
24
Figura 1.24 Il genoma di E. coli.
(A) Un gruppo di cellule di E. coli.
(B) Un disegno schematico del
genoma del ceppo K-12 di E. coli. Il
disegno è circolare perché il DNA di
E. coli, come quello di altri procarioti,
forma un unico anello chiuso. I geni
che codificano proteine sono mostrati
come barre gialle o arancione, a
seconda del filamento di DNA dal
quale vengono trascritti; geni che
codificano soltanto molecole di RNA
sono indicati da frecce verdi. Alcuni
geni sono trascritti da un filamento
della doppia elica del DNA (in senso
orario in questo disegno), altri
dall’altro filamento (antiorario).
(A, per gentile concessione del
dottor Tony Brain e David Parker/
Photo Researchers; B, adattato da
F.R. Blattner et al., Science 277:14531462, 1997.)
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origine
della
replicazione
(A)
Escherichia coli K-12
4 639 221 coppie di nucleotidi
termine
della
replicazione
(B)
un organismo che si riproduce sessualmente come un vegetale o un animale. Un ceppo di E. coli può possedere centinaia di geni che sono assenti in un
altro e i due ceppi possono avere in comune anche soltanto il 50% dei loro
geni. Il ceppo standard di laboratorio di E. coli K-12 ha un genoma costituito approssimativamente da 4,6 milioni di coppie di nucleotidi, contenuti in
una singola molecola di DNA circolare che codifica circa 4300 specie diverse di proteine (Figura 1.24).
In termini molecolari abbiamo una conoscenza più approfondita del funzionamento di E. coli che di qualunque altro organismo vivente. La maggior
parte della nostra comprensione dei meccanismi fondamentali della vita – per
esempio il modo in cui le cellule replicano il loro DNA, o come decodificano le istruzioni rappresentate nel DNA per dirigere la sintesi di proteine specifiche – è derivata dallo studio di E. coli. I meccanismi genetici di base si sono rivelati altamente conservati durante l’evoluzione: questi meccanismi sono
perciò essenzialmente gli stessi nelle nostre cellule e in E. coli.
SOMMARIO I procarioti (cellule senza un nucleo distinto) sono biochimicamente
gli organismi più diversificati e comprendono specie che possono ottenere tutta la
loro energia e i loro nutrienti da fonti chimiche inorganiche, come le miscele reattive
di minerali rilasciate dai camini idrotermali sul fondo dell’oceano, il tipo di dieta
che può avere nutrito le prime cellule viventi 3,5 miliardi di anni fa. Il confronto
delle sequenze di DNA rivela le relazioni familiari fra gli organismi viventi e mostra
che i procarioti si dividono in due gruppi che si sono separati precocemente nel
corso dell’evoluzione: i batteri (o eubatteri) e gli archei. Insieme agli eucarioti
(cellule con un nucleo circondato da membrana) questi costituiscono i tre rami
principali dell’albero della vita. La maggior parte dei batteri e degli archei sono
piccoli organismi unicellulari con genomi compatti che comprendono 1000-6000
geni. Molti geni di un singolo organismo mostrano forti somiglianze familiari nella
sequenza del DNA, il che implica che si sono originati dallo stesso gene ancestrale
per duplicazione genica e divergenza. Somiglianze familiari (omologie) sono chiare
anche quando si confrontano sequenze di geni fra specie diverse e più di 200
famiglie geniche si sono conservate al punto tale che possono essere riconosciute
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
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come comuni alla maggior parte delle specie di tutti e tre i domini del mondo
vivente. Così, data la sequenza di DNA di un gene appena scoperto, è spesso
possibile dedurre la funzione del gene dalla funzione nota di un gene omologo in
un organismo modello studiato intensivamente, come il batterio E. coli. ●
LÕinformazione genetica negli eucarioti
Le cellule eucariotiche, in generale, sono più grandi e più elaborate delle cellule procariotiche e i loro genomi sono anch’essi più grandi e più elaborati.
Le maggiori dimensioni sono accompagnate da differenze radicali nella struttura e nella funzione della cellula. Inoltre molte classi di cellule eucariotiche
formano organismi pluricellulari che arrivano a un livello di complessità mai
raggiunto da nessun procariote.
Poiché sono così complessi, gli eucarioti pongono ai biologi molecolari
una serie speciale di sfide, che ci riguarderanno per il resto di questo libro. I
biologi affrontano queste sfide sempre più attraverso l’analisi e la manipolazione dell’informazione genetica all’interno di cellule e organismi. È perciò
importante conoscere da subito alcuni degli aspetti peculiari del genoma eucariotico. Inizieremo prendendo brevemente in esame la maniera in cui sono
organizzate le cellule eucariotiche, come ciò riflette il loro modo di vivere e
come i loro genomi differiscono da quelli dei procarioti. Ciò ci porterà a delineare la strategia per mezzo della quale i biologi molecolari, sfruttando l’informazione genetica, stanno tentando di scoprire il modo in cui funzionano
gli organismi eucariotici.
■ Le cellule eucariotiche possono avere avuto origine come
predatori
Per definizione le cellule eucariotiche custodiscono il loro DNA in un compartimento interno chiamato nucleo. Il DNA è separato dal citoplasma dall’involucro nucleare, che consiste di un doppio strato di membrana che circonda il
nucleo. Gli eucarioti hanno anche altri aspetti che li distinguono dai procarioti
(Figura 1.25). Le loro cellule sono, di norma, 10 volte più grandi in dimensioni lineari e 1000 volte in volume. Esse hanno un citoscheletro, ovvero un sistema di filamenti proteici che si incrociano nel citoplasma e formano, insieme
alle molte proteine che si attaccano a essi, una combinazione di fasce, corde e
motori che conferiscono alla cellula forza meccanica, ne controllano la forma
e ne azionano e guidano i movimenti (Filmato 1.1 ). L’involucro nucleare è
soltanto una parte di una serie complessa di membrane interne, ciascuna strutturalmente simile alla membrana plasmatica, che racchiudono tipi diversi di spazi all’interno della cellula, molti dei quali sono coinvolti in processi correlati a
digestione e secrezione. Essendo prive della robusta parete cellulare tipica della
maggior parte dei batteri, le cellule animali e le cellule eucariotiche che vivono libere chiamate protozoi possono modificare la propria forma rapidamente
e inglobare altre cellule e piccole particelle mediante la fagocitosi (Figura 1.26).
È ancora un mistero il modo in cui tutte queste proprietà si sono evolute
e in quale sequenza. Una visione plausibile, tuttavia, è che siano tutte riflessi
del modo di vivere di una cellula eucariotica primordiale che era un predatore e viveva catturando altre cellule e mangiandole (Figura 1.27). Questo modo
di vivere richiede una cellula grande con una membrana plasmatica flessibile,
oltre a un citoscheletro elaborato per sostenere e muovere questa membrana.
Può anche richiedere che le lunghe e fragili molecole di DNA siano sequestrate in un compartimento nucleare separato, per proteggere il genoma dai
danni provocati dai movimenti del citoscheletro.
■ Le cellule eucariotiche attuali si sono evolute da una simbiosi
Un modo di vivere predatorio aiuta a spiegare un altro aspetto delle cellule
eucariotiche.Tutte queste cellule contengono, o hanno contenuto in qualche
momento della loro storia, mitocondri (Figura 1.28). Questi piccoli corpi citoplasmatici, racchiusi da un doppio strato di membrane, assumono ossigeno e
25
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
26
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microtubulo
centrosoma con
la coppia di centrioli
5 µm
matrice extracellulare
cromatina (DNA)
poro nucleare
involucro nucleare
vescicole
lisosoma
filamenti
di actina
nucleolo
perossisoma
ribosomi
nel citosol apparato del Golgi filamenti
intermedi
Figura 1.25 Le caratteristiche
principali delle cellule eucariotiche.
Il disegno rappresenta una tipica
cellula animale, ma quasi tutti gli stessi
componenti si trovano nei vegetali,
nei funghi e in eucarioti monocellulari
come lieviti e protozoi. Le cellule
vegetali contengono cloroplasti oltre
ai componenti mostrati qui e la loro
membrana plasmatica è circondata da
una robusta parete esterna formata da
cellulosa.
Figura 1.26 Fagocitosi. Questa
serie di fermo-immagini di un film
mostra un globulo bianco umano (un
neutrofilo) che ingloba un globulo
rosso (colorato artificialmente in rosso)
che è stato trattato con un anticorpo
che lo contrassegna affinché sia
distrutto (vedi Filmato 13.5).
(Per gentile concessione di Stephen
E. Malawista e Anne de Boisfleury
Chevance.)
membrana plasmatica
nucleo
reticolo
endoplasmatico
mitocondrio
imbrigliano energia dall’ossidazione di molecole di cibo – come gli zuccheri – per produrre la maggior parte dell’ATP che alimenta le attività della cellula. I mitocondri sono simili in dimensioni a piccoli batteri e, come i batteri, hanno un loro genoma sotto forma di una molecola circolare di DNA,
propri ribosomi, diversi da quelli presenti altrove nella cellula eucariotica, e
propri RNA transfer. È oggi generalmente accettato che i mitocondri si siano originati da batteri liberi che metabolizzavano ossigeno (aerobici) inglobati da una cellula eucariotica ancestrale che non poteva altrimenti fare uso
dell’ossigeno (era cioè anaerobica). Sfuggendo alla digestione, questi batteri si
sono evoluti in simbiosi con la cellula che li aveva inglobati e con la sua progenie, ricevendo riparo e nutrimento in cambio della generazione di energia che producevano per i loro ospiti. Questa simbiosi fra un predatore eucariotico anaerobico primitivo e una cellula batterica aerobica si pensa si sia
stabilita circa 1,5 miliardi di anni fa, quando l’atmosfera della Terra cominciò
a diventare ricca di ossigeno.
Come mostrato nella Figura 1.29, analisi recenti del genoma suggeriscono che le prime cellule eucariotiche si sono formate dopo che un archibatterio ha inglobato un eubatterio aerobico. Questo spiegherebbe perché tutte le cellule eucariotiche odierne, anche quelle che vivono in condizioni
strettamente anaerobiche, mostrano chiaramente di aver contenuto un tempo mitocondri.
Molte cellule eucariotiche – specificamente, quelle dei vegetali e delle
alghe – contengono anche un’altra classe di piccoli organelli circondati da
10 µm
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Figura 1.27 Un eucariote
(A)
100 µm
(B)
membrana in parte simili ai mitocondri, i cloroplasti (Figura 1.30). I cloroplasti
svolgono la fotosintesi, usando l’energia della luce solare per sintetizzare carboidrati da anidride carbonica atmosferica e acqua, e consegnano i prodotti
alla cellula ospite come cibo. Come i mitocondri, i cloroplasti hanno un proprio genoma e quasi certamente si sono originati come batteri fotosintetici
simbionti, acquisiti da cellule che possedevano già mitocondri (Figura 1.31).
unicellulare che mangia altre
cellule. (A) Il Didinium è un protozoo
carnivoro, che appartiene al gruppo
noto come ciliati. Ha un corpo
globulare, circa 150 mm di diametro,
circondato da due frange di ciglia,
appendici sinuose simili a fruste
che battono in continuazione; la
sua estremità anteriore è appiattita
eccetto per una singola protrusione,
piuttosto simile a un muso. (B) Il
Didinium che ingloba la sua preda.
Il Didinium normalmente nuota
nell’acqua ad alta velocità per mezzo
del battito sincrono delle sue ciglia.
Quando incontra una preda adatta,
in genere un altro tipo di protozoo,
rilascia numerosi piccoli dardi
paralizzanti dalla regione del muso.
Quindi il Didinium si attacca all’altra
cellula e la divora per fagocitosi,
rivoltandosi come una palla cava per
inglobare la sua vittima, che è quasi
delle stesse dimensioni. (Per gentile
concessione di D. Barlow.)
(B)
(C)
(A)
100 nm
Figura 1.28 Un mitocondrio. (A) Una sezione trasversale, vista al
microscopio elettronico. (B) Un disegno di un mitocondrio con una
parte tagliata per mostrare la struttura tridimensionale (Filmato
1.2 ). (C) Una cellula eucariotica schematica, con in colore lo
spazio interno di un mitocondrio, che contiene il DNA e i ribosomi
mitocondriali. Si notino la membrana esterna liscia e la membrana
interna convoluta, che ospita le proteine che generano ATP
dall’ossidazione di molecole di cibo. (A, per gentile concessione di
Daniel S. Friend.)
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
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cellula anaerobica
derivata da un archibatterio
cellula eucariotica
aerobica primitiva
nucleo
primitivo
nucleo
membrana
interna
membrana batterica esterna
membrana plasmatica
batterica
perdita della membrana
derivata dall’archibatterio
mitocondrio
con due membrane
batterio aerobico
Figura 1.29 L’origine dei
mitocondri. Si pensa che un’antica
cellula predatrice anaerobica (un
archibatterio) abbia inglobato
l’antenato batterico dei mitocondri,
iniziando una relazione simbiotica.
Oggi si può riconoscere chiaramente
nei genomi di tutti gli eucarioti una
doppia eredità: sia dagli eubatteri che
dagli archibatteri.
Una cellula eucariotica equipaggiata con i cloroplasti non ha bisogno
di cacciare altre cellule come preda; è nutrita dai cloroplasti prigionieri che
ha ereditato dai suoi progenitori. Di conseguenza le cellule vegetali, anche
se possiedono l’equipaggiamento citoscheletrico per il movimento, hanno
perso la capacità di cambiare forma rapidamente e di inglobare altre cellule
per fagocitosi e hanno invece creato intorno a sé una robusta parete cellulare protettiva. Se l’eucariote ancestrale era davvero un predatore, possiamo
considerare le cellule vegetali come eucarioti che hanno compiuto la transizione dalla caccia alla coltivazione.
I funghi rappresentano un ulteriore modo di vivere eucariotico. Le cellule
dei funghi, come quelle degli animali, possiedono mitocondri ma non cloroplasti; tuttavia, a differenza delle cellule animali e dei protozoi, hanno una robusta parete esterna che limita la loro capacità di muoversi rapidamente o di
inghiottire altre cellule. Sembra che i funghi si siano trasformati da cacciatori in spazzini: altre cellule secernono molecole nutrienti o le rilasciano quando muoiono e i funghi si nutrono di questi resti, eseguendo qualunque digestione sia necessaria al di fuori delle cellule, attraverso la secrezione di enzimi
digestivi all’esterno.
cloroplasti
membrane
contenenti
clorofilla
Figura 1.30 Cloroplasti. Questi
organelli catturano l’energia della luce
solare nelle cellule vegetali e in alcuni
eucarioti unicellulari. (A) Una cellula
isolata da una foglia di una pianta da
fiore, vista al microscopio ottico, che
mostra i cloroplasti verdi (Filmato
1.3 e vedi anche Filmato 14.9).
(B) Disegno di uno dei cloroplasti, che
mostra il sistema altamente ripiegato
di membrane interne che contengono
le molecole di clorofilla tramite le quali
viene assorbita la luce. (A, per gentile
concessione di Preeti Dahiya.)
membrana
interna
membrana
esterna
(A)
10 µm
(B)
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cellula eucariotica
primitiva
cellula eucariotica
primitiva capace
di fotosintesi
cloroplasti
batterio
fotosintetico
■ Gli eucarioti hanno genomi ibridi
L’informazione genetica delle cellule eucariotiche ha un’origine ibrida
(dall’archibatterio ancestrale anaerobico e dai batteri adottati come simbionti). La maggior parte di questa informazione è conservata nel nucleo,
ma una piccola quantità rimane nei mitocondri e, per le cellule delle alghe
e dei vegetali, nei cloroplasti. Il DNA dei mitocondri e dei cloroplasti può
essere separato dal DNA nucleare e analizzato e sequenziato individualmente. I genomi dei mitocondri e dei cloroplasti si sono rivelati versioni degenerate e ridotte dei corrispondenti genomi batterici. In una cellula umana, per esempio, il genoma mitocondriale consiste soltanto di 16 569 coppie di nucleotidi e codifica solamente 13 proteine, due RNA ribosomiali e
22 RNA transfer.
I geni assenti nei mitocondri e nei cloroplasti non sono andati tutti perduti; molti di essi si sono invece spostati nel DNA del nucleo della cellula
ospite. Il DNA nucleare umano contiene molti geni che codificano proteine che svolgono funzioni essenziali all’interno del mitocondrio; nei vegetali il DNA nucleare contiene anche molti geni che specificano proteine necessarie nei cloroplasti. In entrambi i casi le sequenze di DNA di questi geni nucleari mostrano chiaramente la loro origine dagli antenati batterici del
rispettivo organello.
■ I genomi eucariotici sono grandi
La selezione naturale ha evidentemente favorito mitocondri con genomi piccoli. Al contrario, sembra che i genomi nucleari della maggior parte degli eucarioti siano stati liberi di ingrandirsi. Forse il modo di vivere eucariotico ha
reso le grandi dimensioni un vantaggio: i predatori devono essere più grandi
della loro preda e le dimensioni cellulari in genere aumentano in proporzione alle dimensioni del genoma. Qualunque sia la spiegazione, aiutati dall’accumulo di elementi trasponibili parassiti (di cui parleremo nel Capitolo 5), i
genomi della maggior parte degli eucarioti sono di ordini di grandezza maggiori rispetto a quelli dei batteri e degli archei (Figura 1.32).
La libertà di essere prodighi con il DNA ha avuto profonde implicazioni.
Gli eucarioti non solo hanno più geni dei procarioti; essi hanno anche molto
più DNA che non codifica proteine. Il genoma umano contiene 1000 volte
più coppie di nucleotidi del genoma di un batterio tipico, forse 10 volte più
geni e molto più DNA non codificante (circa il 98,5% del genoma umano è
non codificante, rispetto all’11% del genoma del batterio E. coli).
Nella Tabella 1.2 sono elencati, per un facile confronto con E. coli, le dimensioni dei genomi e il numero dei geni stimati per alcuni eucarioti. Discuteremo brevemente di come ognuno di questi eucarioti serva da organismo modello.
Figura 1.31 L’origine dei
cloroplasti. Una cellula eucariotica
primitiva, che già possedeva
mitocondri, ha inglobato un batterio
fotosintetico (un cianobatterio) e lo
ha trattenuto in simbiosi. Si pensa che
tutti i cloroplasti odierni discendano
da una singola specie di cianobatterio
che è stato adottato come simbionte
interno (un endosimbionte) più di un
miliardo di anni fa.
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
30
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Figura 1.32 Dimensioni dei
uomo
genomi a confronto. Le dimensioni
dei genomi sono misurate in coppie
di nucleotidi di DNA per genoma
aploide, cioè per singola copia del
genoma. (Le cellule di organismi che
si riproducono sessualmente come
noi sono generalmente diploidi: esse
contengono due copie del genoma,
una ereditata dalla madre e l’altra
dal padre.) Organismi strettamente
correlati possono variare molto nella
quantità di DNA nel loro genoma,
anche se contengono numeri simili di
geni funzionalmente distinti. (Dati da
W.H. Li, Molecular Evolution, pp. 380383. Sunderland, MA: Sinauer, 1997.)
MAMMIFERI, UCCELLI, RETTILI
pesce
palla
pesce
zebra rana
tritone
ANFIBI, PESCI
moscerino della frutta
gamberetto
CROSTACEI, INSETTI
Caenorhabditis
VERMI NEMATODI
Arabidopsis
grano
giglio
VEGETALI, ALGHE
lievito
FUNGHI
parassita malarico
ameba
PROTOZOI
micoplasma
E. coli
BATTERI
ARCHEI
105
106
107
108
109
1010
coppie di nucleotidi per genoma aploide
1011
1012
TABELLA 1.2 Alcuni organismi modello e i loro genomi
Organismo
Escherichia coli (batterio)
Dimensione
del genoma*
(coppie di nucleotidi)
Numero
approssimato
di geni
4,6 3 106
4300
13 3
106
6600
Caenorhabditis elegans (verme)
130 3
106
21 000
Arabidopsis thaliana (pianta)
220 3
106
29 000
Drosophila melanogaster (moscerino)
200 3 106
15 000
Danio rerio (pesce zebra)
1400 3 106
32 000
Mus musculus (topo)
2800 3
106
30 000
Homo sapiens (uomo)
3200 3
106
30 000
Saccharomyces cerevisiae (lievito)
*La dimensione del genoma include una stima della quantità di sequenze di DNA altamente ripetute
non presenti nei database dei genomi.
■ I genomi eucariotici sono ricchi di DNA regolatore
Buona parte del nostro DNA non codificante è quasi certamente una cianfrusaglia di cui si potrebbe fare a meno, che conserviamo come pile di vecchie carte perché quando nessuno ci obbliga a mantenere piccolo un archivio
è più facile conservare tutto che selezionare le informazioni utili e scartare il
resto. Certe specie eucariotiche eccezionali, come una specie di pesce palla, sono una testimonianza della tendenza allo spreco dei loro parenti; esse sono in
qualche modo riuscite a liberarsi di grandi quantità di DNA non codificante.
Eppure appaiono simili per struttura, comportamento e adattamento a specie
correlate che hanno di gran lunga più DNA (vedi Figura 4.71).
Anche nei genomi eucariotici compatti come quello del pesce palla c’è
più DNA non codificante che DNA codificante e almeno una parte del DNA
non codificante ha certamente funzioni importanti. In particolare, serve a regolare l’espressione di geni adiacenti. Con questo DNA regolatore gli eucarioti
hanno evoluto modi caratteristici di controllare quando e dove un gene entra
in azione. Questa sofisticata regolazione genica è cruciale per la formazione
di complessi organismi pluricellulari.
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
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■ Il genoma definisce il programma dello sviluppo
pluricellulare
Le cellule di un singolo animale o vegetale sono straordinariamente varie. Cellule adipose, cellule della pelle, cellule dell’osso, cellule nervose sembrano tanto dissimili quanto due cellule possono esserlo (Figura 1.33). Eppure tutti questi tipi cellulari sono i discendenti di una singola cellula uovo fecondata e tutte (con rare eccezioni) contengono copie identiche del genoma della specie.
Le differenze derivano dal modo in cui queste cellule fanno un uso selettivo delle loro istruzioni genetiche secondo i segnali che ricevono dall’ambiente circostante durante lo sviluppo embrionale. Il DNA non è soltanto una lista della spesa che specifica le molecole che ogni cellula deve avere e la cellula
non è un insieme di tutti gli articoli della lista. Piuttosto la cellula si comporta come una macchina con più funzioni, con sensori per ricevere segnali ambientali e capacità altamente sviluppate di mettere in azione serie diverse di
geni secondo le sequenze di segnali ai quali la cellula è stata esposta. Il genoma di ciascuna cellula è abbastanza grande da contenere l’informazione che
specifica un intero organismo pluricellulare, ma in ogni singola cellula viene
usata soltanto una parte di quella informazione.
Una grande frazione dei geni del genoma eucariotico codifica proteine che servono a regolare le attività di altri geni. La maggior parte di questi
regolatori di trascrizione agisce legando, direttamente o indirettamente, DNA regolatore adiacente ai geni che devono essere controllati o interferendo con la
capacità di altre proteine di farlo. Il genoma espanso degli eucarioti serve perciò non soltanto a specificare l’hardware della cellula, ma anche a conservare
il software che controlla il modo in cui viene usato l’hardware (Figura 1.34).
Le cellule non si limitano a ricevere passivamente dei segnali, ma scambiano invece attivamente segnali con le cellule circostanti. Quindi, in un organismo pluricellulare che si sviluppa, ciascuna cellula è governata dallo stesso sistema di controllo, ma con conseguenze diverse a seconda dei segnali che
vengono scambiati. Il risultato, sorprendentemente, è una disposizione precisa
di cellule in stati diversi, ciascuna con caratteristiche appropriate alla sua posizione nella struttura pluricellulare.
neurone
neutrofilo
25 µm
Figura 1.33 I diversi tipi cellulari
variano enormemente per forma
e dimensioni. Una cellula nervosa
animale comparata a un neutrofilo, un
tipo di globulo bianco. Le cellule sono
disegnate in scala.
■ Molti eucarioti vivono come cellule solitarie
Molte specie di cellule eucariotiche conducono una vita solitaria: alcune
come cacciatori (i protozoi), altre come fotosintetizzatori (le alghe unicellulari), alcune come spazzini (i funghi unicellulari o lieviti). La Figura 1.35 rappresenta una parte dell’impressionante varietà di forme che possono assumere questi eucarioti unicellulari. L’anatomia dei protozoi, in particolare, è
spesso elaborata e comprende strutture come setole sensoriali, fotorecetto-
Figura 1.34 Controllo genetico
del programma di sviluppo
pluricellulare. Il ruolo di un gene
regolatore è dimostrato nella bocca di
leone Antirrhinum. In questo esempio
una mutazione in un singolo gene
che codifica una proteina regolatrice
provoca lo sviluppo di germogli dotati
di foglie al posto dei fiori: poiché
una proteina regolatrice è cambiata
le cellule adottano caratteri che
sarebbero appropriati a una posizione
diversa nella pianta normale. Il
mutante è a sinistra, la pianta normale
a destra. (Per gentile concessione di
Enrico Coen e Rosemary Carpenter.)
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
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(D)
(A)
(B)
Figura 1.35 Un assortimento
di protozoi: un piccolo esempio
di una classe estremamente
diversificata di organismi. I disegni
sono eseguiti a scale diverse, ma in
ciascun caso la barra rappresenta
10 mm. Gli organismi in (A), (C),
e (G) sono ciliati; (B) è un eliozoo;
(D) è un’ameba; (E) è un dinoflagellato;
(F) è un euglenoide. (Da M.A. Sleigh,
Biology of Protozoa. Cambridge,
Regno Unito: Cambridge University
Press, 1973.)
(C)
(E)
(F)
(G)
ri, ciglia che battono sinuosamente, appendici simili a gambe, apparati boccali, dardi pungenti e fasci contrattili simili a muscoli. Sebbene siano cellule
singole, i protozoi possono essere tanto intricati, versatili e complessi nel loro comportamento quanto molti organismi pluricellulari (vedi Figura 1.27,
Filmato 1.4
e Filmato 1.5 ).
In termini di antenati e di sequenze di DNA gli eucarioti unicellulari sono molto più diversificati degli animali, dei vegetali e dei funghi pluricellulari, che si sono originati come tre rami relativamente tardivi dell’albero genealogico eucariotico (vedi Figura 1.17). Come per i procarioti, gli esseri umani
hanno avuto la tendenza a trascurarli perché sono microscopici. Soltanto oggi, con l’aiuto dell’analisi dei genomi, cominciamo a capire le loro posizioni
nell’albero della vita e a mettere nel giusto contesto gli indizi che queste strane creature ci offrono sul nostro distante passato evolutivo.
■ Un lievito serve da modello eucariotico minimo
La complessità molecolare e genetica degli eucarioti è impressionante. Ancora più che per i procarioti, i biologi devono concentrare le loro risorse limitate su pochi organismi modello selezionati per affrontare questa complessità.
Per analizzare il funzionamento interno della cellula eucariotica, senza i
problemi ulteriori dello sviluppo pluricellulare, ha senso usare una specie che
sia unicellulare e più semplice possibile. La scelta per questo ruolo di modello eucariotico minimo è stata il lievito Saccharomyces cerevisiae (Figura 1.36), la
stessa specie che è usata per fare la birra e il pane.
S. cerevisiae è un piccolo membro unicellulare del regno dei funghi e
quindi, secondo le moderne vedute, correlato agli animali almeno tanto
quanto lo è ai vegetali. È resistente e facile da far crescere in un semplice
mezzo nutriente. Come altri funghi, ha una parete cellulare robusta, è relativamente immobile e possiede mitocondri ma non cloroplasti. Quando i
nutrienti sono abbondanti, cresce e si divide quasi alla stessa velocità di un
batterio. Si può riprodurre sia vegetativamente (cioè per semplice divisione
cellulare) che sessualmente: due cellule di lievito che sono aploidi (che possiedono una singola copia del genoma) si possono fondere per creare una
cellula che è diploide (che contiene una doppia copia del genoma); la cellula
diploide può subire la meiosi (una divisione riduttiva) per produrre cellule
che sono di nuovo aploidi (Figura 1.37). A differenza degli animali e dei vegetali superiori, il lievito si può dividere indefinitamente sia allo stato aploide che diploide e il processo che porta da uno stato all’altro può essere indotto a piacere cambiando le condizioni di crescita.
Oltre a queste caratteristiche, il lievito possiede un’ulteriore proprietà
che lo rende un organismo adatto per gli studi genetici: il suo genoma, secondo gli standard eucariotici, è eccezionalmente piccolo. Nonostante ciò,
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
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Figura 1.36 Il lievito
Saccharomyces cerevisiae.
(A) Micrografia elettronica a scansione
di un gruppo di cellule. Questa specie
è nota anche come lievito gemmante;
prolifera formando una protrusione
o gemma che si ingrossa e quindi si
separa dal resto della cellula originaria.
Nella micrografia sono visibili
molte cellule con gemme. (B) Una
micrografia elettronica a trasmissione
di una sezione trasversale di una
cellula di lievito, che mostra il nucleo,
un mitocondrio e la spessa parete
cellulare. (A, per gentile concessione
di Ira Herskowitz e Eric Schabatach.)
parete
cellulare
nucleo
mitocondrio
(A)
10 µm
(B)
2 µm
è sufficiente per tutti i compiti fondamentali che ogni cellula eucariotica
deve svolgere. Sono disponibili mutanti praticamente per ogni gene e studi
sui lieviti (usando sia S. cerevisiae che altre specie) hanno fornito una chiave
alla comprensione di molti processi determinanti, fra cui il ciclo di divisione cellulare eucariotico (la catena cruciale di eventi per cui il nucleo e tutti
gli altri componenti di una cellula si duplicano e si dividono per creare due
cellule figlie). Il sistema di controllo che governa questo processo si è conservato così bene nel corso dell’evoluzione che molti dei suoi componenti possono agire in modo intercambiabile nel lievito e nelle cellule umane:
se a un lievito mutante privo di un gene essenziale per il ciclo cellulare del
lievito viene fornita una copia del gene omologo umano, il lievito è curato
del suo difetto e diventa capace di dividersi normalmente.
■ I livelli di espressione di tutti i geni di un organismo possono
essere monitorati simultaneamente
La sequenza completa del genoma di S. cerevisiae è stata determinata nel 1997.
Essa consiste approssimativamente di 13 117 000 coppie di nucleotidi, compreso il piccolo contributo (78 520) del DNA mitocondriale. Il totale è soltanto circa 2,5 volte il DNA presente in E. coli e codifica proteine distinte pari soltanto a 1,5 volte (circa 6600 in tutto). Lo stile di vita di S. cerevisiae è simile sotto molti aspetti a quello di un batterio e sembra che questo lievito sia
stato soggetto nello stesso modo a pressioni selettive che hanno mantenuto
compatto il suo genoma.
La conoscenza della sequenza completa del genoma di qualunque organismo – che sia un lievito o l’uomo – apre nuove prospettive sul funzionamento
della cellula: questioni che una volta sembravano talmente complesse da renderne impossibile la comprensione adesso sembrano alla nostra portata. Usando tecniche che verranno descritte nel Capitolo 8 è oggi possibile, per esempio, monitorare simultaneamente la quantità di mRNA trascritto da ogni gene
del genoma del lievito in qualunque condizione scelta e osservare come questo schema completo di attività genica cambi quando cambiano le condizioni. L’analisi può essere ripetuta con mRNA preparato da mutanti privi di un
gene scelto (qualunque gene che ci interessi controllare). In linea di principio,
questo approccio fornisce un modo di rivelare l’intero sistema di relazioni di
controllo che governano l’espressione genica, non soltanto in queste cellule
di lievito ma in qualunque organismo di cui sia nota la sequenza del genoma.
■ L’Arabidopsis è stata scelta fra 300 000 specie come modello
di vegetale
I grandi organismi pluricellulari che vediamo intorno a noi – i fiori, gli alberi e gli animali – sembrano incredibilmente vari, ma sono molto più simili fra
loro nella loro origine evolutiva e nella loro biologia cellulare di base, rispetto alla grande quantità di organismi microscopici unicellulari. Quindi, men-
2n
2n
proliferazione
di cellule
diploidi
2n
meiosi e sporulazione
(scatenate dalla mancanza
di nutrienti)
2n
n
n
accoppiamento (in genere
immediatamente dopo
che si sono schiuse le spore
n
n
le spore
si schiudono
n
n
n
proliferazione
di cellule
aploidi
n
CICLO VITALE DEL LIEVITO GEMMANTE
Figura 1.37 I cicli riproduttivi del
lievito S. cerevisiae. A seconda delle
condizioni ambientali e di dettagli
del genotipo le cellule di questa
specie possono essere in uno stato
diploide (2n), con una doppia serie di
cromosomi, o in uno stato aploide (n),
con una singola serie di cromosomi. La
forma diploide può proliferare per cicli
di divisione cellulare ordinaria o subire
una meiosi producendo cellule aploidi.
La forma aploide può proliferare per
cicli di divisione cellulare ordinaria
o subire una fusione sessuale con
un’altra cellula aploide per diventare
diploide. La meiosi è innescata da
mancanza di nutrienti e dà origine
a spore, cellule aploidi in uno stato
dormiente, resistenti a condizioni
ambientali avverse.
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
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tre batteri ed eucarioti sono separati da forse 3,5 miliardi di anni di evoluzione divergente, vertebrati e insetti sono separati da circa 700 milioni di anni, i
pesci e i mammiferi da circa 450 milioni di anni e le diverse specie di piante
da fiore da soltanto 150 milioni di anni.
A causa della stretta relazione evolutiva fra tutte le piante da fiore possiamo,
ancora una volta, ottenere informazioni sulla cellula e sulla biologia molecolare di questa intera classe di organismi concentrandoci per un’analisi dettagliata
soltanto su una specie o su poche specie. Fra le parecchie centinaia di migliaia
di specie di piante da fiore presenti oggi sulla Terra i biologi molecolari hanno scelto di concentrare i loro sforzi su una piccola erba infestante, la diffusa
arabetta comune Arabidopsis thaliana (Figura 1.38), che può essere fatta crescere
in serra in grande quantità e produce una progenie di migliaia di piante dopo 8-10 settimane. L’Arabidopsis ha un genoma approssimativamente di 220
milioni di coppie di basi, circa 17 volte quello del lievito (vedi Tabella 1.2).
■ Il mondo delle cellule animali è rappresentato da un verme,
da un moscerino, da un topo e da un essere umano
1 cm
Figura 1.38 Arabidopsis thaliana,
la pianta scelta come modello
principale per studiare la genetica
molecolare dei vegetali. (Per gentile
concessione di Toni Hayden e della
John Innes Foundation.)
Gli animali pluricellulari costituiscono la maggioranza di tutte le specie conosciute di organismi viventi e sono oggetto della parte più consistente degli
sforzi della ricerca biologica. Cinque specie sono emerse come modelli principali per gli studi di genetica molecolare e sono, in ordine di grandezza crescente, il verme nematode Caenorhabditis elegans, il moscerino Drosophila melanogaster, il pesce zebra Danio rerio, il topo Mus musculus e l’uomo, Homo sapiens. Di tutti questi organismi è stato sequenziato il genoma.
Caenorhabditis elegans (Figura 1.39) è un piccolo parente inoffensivo di un
verme che attacca i raccolti. Con un ciclo vitale di pochi giorni soltanto, una
capacità di sopravvivere in un congelatore indefinitamente in uno stato di vita
sospeso, un piano corporeo semplice e un ciclo vitale insolito che ben si adatta agli studi genetici (descritti nel Capitolo 21), è un organismo modello ideale.
C. elegans si sviluppa con precisione cronometrica da una cellula uovo fecondata in un verme adulto con esattamente 959 cellule corporee (più un numero
variabile di cellule uovo e spermatiche): un grado insolito di regolarità per un
animale. Oggi abbiamo una descrizione minutamente dettagliata della sequenza di eventi tramite i quali ciò accade, man mano che le cellule si dividono, si
muovono e cambiano caratteristiche secondo regole rigide e prevedibili. Il genoma di 130 milioni di coppie di nucleotidi codifica circa 21 000 proteine ed è
disponibile una gran quantità di mutanti e di altri strumenti per controllare la
funzione dei geni. Sebbene il verme abbia un piano corporeo molto diverso dal
nostro, la conservazione dei meccanismi biologici è stata sufficiente a permettere al verme di essere utilizzato come modello per molti dei processi biologici
e di sviluppo che avvengono nel corpo umano. Lo studio del verme ci aiuta a
capire, per esempio, i programmi di divisione cellulare e di morte cellulare che
determinano il numero di cellule nel corpo, un argomento di grande importanza per la biologia dello sviluppo e per la ricerca sul cancro.
0,2 mm
Figura 1.39 Caenorhabditis elegans, il primo organismo pluricellulare di cui è
stata determinata la sequenza completa del genoma. Questo piccolo nematode,
lungo circa 1 mm, vive nel terreno. La maggior parte degli individui è ermafrodita e
produce sia uova che spermatozoi. (Per gentile concessione di Maria Gallegos, Wisconsin
University, Madison.)
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
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Figura 1.40 Drosophila
melanogaster. Studi di genetica
molecolare di questo moscerino
hanno fornito la chiave principale
per la comprensione del modo in cui
gli animali si sviluppano da un uovo
fecondato in un adulto. (Da E.B.
Lewis, Science 221: copertina, 1983.
Con il permesso di AAAS.)
1 mm
■ Lo studio della Drosophila fornisce una chiave
per lo sviluppo dei vertebrati
Il moscerino della frutta Drosophila melanogaster (Figura 1.40) è stato usato come organismo genetico modello più a lungo di qualunque altro; in effetti le
fondamenta della genetica classica sono state costruite in gran parte su studi
di questo insetto. Più di 80 anni fa questo moscerino ha fornito, per esempio,
la prova definitiva che i geni – le unità astratte dell’informazione ereditaria –
sono portati su cromosomi, oggetti fisici concreti il cui comportamento era
stato seguito attentamente nella cellula eucariotica con il microscopio ottico,
ma la cui funzione era rimasta all’inizio sconosciuta. La prova dipese da una
delle molte caratteristiche che rendono la Drosophila particolarmente adatta per i genetisti: i cromosomi giganti, con un tipico aspetto bandeggiato, che
sono visibili in alcune delle sue cellule (Figura 1.41). Si trovò che cambiamenti specifici nell’informazione ereditaria, manifesti in famiglie di mosche mutanti, erano correlati esattamente con la perdita o l’alterazione di bande specifiche dei cromosomi giganti.
In tempi più recenti la Drosophila, più di qualunque altro organismo, ci ha
mostrato come ripercorrere la catena di causa ed effetto dalle istruzioni genetiche codificate nel DNA cromosomico alla struttura del corpo pluricellulare adulto. Mutanti di Drosophila con parti del corpo stranamente fuori posto
o con uno schema alterato hanno fornito la chiave per identificare e caratterizzare i geni necessari per costruire un corpo correttamente strutturato, con
intestino, arti, occhi e tutte le altre parti al posto giusto. Una volta che questi
geni di Drosophila sono stati sequenziati, è stato possibile ricercare loro omologhi nei genomi dei vertebrati. Questi sono stati trovati e le loro funzioni nei
vertebrati sono state quindi controllate analizzando topi in cui i geni erano
stati mutati. I risultati, come vedremo più avanti in questo testo, rivelano un
grado stupefacente di somiglianza nei meccanismi molecolari dello sviluppo
degli insetti e dei vertebrati (discussi nel Capitoli 21).
La maggioranza delle specie conosciute di organismi viventi sono insetti.
Anche se la Drosophila non avesse niente in comune con i vertebrati, ma solo
con gli insetti, sarebbe ancora un importante organismo modello. Ma se l’obiettivo è la comprensione della genetica molecolare dei vertebrati, perché
non affrontare semplicemente il problema in modo diretto? Perché avvicinarsi a esso obliquamente, attraverso lo studio della Drosophila?
La Drosophila richiede soltanto 9 giorni per progredire da un uovo fecondato a un adulto; è enormemente più facile e più economica da allevare
di qualunque vertebrato e il suo genoma è molto più piccolo, circa 200 milioni di coppie di nucleotidi, in confronto ai 3200 milioni di un essere umano. Questo genoma codifica circa 15 000 proteine, e oggi si possono ottenere mutanti praticamente per qualunque gene. Ma c’è anche un’altra ragione
più profonda del perché meccanismi genetici che sono difficili da scoprire in
un vertebrato sono spesso facilmente rivelati nella mosca. Ciò è correlato, come spiegheremo adesso, alla frequenza di duplicazione genica, che è notevolmente maggiore nei genomi dei vertebrati rispetto al genoma della mosca, e
20 µm
Figura 1.41 Cromosomi giganti
delle ghiandole salivari di
Drosophila. Poiché sono avvenuti
molti cicli di replicazione del DNA
senza che siano intervenute divisioni
cellulari, ciascun cromosoma in queste
cellule insolite contiene più di 1000
molecole identiche di DNA, tutte
allineate a registro. Ciò rende facile
la loro visualizzazione al microscopio
ottico, dove mostrano uno schema
di bandeggio caratteristico e
riproducibile. Bande specifiche
possono essere identificate così
come la posizione di geni specifici:
una mosca mutante con una regione
dello schema di bandeggio assente
mostra un fenotipo che riflette la
perdita dei geni in quella regione.
I geni che sono trascritti ad alta
frequenza corrispondono a bande
con un’apparenza “rigonfia”. Le
bande colorate in nero sono siti in cui
una particolare proteina regolatrice
è attaccata al DNA. (Per gentile
concessione di B. Zink e R. Paro, da R.
Paro, Trends Genet. 6:416-421, 1990.
Con il permesso di Elsevier.)
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che è stata probabilmente cruciale nel rendere i vertebrati creature complesse e ingegnose quali sono.
■ Il genoma dei vertebrati è un prodotto di duplicazioni
ripetute
Figura 1.42 Due specie della rana
genere Xenopus. X. tropicalis, in
alto, ha un genoma ordinario diploide;
X. laevis, in basso, ha il doppio del
DNA per cellula. Dallo schema di
bandeggio dei loro cromosomi e dalla
disposizione dei geni lungo di essi,
oltre che da confronti di sequenze
geniche, è chiaro che la specie col
genoma più grande si è evoluta per
duplicazioni dell’intero genoma.
Si pensa che queste duplicazioni
siano avvenute come conseguenza
di accoppiamenti fra rane di specie
leggermente divergenti di Xenopus.
(Per gentile concessione di E. Amaya,
M. Offield e R. Grainger, Trends Gen.
14:253-255, 1998. Con il permesso di
Elsevier.)
Quasi ogni gene nel genoma dei vertebrati ha dei paraloghi (altri geni nello
stesso genoma che sono senza dubbio correlati e devono essersi originati per
duplicazione genica). In molti casi un intero gruppo di geni è strettamente
correlato con gruppi simili presenti altrove nel genoma, suggerendo che i geni si siano duplicati in gruppi collegati invece che come individui isolati. Secondo un’ipotesi, in uno stadio precoce dell’evoluzione dei vertebrati, l’intero genoma subì una duplicazione due volte di seguito, dando origine a quattro copie di ogni gene.
Il corso preciso dell’evoluzione del genoma dei vertebrati resta incerto,
perché molti altri cambiamenti evolutivi si sono verificati dopo questi antichi eventi. Geni che una volta erano identici si sono diversificati; molte copie
di un gene sono andate perdute in seguito a mutazioni; alcuni hanno subito ulteriori cicli di duplicazione locale; e il genoma, in ciascun ramo dell’albero genealogico dei vertebrati, ha subito ripetuti riarrangiamenti, alterando la maggior parte dell’ordine originale dei geni. Il confronto dell’ordine
dei geni in due organismi correlati, come l’uomo e il topo, rivela che – nella scala temporale dell’evoluzione dei vertebrati – i cromosomi si fondono e
si frammentano per spostare grandi blocchi di sequenza di DNA. In effetti è
possibile, come vedremo nel Capitolo 4, che lo stato presente sia il risultato
di molte duplicazioni separate di frammenti del genoma, anziché di duplicazioni dell’intero genoma.
Tuttavia non c’è dubbio che queste duplicazioni dell’intero genoma avvengano veramente di tanto in tanto nel corso dell’evoluzione, perché possiamo vedere esempi recenti in cui serie di cromosomi duplicati possono ancora essere identificate come tali. Il genere delle rane Xenopus, per esempio,
comprende una serie di specie molto simili correlate fra loro da ripetute duplicazioni o triplicazioni dell’intero genoma. Fra queste rane si trova X. tropicalis, con un normale genoma diploide; la specie comune di laboratorio X.
laevis, con un genoma duplicato e il doppio di DNA per cellula; e X. ruwenzoriensis, con un genoma duplicato sei volte e sei volte la quantità di DNA
per cellula (108 cromosomi, rispetto ai 36 di X. laevis, per esempio). Si calcola che queste specie si siano separate l’una dall’altra negli ultimi 120 milioni di anni (Figura 1.42).
■ La rana e il pesce zebra forniscono modelli per lo sviluppo
dei vertebrati
Le rane sono usate da molto tempo per studiare le prime fasi dello sviluppo
embrionale dei vertebrati perché le loro uova sono grandi, facili da manipolare, e fecondate al di fuori dell’animale, cosicché è facile seguire il successivo
sviluppo dell’embrione (Figura 1.43). Xenopus laevis, in particolare, continua
a essere un importante organismo modello, anche se è poco adatto all’analisi
genetica (Filmato 1.6 e vedi anche Filmato 21.1).
Il pesce zebra Danio rerio ha vantaggi simili ma senza questa limitazione; il
suo genoma è compatto – grande solo la metà di quello di topo o dell’uomo –
e ha un tempo di generazione di circa tre mesi solamente. Sono noti molti
mutanti e la sua ingegnerizzazione genetica è relativamente semplice. Il pesce zebra ha un’ulteriore caratteristica favorevole: per le prime due settimane di vita è trasparente, in questo modo si può vedere il comportamento delle singole cellule all’interno dell’organismo vivente (vedi Filmato 21.2).Tutto
ciò lo ha reso un modello di vertebrato sempre più importante (Figura 1.44).
■ Il topo è il principale organismo modello per i mammiferi
I mammiferi hanno di norma due volte più geni della Drosophila, un genoma che è 16 volte più grande e milioni o miliardi di volte più cellule nel lo-
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
37
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ore
0
6
16
34
16 cellule
blastula
gastrula
67
96
284
1 mm
uovo fecondato
neurula
larva
Figura 1.43 Fasi del normale sviluppo di una rana. Questo disegno mostra lo
sviluppo di un girino di Rana pipiens a partire da un uovo fecondato. L’intero processo
avviene al di fuori della madre, rendendo il meccanismo coinvolto facilmente accessibile
per studi sperimentali. (Da W. Shumway, Anat. Rec. 78:139-147, 1940.)
ro corpo adulto. In termini di dimensioni e funzione del genoma, di biologia
cellulare e di meccanismi molecolari, i mammiferi sono tuttavia un gruppo
altamente uniforme di organismi. Anche anatomicamente le differenze fra i
mammiferi sono principalmente una questione di dimensioni e proporzioni;
è difficile pensare a una parte del corpo umano che non abbia un corrispettivo negli elefanti e nei topi e viceversa. L’evoluzione gioca liberamente con
caratteristiche quantitative, ma non cambia facilmente la logica della struttura.
Per ottenere una misura più esatta di quanto strettamente le specie dei mammiferi si assomiglino geneticamente possiamo confrontare le sequenze nucleotidiche di geni corrispondenti (ortologhi), o le sequenze degli amminoacidi delle
proteine che questi geni codificano. I risultati per singoli geni e proteine variano di molto. Ma di norma, se allineiamo la sequenza degli amminoacidi di una
proteina umana con quella della proteina ortologa, diciamo, di un elefante, circa l’85% degli amminoacidi è identico. Un simile confronto fra uomo e uccelli mostra un’identità di amminoacidi di circa il 70%: il doppio delle differenze,
perché gli uccelli e i mammiferi hanno avuto un tempo doppio per diversificarsi rispetto all’elefante e all’uomo (Figura 1.45).
Il topo, essendo piccolo, robusto e riproducendosi rapidamente, è diventato
l’organismo modello più importante per lo studio sperimentale della genetica
molecolare dei vertebrati. Sono note molte mutazioni che si verificano naturalmente e spesso queste sono simili agli effetti di mutazioni corrispondenti
nell’uomo (Figura 1.46). Inoltre sono stati sviluppati metodi per controllare la
funzione di qualunque gene di topo, o di qualunque porzione non codificante del genoma del topo, creando artificialmente mutazioni, come spiegheremo più avanti in questo testo.
(A)
(B)
1 cm
150 µm
girino
Figura 1.44 Il pesce zebra come
modello per lo studio dello
sviluppo dei vertebrati. Questi pesci
tropicali piccoli e robusti sono molto
utili per studi genetici. Inoltre, hanno
embrioni trasparenti che si sviluppano
al di fuori della madre, cosicché si
possono osservare chiaramente le
cellule che si muovono e cambiano
le loro caratteristiche nell’organismo
vivente nel corso del suo sviluppo.
(a) Pesce adulto. (B) Un embrione 24
ore dopo la fecondazione. (A, con
autorizzazione da Steve Baskauf; B,
da M. Rhinn et al., Neural Dev. 4:12,
2009.)
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
38
Figura 1.46 Uomo e topo: geni
simili e sviluppo simile. Il bambino
e il topo mostrati qui hanno chiazze
bianche simili sulla fronte perché
entrambi hanno mutazioni nello
stesso gene (chiamato Kit), necessario
per lo sviluppo e il mantenimento
di cellule pigmentate. (Per gentile
concessione di R.A. Fleischman.)
uomo/scimpanzé
100
Terziario
50
uomo /orangutan
topo/ratto
gatto/cane
98
84
86
Cretaceo
maiale/balena
maiale/pecora
uomo/coniglio
uomo/elefante
uomo/topo
uomo/bradipo
77
87
82
83
89
81
Giurassico
uomo/canguro
81
uccelli/coccodrillo
76
uomo/lucertola
57
uomo/pollo
70
uomo/rana
56
uomo/tonno
55
uomo/squalo
51
uomo/lampreda
35
150
200
Triassico
250
Permiano
300
Carbonifero
350
Devoniano
400
Siluriano
450
% di amminoacidi identici nella catena α dell’emoglobina
0
100
tempo in milioni di anni
Figura 1.45 Tempi di divergenza
di vari vertebrati. La scala sulla
sinistra mostra la data stimata e
l’era geologica dell’ultimo antenato
comune di ogni coppia specificata di
animali. Ciascuna stima temporale
si basa su confronti delle sequenze
di amminoacidi di proteine
ortologhe; più tempo ha avuto
una coppia di animali di evolvere
indipendentemente, più bassa è
la percentuale di amminoacidi che
rimangono identici. La scala temporale
è stata calibrata per corrispondere alla
prova fossile che l’ultimo antenato
comune di mammiferi e uccelli è
vissuto 310 milioni di anni fa.
I numeri sulla destra forniscono
dati sulla divergenza di sequenza
per una proteina particolare, la
catena a dell’emoglobina. Si noti
che sebbene per questa proteina vi
sia una chiara tendenza generale
all’aumento della divergenza con
l’aumentare del tempo, ci sono
anche alcune irregolarità. Queste
riflettono la casualità del processo
evolutivo e, probabilmente, l’azione
della selezione naturale che induce
cambiamenti particolarmente rapidi
della sequenza di emoglobina in alcuni
organismi che sono stati soggetti a
particolari richieste fisiologiche. In
media, all’interno di una determinata
linea evolutiva, le emoglobine
accumulano cambiamenti a un ritmo
di circa 6 amminoacidi alterati per 100
amminoacidi ogni 100 milioni di anni.
Alcune proteine, soggette a limitazioni
funzionali più rigide, evolvono molto
più lentamente di questa, altre fino a
5 volte più velocemente. Tutto ciò dà
origine a sostanziali incertezze nelle
stime dei tempi di divergenza e alcuni
esperti pensano che i gruppi principali
di mammiferi si siano separati l’uno
dall’altro fino a 60 milioni di anni
dopo rispetto a quanto mostrato qui.
(Adattata da S. Kumar e S.B. Hedges,
Nature 392:917-920, 1998. Con il
permesso di Macmillan Publishers Ltd.)
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Ordoviciano
500
Cambriano
550
Proterozoico
Un topo mutante prodotto ad hoc può fornire una messe di informazioni al
biologo cellulare: rivela gli effetti della mutazione scelta in una serie di diversi contesti, controllando simultaneamente l’azione del gene in tutti i differenti tipi di cellule del corpo che potrebbero in linea di principio essere colpiti.
■ Gli esseri umani manifestano le proprie peculiarità
Come esseri umani abbiamo un interesse speciale per il genoma umano.Vogliamo conoscere la serie completa delle parti di cui siamo composti e scoprire il modo in cui funzionano. Ma anche se fossimo topi, preoccupati della biologia molecolare dei topi, gli esseri umani sarebbero attraenti per noi
come organismo genetico modello per una proprietà speciale: tramite esami
medici e autodenuncia cataloghiamo i nostri disordini genetici (e non solo).
La popolazione umana è enorme, consistendo oggi di circa 7 miliardi di individui, e questa proprietà di autodocumentazione significa che è disponibile un enorme banca dati di informazioni. La sequenza completa del genoma umano di più di 3 miliardi di coppie di nucleotidi è stata determinata per
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
39
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migliaia di persone diverse, rendendo più facile che mai identificare a livello
molecolare lo specifico cambiamento genetico responsabile di ciascun fenotipo umano mutante.
Mettendo insieme le informazioni derivate da uomo, topo, mosca, verme, lievito, vegetali e batteri – usando le somiglianze di sequenze geniche per
mappare le corrispondenze fra un organismo modello e un altro – possiamo
arricchire la nostra conoscenza di tutti questi organismi.
■ Nei dettagli siamo tutti diversi
Che cosa intendiamo precisamente quando parliamo del genoma umano? Il
genoma di chi? In media, qualunque coppia di persone prese a caso differisce
in circa uno o due nucleotidi ogni 1000 nella sequenza del DNA. Il genoma
della specie umana è, parlando correttamente, qualcosa di molto complesso, e
contiene l’intera raccolta di varianti geniche che si trovano nella popolazione
umana. La conoscenza di questa variazione ci sta aiutando a capire, ad esempio, perché alcune persone sono inclini a una malattia, altre a un’altra; perché
alcune rispondono bene a un farmaco, altre invece male. Inoltre sta fornendo
nuovi indizi sulla nostra storia: i movimenti di popolazioni e i mescolamenti
dei nostri antenati, le infezioni di cui hanno sofferto, la dieta di cui si nutrivano.Tutto ciò ha lasciato tracce nelle forme varianti dei geni che sopravvivono
oggi nelle comunità umane che popolano il pianeta
■ Per capire le cellule e gli organismi abbiamo bisogno della
matematica, di computer e di informazioni quantitative
Sfruttando la conoscenza di sequenze genomiche complete, possiamo elencare i geni e le proteine di una cellula e iniziare a tracciare la rete di interazioni
che li collegano. Ma come possiamo trasformare tutte queste informazioni in
una comprensione del modo in cui funzionano le cellule? Anche per un singolo tipo cellulare che appartiene a una singola specie di organismo, l’attuale
diluvio di dati sembra impossibile da analizzare. Il tipo di ragionamento informale su cui si basano di solito i biologi appare completamente inadeguato
di fronte a tale complessità.
In realtà la difficoltà non è soltanto una questione di un semplice sovraccarico di informazioni. I sistemi biologici sono, per esempio, pieni di circuiti a feedback e il comportamento anche dei sistemi a feedback più semplici è
notevolmente difficile da prevedere soltanto intuitivamente (Figura 1.47); piccoli cambiamenti dei parametri possono causare cambiamenti radicali del risultato. Per passare dal diagramma di un circuito alla previsione del comportamento del sistema abbiamo bisogno di informazioni quantitative dettagliate e
per trarre deduzioni da quelle informazioni abbiamo bisogno della matematica e di computer.
Questi strumenti che permettono ragionamenti quantitativi sono essenziali, ma non hanno un potere infinito. Si potrebbe pensare che, conoscendo
come ciascuna proteina influenza ogni altra proteina e come l’espressione di
ciascun gene è regolata dai prodotti degli altri, dovremmo rapidamente essere
in grado di calcolare il modo in cui una cellula si comporterà nel suo insieme,
proprio come un astronomo può calcolare le orbite dei pianeti, o un ingegnere
chimico può calcolare i flussi attraverso un impianto chimico. Ma qualunque
tentativo di svolgere questa impresa per un’intera cellula vivente rivela rapidamente i limiti dello stato attuale delle conoscenze. Le informazioni che possediamo, per quanto abbondanti, sono piene di lacune e di incertezze. Inoltre
sono in gran parte qualitative e non quantitative. Nella maggior parte dei casi
i biologi cellulari che studiano i sistemi di controllo della cellula riassumono
le loro conoscenze attraverso semplici diagrammi schematici – questo libro
ne è pieno – invece che mediante numeri, grafici ed equazioni differenziali.
Progredire dalle descrizioni qualitative e dal ragionamento intuitivo alle descrizioni quantitative e alle deduzioni matematiche è una delle sfide più
grandi della biologia cellulare contemporanea. Finora la sfida è stata vinta soltanto per pochi frammenti molto semplici del macchinario delle cellule viventi, sottosistemi che coinvolgono una manciata di proteine diverse, o due o tre
DNA
regolatore
regione
codificante
del gene
mRNA
proteina
di regolazione
della
trascrizione
Figura 1.47 Un circuito molto
semplice di regolazione dei geni:
un singolo gene che regola la
propria espressione mediante il
legame del suo prodotto proteico
al proprio DNA regolatore.
Semplici disegni schematici come
questo sono spesso usati in tutto
il libro per riassumere ciò che
sappiamo anche se lasciano molte
domande senza risposta. Quando la
proteina si lega, inibisce o stimola la
trascrizione? La velocità di trascrizione
quanto strettamente dipende dalla
concentrazione della proteina?
Quanto a lungo, in media, una
molecola proteica resta legata al DNA?
Quanto ci vuole per produrre ciascuna
molecola di mRNA o di proteina e
quanto rapidamente viene degradato
ciascun tipo di molecola? Come
spiegato nel Capitolo 8, i modelli
matematici mostrano che abbiamo
bisogno di risposte quantitative a tutte
queste e ad altre domande prima di
poter prevedere il comportamento
persino di questo sistema a gene
singolo. Per valori diversi dei
parametri, il sistema si può stabilizzare
in uno stato all’equilibrio unico o può
comportarsi da interruttore, capace
di trovarsi in uno di una serie di stati
alternativi; o può oscillare; o può
mostrare grandi fluttuazioni casuali.
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
40
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QUELLO CHE
NON SAPPIAMO
• Quali nuovi approcci potrebbero
fornire una visione più chiara
dell’archeo anaerobico che si pensa
abbia formato il nucleo della prima
cellula eucariotica? In che modo la
simbiosi di questa cellula con un
batterio anaerobico ha portato al
mitocondrio? Ci sono da qualche
parte sulla Terra cellule non ancora
identificate che possano colmare
le lacune sull’origine delle cellule
eucariotiche?
• Il sequenziamento del DNA ha
rivelato un mondo di cellule microbiche
ricco e precedentemente ignoto, la
maggioranza del quale non è coltivabile
in laboratorio. Come si potrebbero
rendere queste cellule più accessibili per
studi dettagliati?
• Quali nuovi organismi o cellule
modello dovrebbero essere sviluppati
per essere studiati dagli scienziati?
Perché concentrarsi in maniera
concertata su questi modelli potrebbe
accelerare il progresso verso la
comprensione di aspetti cruciali della
funzione cellulare che sono ancora poco
noti?
• Come sono sorte le prime membrane
cellulari?
geni cross-regolatori, in cui la teoria e gli esperimenti si adattano facilmente
l’una agli altri. Ci occuperemo di alcuni di questi esempi più avanti nel testo
e dedicheremo l’intera sezione finale del Capitolo 8 al ruolo della quantificazione in biologia cellulare.
La conoscenza e la comprensione forniscono il potere di intervenire: per
gli esseri umani, per evitare o prevenire malattie; per i vegetali, per ottenere raccolti migliori; per i batteri, affinché possano essere utilizzati per i nostri
scopi. Tutte queste imprese biologiche sono collegate perché l’informazione
genetica di tutti gli organismi viventi è scritta nello stesso linguaggio. La nuova capacità dei biologi molecolari di leggere e decifrare questo linguaggio ha
già iniziato a trasformare le nostre relazioni con il mondo vivente. La biologia cellulare che verrà presentata nei capitoli successivi vi preparerà, noi speriamo, a comprendere la grande avventura scientifica del XXI secolo e forse a contribuirvi.
SOMMARIO Nelle cellule eucariotiche, per definizione, il DNA si trova in un
compartimento separato circondato da membrana, il nucleo. Esse hanno inoltre un
citoscheletro che conferisce robustezza e permette loro di muoversi, compartimenti
intracellulari elaborati per digestione e secrezione, la capacità (in molte specie) di
inglobare altre cellule e un metabolismo che dipende dall’ossidazione di molecole
organiche da parte dei mitocondri. Queste proprietà inducono a pensare che gli
eucarioti si siano originati come predatori di altre cellule. I mitocondri – e, nei vegetali,
i cloroplasti – contengono materiale genetico proprio ed evidentemente si sono evoluti
da batteri assunti nel citoplasma della cellula eucariotica e sono sopravvissuti come
simbionti. Le cellule eucariotiche hanno di norma da 3 a 30 volte più geni dei procarioti
e spesso migliaia di volte più DNA non codificante. Il DNA non codificante permette una
regolazione complessa dell’espressione dei geni, il che è necessario per la costruzione
di complessi organismi pluricellulari. Molti eucarioti sono tuttavia unicellulari, fra di essi
il lievito Saccharomyces cerevisiae, che serve da organismo modello semplice per la
biologia cellulare eucariotica, rivelando le basi molecolari di molti processi fondamentali
che si sono incredibilmente conservati durante un miliardo di anni di evoluzione. Un
piccolo numero di altri organismi è stato scelto per lo studio intensivo: un verme, una
mosca, un pesce e il topo servono da “organismi modello” per gli animali pluricellulari
e una piccola pianta della famiglia delle euforbie serve da modello per le piante.
Tecnologie nuove e potenti come il sequenziamento del genoma stanno permettendo
notevoli avanzamenti nella nostra conoscenza degli esseri umani e stanno aiutando ad
aumentare la nostra comprensione della salute e delle malattie umane. Gli organismi
viventi sono però estremamente complessi e i genomi dei mammiferi contengono
omologhi multipli, strettamente correlati, della maggior parte dei geni. Questa
ridondanza genetica ha permesso la diversificazione e la specializzazione dei geni per
nuovi scopi, ma ha reso anche più difficile decifrare la funzione dei geni. Per questa
ragione, organismi modello più semplici hanno svolto un ruolo chiave nella analisi dei
meccanismi genetici universali dello sviluppo animale, e la ricerca che usa questi sistemi
rimane di importanza vitale per avanzare nella scienza e nella medicina. ●
PROBLEMI
Quali affermazioni sono vere? Spiegate perché sì
o perché no.
1.1 Ogni membro della famiglia genica dell’emoglo-
bina umana, che consiste di sette geni disposti in due
gruppi su due cromosomi, è un ortologo di tutti gli altri membri.
1.2 Il trasferimento orizzontale dei geni è più diffuso
negli organismi unicellulari che in quelli pluricellulari.
1.3 La maggior parte delle sequenze di DNA di un ge-
noma batterico codifica proteine, mentre la maggior
parte delle sequenze del genoma umano non lo fa.
Discutete i seguenti problemi.
1.4 Da quando è stato decifrato quarant’anni fa, alcu-
ni hanno sostenuto che il codice genetico deve essere un incidente congelato, mentre altri hanno ritenuto
che si sia formato per selezione naturale. Una caratteristica sorprendente del codice genetico è la sua intrinseca resistenza agli effetti delle mutazioni. Per esempio, un
cambiamento nella terza posizione di un codone spesso specifica lo stesso amminoacido o uno con proprietà
chimiche simili. Il codice naturale resiste alle mutazioni più efficacemente (ed è meno suscettibile di errori)
della maggior parte delle altre versioni possibili, come
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
41
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illustrato nella Figura P1.1. Soltanto uno del milione di
codici “casuali” generati dal computer è più resistente
agli errori del codice genetico naturale. Questa straordinaria resistenza alle mutazioni del codice genetico depone a favore della sua origine come incidente congelato o come risultato della selezione naturale? Spiegate
il vostro ragionamento.
1.10 Le cellule animali non hanno pareti cellulari né
20
nnumero di codici (migliaia)
tendono a coinvolgere grandi aggregati di prodotti genici diversi, mentre le reazioni metaboliche sono di solito catalizzate da enzimi composti da una singola proteina. Perché la complessità del processo sottostante –
informazionale o metabolico – dovrebbe avere un effetto sulla velocità del trasferimento genico orizzontale?
15
10
codici
naturali
5
0
0
5
10
15
suscettibilità alle mutazioni
20
Figura P1.1 Suscettibilità del codice naturale in confronto
ai milioni di codici generati da computer (Problema 1.4). La
suscettibilità misura il cambiamento medio delle proprietà degli
amminoacidi causato da mutazioni casuali. Un valore basso
indica che le mutazioni tendono a causare piccoli cambiamenti.
(Dati gentilmente forniti da Steve Freeland.)
1.5 Avete iniziato a caratterizzare un campione ottenu-
to dalle profondità oceaniche di Europa, una delle lune
di Giove. Sorprendentemente, il campione contiene una
forma di vita che cresce in un brodo ricco. L’analisi preliminare mostra che è cellulare e contiene DNA, RNA
e proteine. Quando mostrate i vostri risultati a una collega, lei suggerisce che il vostro campione sia stato contaminato da un organismo terrestre. Quali approcci usereste per distinguere fra contaminazione e una nuova
forma di vita cellulare basata su DNA, RNA e proteine?
cloroplasti, mentre le cellule vegetali li hanno entrambi. Le cellule dei funghi si trovano più o meno nel mezzo; hanno pareti cellulari ma non hanno cloroplasti. È
più probabile che le cellule dei funghi siano cellule animali che hanno acquisito la capacità di formare una parete cellulare oppure cellule vegetali che hanno perso i
loro cloroplasti? Questa domanda ha rappresentato un
argomento di difficile soluzione per i primi ricercatori
che hanno provato ad assegnare relazioni evolutive basandosi solamente sulle caratteristiche e sulla morfologia delle cellule. Come pensate sia stato risolto alla fine
questo quesito?
1.11 Quando sono stati scoperti per la prima volta i
geni vegetali dell’emoglobina nei legumi, fu così sorprendente trovare un gene tipico del sangue degli animali che si ipotizzò che il gene vegetale si fosse originato per trasferimento orizzontale da un animale. Oggi
sono stati sequenziati molti più geni dell’emoglobina e
un albero filogenetico basato su queste sequenze è mostrato nella Figura P1.2.
A. Questo albero supporta o confuta l’ipotesi che le
emoglobine delle piante si siano originate per trasferimento genico orizzontale?
B. Supponendo che i geni vegetali dell’emoglobina siano derivati in origine da un nematode parassita, per
1.6 Non è così difficile immaginare cosa significhi nu-
trirsi delle molecole organiche prodotte dagli esseri viventi. Dopo tutto, si tratta di quello che tutti noi facciamo. Ma che cosa significa “nutrirsi” di luce, come fanno
i fototrofi? O, cosa ancora più strana, “nutrirsi” di rocce, come fanno i litotrofi? Dove si trova il “cibo”, per
esempio, in una miscela di composti chimici (H2S, H2,
CO, Mn+, Fe2+, Ni2+, CH4 e NH4+) emessi da un camino idrotermale?
VERTEBRATI
Salamandra
Coniglio
Cobra Pollo
Balena
Gatto
Uomo
Mucca
Rana
Pesce
rosso
VEGETALI Orzo
1.7 Quanti alberi (schemi ramificati) possibili diversi
si possono disegnare per eubatteri, archei ed eucarioti,
presumendo che derivino tutti da un antenato comune?
1.8 I geni dell’RNA ribosomiale sono altamente con-
servati (sono relativamente pochi i cambiamenti di sequenza) in tutti gli organismi terrestri; quindi si sono
evoluti molto lentamente. Forse i geni dell’RNA ribosomiale sono “nati” perfetti?
1.9 I geni che partecipano ai processi informazionali
come replicazione, trascrizione e traduzione sono trasferiti fra le specie molto meno spesso dei geni coinvolti nel metabolismo. Le basi di questa diversità non sono
chiare al momento, ma un’ipotesi è che siano correlate alla sottostante complessità. I processi informazionali
Loto
Lombrico
Alfalfa
Insetti
Fagiolo
Molluschi bivalve
INVERTEBRATI
Nematode
Chlamydomonas
PROTOZOI
Paramecio
Figura P1.2 Albero filogenetico dei geni dell’emoglobina di
varie specie (Problema 1.11). I legumi sono evidenziati in verde.
Le lunghezze delle linee che connettono le specie presenti al
giorno d’oggi rappresentano la distanza evolutiva che le separa.
CAPITOLO 1 Cellule e genomi
42
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esempio, quale aspetto prenderebbe l’albero filogenetico?
1.12 La velocità dell’evoluzione sembra variare in li-
nee diverse. Per esempio, la velocità di evoluzione della
linea del ratto è significativamente maggiore di quella
della linea umana. Queste differenze di velocità diven-
tano evidenti quando si osservano i cambiamenti nelle
sequenze proteiche che sono soggette a pressione selettiva o ai cambiamenti nelle sequenze nucleotidiche non
codificanti, che non sono soggette a un’evidente pressione selettiva. Potete offrire una o più spiegazioni possibili della minore frequenza di cambiamenti evolutivi
nella linea umana rispetto a quella del ratto?
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CAPITOLO
2
• I componenti chimici di una
cellula
• La catalisi e l’uso di energia
da parte delle cellule
• Il modo in cui le cellule
ottengono energia dal cibo
Figura 2.1 Gli elementi principali
nelle cellule, evidenziati nella
tavola periodica. Quando sono
ordinati in base al loro numero
atomico e disposti in questa maniera,
gli elementi sono disposti in colonne
verticali che mostrano caratteristiche
simili. Gli atomi nella stessa colonna,
per poter riempire il guscio più esterno
devono guadagnare (o perdere) lo
stesso numero di elettroni e quindi si
comportano allo stesso modo nella
formazione di legami covalenti o
ionici. Perciò, per esempio, Mg e Ca
tendono a cedere i due elettroni del
guscio più esterno. C, N, O
completano il loro secondo guscio
condividendo elettroni. I quattro
elementi evidenziati in rosso
costituiscono il 99% del numero totale
di atomi presenti nel corpo umano.
Altri sette elementi, evidenziati in
azzurro, rappresentano insieme
circa lo 0,9% del totale. Gli elementi
mostrati in verde sono necessari in
tracce per gli esseri umani. Resta da
chiarire se gli elementi mostrati in
giallo siano essenziali per gli esseri
umani. Sembra perciò che la chimica
della vita sia in modo predominante
la chimica degli elementi più leggeri.
I pesi atomici mostrati qui sono quelli
dell’isotopo più comune di ciascun
elemento.
Chimica
e bioenergetica
della cellula
A
prima vista è difficile accettare l’idea che ciascuna creatura vivente sia
semplicemente un sistema chimico. L’incredibile diversità delle forme
viventi, il loro comportamento apparentemente determinato e la loro capacità di crescere e di riprodursi sembrano separarle dal mondo dei solidi, dei liquidi e dei gas che la chimica descrive normalmente. In effetti fino al
XIX secolo si pensava che gli animali contenessero una Forza vitale – un’“anima” – che era responsabile delle loro proprietà distintive.
Oggi sappiamo che non c’è niente negli organismi viventi che disobbedisce
alle leggi chimiche e fisiche.Tuttavia la chimica della vita è di un tipo speciale.
Per prima cosa, si basa in modo preponderante sui composti del carbonio, il
cui studio è noto come chimica organica. In secondo luogo, le cellule sono per
il 70% acqua e la vita dipende quasi esclusivamente da reazioni chimiche che
avvengono in soluzione acquosa.Terzo, e più importante, la chimica cellulare
è enormemente complessa: anche la chimica della cellula semplice è di gran
lunga più complicata di qualunque altro sistema chimico conosciuto. Sebbene le cellule abbiano al loro interno varie piccole molecole che contengono
carbonio, la maggior parte degli atomi di carbonio nelle cellule è incorporata in enormi molecole polimeriche, catene di subunità chimiche legate l’una
all’altra. Sono le proprietà uniche di queste macromolecole che permettono alle
cellule e agli organismi di crescere e di riprodursi, oltre a svolgere tutti gli altri compiti che sono caratteristici della vita.
I componenti chimici di una cellula
Gli organismi viventi sono costituiti solamente da una piccola frazione dei 92
elementi presenti in natura, quattro dei quali – carbonio (C), idrogeno (H),
azoto (N) e ossigeno (O) – rappresentano fino al 96,5% del peso di un organismo (Figura 2.1). Gli atomi di questi elementi sono legati fra loro mediante legami covalenti per formare molecole (vedi Quadro 2.1 pp. 94-95). Poiché i legami covalenti sono di norma 100 volte più forti dell’energia termica
presente all’interno della cellula non vengono spezzati dai movimenti causati
numero atomico
1
H
He
peso atomico
1
5
Li Be
11
12
Al
Na Mg
23
19
K
39
24
6
C
12
14
Si
28
20
Ca Sc
40
Rb Sr
B
11
Y
Ti
23
V
51
24
25
26
27
28
29
30
7
N
14
15
P
31
8
O
16
16
S
32
9
F
19
17
Cl
55
56
59
59
64
65
Cs Ba La
Hf Ta W Re Os
Fr Ra Ac
Rf Db
Ir
Pt Au Hg Tl Pb
Kr
79
Zr Nb Mo Tc Ru Rh Pd Ag Cd In Sn Sb Te
96
Ar
35
34
Cr Mn Fe Co Ni Cu Zn Ga Ge As Se Br
52
42
Ne
53
I
127
Xe
Bi Po At Rn
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
45
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idrolisi
di ATP
nella cellula
movimenti
termici medi
CONTENUTO
DI ENERGIA
(kJcal/mole)
1
10
legame non
covalente nell’acqua
Figura 2.2 Alcune forme di
rottura del
legame C–C
100
1000
luce
verde
10 000 kJ
ossidazione completa
del glucosio
dall’energia termica stessa e normalmente vengono spezzati soltanto durante
reazioni chimiche specifiche con altri atomi e molecole. Due molecole diverse
possono essere tenute insieme da legami non covalenti, che sono molto più deboli (Figura 2.2).Vedremo più avanti che i legami non covalenti sono importanti nelle numerose situazioni in cui molecole devono associarsi e dissociarsi
rapidamente per svolgere le loro funzioni biologiche.
■ L’acqua è tenuta insieme da legami idrogeno
Le reazioni intracellulari avvengono in un ambiente acquoso. La vita sulla Terra
è incominciata nell’oceano e le condizioni dell’ambiente primordiale hanno
lasciato un segno permanente sulla chimica degli esseri viventi. La vita perciò
dipende dalle proprietà dell’acqua, che sono riassunte nel Quadro 2.2, pp. 96-97.
In ciascuna molecola d’acqua (H2O) i due atomi di H sono uniti all’atomo
di O da legami covalenti. I due legami sono altamente polari poiché l’O ha una
forte attrazione per gli elettroni, mentre l’H ha solo una debole attrazione. Di
conseguenza c’è una distribuzione ineguale di elettroni in una molecola d’acqua, con una preponderanza di carica positiva sui due atomi di H e di carica
negativa sull’atomo di O. Quando una regione carica positivamente di una
molecola d’acqua (cioè uno dei suoi atomi di H) si trova vicina a una regione
carica negativamente (cioè l’atomo di O) di una seconda molecola d’acqua,
l’attrazione elettrica fra di esse può portare a un legame idrogeno. Questi legami sono molto più deboli dei legami covalenti e vengono facilmente spezzati
dai movimenti termici casuali dovuti all’energia di calore delle molecole, così
che ogni legame ha una durata breve. Ma l’effetto combinato di molti legami
deboli può essere profondo. Ciascuna molecola d’acqua può formare legami
idrogeno tramite i suoi due atomi di H con altre due molecole d’acqua, producendo una rete in cui i legami idrogeno si formano e si spezzano in continuazione. È soltanto per i legami idrogeno che uniscono le sue molecole che
l’acqua è un liquido a temperatura ambiente, con un punto di ebollizione alto e un’alta tensione superficiale, invece di essere un gas.
Le molecole, come gli alcol, che contengono legami polari e che possono
formare legami idrogeno con l’acqua si sciolgono facilmente in acqua. Le molecole che trasportano cariche positive o negative (ioni) interagiscono anch’esse
in modo favorevole con l’acqua. Queste molecole sono dette idrofiliche, che
significa che amano l’acqua. Una grossa proporzione delle molecole nell’ambiente acquoso di una cellula fa necessariamente parte di questa categoria,
compresi zuccheri, DNA, RNA e la maggioranza delle proteine. Le molecole
idrofobiche (che odiano l’acqua), invece, non sono cariche e formano pochi,
o nessuno, legami idrogeno e quindi non si sciolgono in acqua. Gli idrocarburi
ne sono un esempio importante. In queste molecole gli atomi di H sono legati
covalentemente ad atomi di C da un legame in larga misura non polare perciò
non possono formare legami idrogeno efficaci con altre molecole (vedi Quadro
2.2 pp. 96-97). Ciò rende gli idrocarburi idrofobici nel loro insieme, una proprietà che viene sfruttata nelle cellule, le cui membrane sono costituite da molecole che hanno lunghe code idrocarburiche, come vedremo nel Capitolo 10.
■ Quattro tipi di interazioni non covalenti aiutano a unire
tra loro le molecole nelle cellule
In biologia molto dipende dal legame specifico di molecole diverse fra loro, legame causato da tre tipi di legami non covalenti: attrazioni elettro-
energia importanti per le cellule.
Una proprietà cruciale di ogni legame
– covalente o non covalente – è la sua
forza. La forza di legame è misurata
dalla quantità di energia che deve
essere fornita per romperlo, espressa
sia in kilojoules per mole (kJ/mole) che
in chilocalorie per mole (kcal/mole).
Perciò se è necessaria un’energia di
100 kJ per rompere 6 3 1023 legami
di un tipo specifico (cioè, una mole
di questi legami), allora la forza del
legame è di 100 kJ/mole. Si noti che
queste energie sono confrontate su
scala logaritmica. Forze e lunghezze
tipiche delle principali classi di legami
chimici sono riportate nella Tabella 2.1.
Un joule (J) è la quantità di energia
necessaria per muovere un oggetto
per una distanza di un metro contro
la forza di un Newton. Questa misura
dell’energia deriva dalle unità SI
(Système Internationale d’Unitès)
usato universalmente dagli scienziati.
Una seconda unità di misura per
l’energia, spesso usata dai biologi
cellulari, è la chilocaloria (kcal); una
caloria è la quantità necessaria di
energia per alzare la temperatura di
un grammo di acqua di 1 °C. Un kJ
è equivalente a 0,239 kcal (1 kcal =
4,18 kJ).
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
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Figura 2.3 Rappresentazione schematica del modo in cui due macromolecole
con superfici complementari possono legarsi strettamente l’una all’altra tramite
interazioni non covalenti. I legami chimici non covalenti hanno una forza di legame
che è meno di 1/20 di quella di un legame covalente. Essi sono in grado di dare origine
a un legame solido solo quando si formano in gran numero simultaneamente. Sebbene
qui siano illustrate solamente interazioni elettrostatiche, in realtà, tutte e quattro le forze
covalenti spesso contribuiscono a tenere insieme due macromolecole (Filmato 2.1 ).
(A)
legame idrogeno lungo circa 0,3 nm
atomo
donatore
N
atomo
accettore
H
O
■ Alcune molecole polari in acqua formano acidi e basi
legame covalente
lungo circa 0,1 nm
(B)
O
O
O
N
+
N
N
atomo
donatore
H
H
H
H
H
H
statiche (legami ionici), legami idrogeno e attrazioni di van der Waals e da un quarto fattore che può spingere insieme le molecole: la forza
idrofobica. Le proprietà dei quattro tipi di legami non covalenti sono presentate nel Quadro 2.3 (pp. 98-99). Sebbene ciascuna singola attrazione non
covalente sia decisamente troppo debole per essere efficace in confronto ai
movimenti termici, la loro energia si può sommare per creare una notevole
forza tra due molecole separate. Quindi insiemi di attrazioni non covalenti spesso permettono alle superfici complemetari di due macromolecole di
restare unite (Figura 2.3).
La Tabella 2.1 mette a confronto la forza di un legame non covalente con
quella di un tipico legame covalente, sia in presenza che in assenza di acqua.
Si noti che, formando interazioni che competono con quelle delle molecole
coinvolte, l’acqua riduce grandemente la forza sia delle attrazioni elettrostatiche che dei legami idrogeno.
La struttura di un tipico legame idrogeno è illustrata nella Figura 2.4. Questo legame rappresenta una forma speciale di interazione polare in cui un atomo di idrogeno elettropositivo è parzialmente condiviso da due atomi elettronegativi. Questo idrogeno può essere visto come un protone che si è dissociato parzialmente da un atomo donatore, permettendone così la condivisione
da parte di un secondo atomo accettore. A differenza di una tipica interazione elettrostatica, questo legame è altamente direzionale, ed è più forte quando tutti e tre gli atomi coinvolti si trovano sulla stessa retta.
Il quarto effetto che ha spesso un ruolo importante nell’unire fra loro molecole nell’acqua non è, in senso stretto, un legame. Tuttavia una forza idrofobica molto importante è causata dal fatto che le superfici non polari sono
spinte fuori dalla rete di acqua legata da legami idrogeno, nella quale interferirebbero fisicamente con le interazioni altamente favorevoli fra le molecole
d’acqua. Poiché unire due superfici qualunque non polari riduce il loro contatto con l’acqua, la forza è in questo senso non specifica. Nonostante ciò, vedremo nel Capitolo 3 che le forze idrofobiche hanno un ruolo centrale nel
ripiegamento appropriato delle molecole proteiche.
O
O
N
O
O
N
atomo
accettore
Una delle specie più semplici di reazioni chimiche, e che ha un significato
profondo nelle cellule, avviene quando una molecola che possiede un legame covalente altamente polare fra un atomo di idrogeno e un secondo atomo si scioglie in acqua. L’atomo di idrogeno in una molecola di questo tipo
ha in gran parte ceduto il suo elettrone all’atomo compagno e quindi assomiglia a un nucleo di idrogeno carico positivamente quasi nudo: in altre parole,
TABELLA 2.1 Legami chimici covalenti e non covalenti
Forza (kJ/mole)**
Tipo di legame
Lunghezza (nm)
Covalente
Figura 2.4 Legami idrogeno.
(A) Modello a palle e bastoncini di un
tipico legame idrogeno. La distanza
fra l’atomo di idrogeno e quello di
ossigeno qui è minore della somma
dei loro raggi di van der Waals, il che
indica una parziale condivisione di
elettroni. (B) I legami idrogeno più
comuni nelle cellule.
Non covalente
nel vuoto
in acqua
0,15
377 (90)
377 (90)
ionico*
0,25
335 (80)
12,6 (3)
idrogeno
0,30
16,7 (4)
4,2 (1)
attrazione
di van der Waals
(per atomo)
0,35
0,4 (0,1)
0,4 (0,1)
*Un legame ionico è un’attrazione elettrostatica fra due atomi completamente carichi. **I valori in
parentesi sono in kcal/mole. 1 kJ = 0,239 kcal e 1kcal = 4,18 kJ.
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
47
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O
CH3
+
O
δ–
O
H
C
H
δ+
acido acetico
CH3
O
H
O
H
acqua
ione
acetato
H
H2O
(B)
O H
H O
H
H2O
il protone
si muove
da una
molecola
all’altra
+
O
(A)
H
H
C
H
+
+
+
H
O
+
H
ione
idronio
O
H
–
H3O
OH
ione
idronio
ione
ossidrilico
Figura 2.5 I protoni si muovono velocemente in soluzioni acquose. (A) La reazione
che avviene quando una molecola di acido acetico si scioglie in acqua. A pH 7, quasi
tutto l’acido acetico è presente come ione acetato. (B) Le molecole d’acqua scambiano
continuamente protoni fra di loro per formare ioni idronio e ossidrilici. Questi ioni a loro
volta si ricombinano rapidamente per formare molecole d’acqua.
un protone (H+). Quando la molecola polare viene circondata da molecole
d’acqua, il protone viene attratto dalla carica negativa parziale dell’atomo di
ossigeno di una molecola d’acqua adiacente e si può dissociare dal partner originale per associarsi invece all’atomo di ossigeno della molecola d’acqua per
generare uno ione idronio (H3O1) (Figura 2.5A). Anche la reazione inversa
avviene molto prontamente, così che si deve immaginare uno stato di equilibrio in cui miliardi di protoni costantemente passano in modo rapido da una
molecola in soluzione a un’altra.
Le sostanze che rilasciano protoni per formare H3O+ quando si sciolgono in acqua sono dette acidi. Più alta è la concentrazione di H3O+, più acida
è la soluzione. H3O+ è presente anche nell’acqua pura a una concentrazione
di 10–7 M, come risultato del movimento di protoni da una molecola d’acqua
all’altra (Figura 2.5B). Per convenzione, la concentrazione di H3O+ viene in
genere riferita come concentrazione di H+, anche se quasi tutto l’H+ in una
soluzione acquosa è presente come H3O+. Per evitare l’uso di numeri poco
maneggevoli, la concentrazione di H+ è espressa utilizzando una scala logaritmica chiamata scala di pH. L’acqua pura ha un pH di 7,0 ed è neutra, cioè
non è né acida (pH < 7,0) né basica (pH > 7,0).
Gli acidi sono caratterizzati dall’essere forti o deboli e ciò dipende da quanto facilmente essi cedono i loro protoni all’acqua. Gli acidi forti, come l’acido
cloridrico (HCl), perdono velocemente i loro protoni. L’acido acetico invece
è un acido debole perché quando viene sciolto in acqua trattiene i suoi protoni più saldamente. Molti degli acidi importanti nella cellula – come le molecole che contengono un gruppo carbossilico (COOH) – sono acidi deboli
(Si veda il Quadro 2.2, pp. 96-97).
Poiché il protone di uno ione idronio può essere passato facilmente a molti tipi di molecole nelle cellule, alterandone le caratteristiche, la concentrazione di H3O+ all’interno di una cellula (acidità) deve essere rigidamente regolata. Gli acidi – specialmente gli acidi deboli - perderanno i loro protoni più
facilmente se la concentrazione di H3O+ in soluzione è bassa e tenderanno a
riacquistarli se la concentrazione in soluzione è alta.
L’opposto di un acido è una base. Qualunque molecola capace di accettare un protone da una molecola d’acqua viene chiamata base. L’idrossido di
sodio (NaOH) è basico (o alcalino) perché in soluzione acquosa si dissocia velocemente per formare ioni Na+ e OH–. A causa di questa proprietà l’idrossido di sodio è definito una base forte. Tuttavia, nelle cellule viventi sono più
importanti le basi deboli, quelle che hanno una tendenza debole ad accettare protoni dall’acqua in maniera reversibile. Molte molecole biologicamente importanti contengono un gruppo amminico (NH2). Questo gruppo è
una base debole che può generare OH– prendendo un protone dall’acqua:
–NH2 + H2O n –NH3+ + OH– (vedi Quadro 2.2, pp. 96-97).
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
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Poiché uno ione OH– si combina con uno ione H3O+ per formare due
molecole di acqua, un aumento nella concentrazione di OH– forza una diminuzione nella concentrazione di H3O+, e viceversa. Una soluzione pura di acqua contiene una uguale concentrazione (10–7 M) di entrambi gli ioni, rendendola neutra. Anche l’interno di una cellula è mantenuto vicino alla neutralità grazie alla presenza di tamponi: acidi e basi deboli che possono rilasciare o acquisire protoni vicino a pH 7 mantenendo l’ambiente della cellula
relativamente costante in varie condizioni.
■ Una cellula è formata da composti del carbonio
Dopo aver osservato i modi in cui gli atomi si combinano in piccole molecole
e il modo in cui queste molecole si comportano in un ambiente acquoso, esaminiamo ora le classi principali di piccole molecole che si trovano nelle cellule. Vedremo che poche categorie base di molecole, formate da una manciata di elementi diversi, danno origine a tutta la straordinaria ricchezza di forme e di comportamenti mostrati dagli esseri viventi.
Ad eccezione dell’acqua e degli ioni inorganici come il potassio, quasi tutte
le molecole di una cellula si basano sul carbonio. Il carbonio spicca fra gli altri
elementi per la sua capacità di formare grosse molecole; il silicio è secondo a
distanza. Poiché è piccolo e ha quattro elettroni e quattro spazi vuoti nel suo
guscio più esterno, un atomo di carbonio può formare quattro legami covalenti con altri atomi. Cosa più importante, un atomo di carbonio può unirsi
ad altri atomi di carbonio tramite legami covalenti altamente stabili C–C per
formare catene e anelli e quindi generare molecole grandi e complesse senza
limiti evidenti alle loro dimensioni. I composti grandi e piccoli di carbonio
formati dalle cellule sono chiamati molecole organiche, invece, tutte le altre molecole, inclusa l’acqua, sono definite inorganiche.
Certe combinazioni di atomi, come il metile (–CH3), l’ossidrile (–OH),
il carbossile (–COOH), il carbonile (–C=O), il fosfato (–PO32–), il sulfidrile
(–SH) e i gruppi amminici (–NH2), si trovano con frequenza nelle molecole
prodotte dalle cellule. Ciascuno di questi gruppi chimici ha proprietà chimiche e fisiche distinte che influenzano il comportamento della molecola in
cui il gruppo si trova. I gruppi chimici più comuni e alcune delle loro proprietà sono riassunti nel Quadro 2.1, pp. 94-95.
■ Le cellule contengono quattro famiglie principali di piccole
molecole organiche
Le piccole molecole organiche della cellula sono composti basati sul carbonio
che hanno pesi molecolari variabili fra 100 e 1000 e contengono fino a circa
30 atomi di carbonio. In genere si trovano libere in soluzione e hanno molti destini diversi. Alcune sono usate come subunità monomeriche per costruire
polimeri giganti, le macromolecole: le proteine, gli acidi nucleici e i grandi polisaccaridi. Altre agiscono da fonti di energia e vengono demolite e trasformate in altre piccole molecole in un labirinto di vie metaboliche intracellulari.
Molte piccole molecole hanno più di un ruolo nella cellula: per esempio, agiscono sia da subunità potenziali per una macromolecola che da fonte di energia. Le piccole molecole organiche sono molto meno abbondanti delle macromolecole organiche, e assommano soltanto a un decimo della massa totale
di materia organica in una cellula. Approssimativamente, in una cellula tipica
ci sono circa mille specie diverse di queste piccole molecole.
Tutte le molecole organiche sono sintetizzate a partire dalla stessa serie
di piccoli composti nei quali vengono anche demolite. Come conseguenza
i composti presenti in una cellula sono correlati chimicamente e la maggior
parte può essere classificata in un piccolo numero di famiglie distinte. In termini generali le cellule contengono quattro famiglie principali di piccole molecole organiche: gli zuccheri, gli acidi grassi, i nucleotidi e gli amminoacidi (Figura 2.6). Sebbene molti composti presenti nelle cellule non rientrino in queste
categorie, queste quattro famiglie di piccole molecole organiche, insieme alle
macromolecole costruite legandole insieme in lunghe catene, formano gran
parte della massa cellulare.
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
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CH2OH
H
C
HO
C
H
O
OH
H
H
OH
+
H3N
C
H
C
C
H
OH
C
unità più grandi
della cellula
ZUCCHERI
POLISACCARIDI
ACIDI GRASSI
GRASSI, LIPIDI, MEMBRANE
AMMINOACIDI
PROTEINE
NUCLEOTIDI
ACIDI NUCLEICI
COO
CH3
UNO ZUCCHERO
UN AMMINOACIDO
H H H H H H H H H H H H H H
H
unità da costruzione
della cellula
C C C C C C C C C C C C C C
O
C
_
O
H H H H H H H H H H H H H H
UN ACIDO GRASSO
NH2
N
O
–O
P
O–
O
O
P
O–
N
O
O
P
O
CH2
N
N
O
O–
OH
OH
UN NUCLEOTIDE
Gli amminoacidi e le proteine da essi formate saranno il soggetto del Capitolo 3. Un riassunto delle strutture e delle proprietà delle rimanenti tre famiglie – zuccheri, grassi e nucleotidi – è presentato nei Quadri 2.4, 2.5 e 2.6 rispettivamente (vedi pp. 100-105).
■ La chimica delle cellule è dominata da macromolecole
con proprietà notevoli
In peso le macromolecole sono le più abbondanti fra le molecole che contengono carbonio in una cellula vivente (Figura 2.7). Esse sono le principali unità di cui è costituita una cellula e anche i componenti che conferiscono
le proprietà più distintive degli esseri viventi. Le macromolecole delle cellule
sono polimeri costruiti unendo covalentemente piccole molecole organiche
(chiamate monomeri) in lunghe catene (Figura 2.8), e hanno molte proprietà
notevoli, che non potevano essere previste in base ai loro semplici costituenti.
Le proteine sono abbondanti e incredibilmente versatili e svolgono migliaia di funzioni diverse nelle cellule. Molte proteine servono da enzimi, i catalizzatori che dirigono il grande numero di reazioni di formazione e rottu-
cellula
batterica
30%
composti
chimici
VOLUME
CELLULARE
DI
2 × 10–12 cm3
ioni inorganici (1%)
piccole molecole (3%)
fosfolipidi (2%)
DNA (1%)
RNA (6%)
MACROMOLECOLE
70%
H2O
Figura 2.6 Le quattro famiglie
principali di piccole molecole
organiche nelle cellule. Queste
piccole molecole formano le unità
da costruzione monomeriche, o
subunità, della maggior parte delle
macromolecole e di altri complessi
cellulari. Alcune, come gli zuccheri
e gli acidi grassi, sono anche fonte
di energia. Le loro strutture sono qui
schematizzate e riportate in maggior
dettaglio nei quadri alla fine di questo
capitolo e nel Capitolo 3.
proteine (15%)
polisaccaridi (2%)
Figura 2.7 La distribuzione
delle molecole nelle cellule.
La composizione approssimativa di
una cellula batterica è mostrata in
peso. La composizione di una cellula
animale è simile, sebbene il suo
volume sia approssimativamente
1000 maggiore. Si noti che le
macromolecole dominano. Fra i
principali ioni inorganici ci sono Na+,
K+, Mg2+, Ca2+ e Cl–.
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
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SUBUNITÀ
MACROMOLECOLE
zucchero
polisaccaride
amminoacido
proteina
nucleotide
acido nucleico
Figura 2.8 Tre famiglie di
macromolecole. Ciascuna è un
polimero formato da piccole molecole
(chiamate monomeri o subunità) unite
insieme da legami covalenti.
ra di legami covalenti di cui la cellula ha bisogno. Gli enzimi catalizzano tutte
le reazioni tramite le quali le cellule estraggono energia dalle molecole di cibo; per esempio, un enzima chiamato ribulosio bifosfato carbossilasi converte CO2 in zuccheri negli organismi fotosintetici, producendo la maggior parte della materia organica necessaria per la vita sulla Terra. Altre proteine sono
usate per costruire componenti strutturali, come la tubulina, una proteina che
si autoassembla per produrre i lunghi microtubuli della cellula, o gli istoni,
proteine che compattano il DNA nei cromosomi. Altre proteine ancora agiscono da motori molecolari per produrre forza e movimento, come nel caso della miosina del muscolo. Le proteine svolgono anche varie altre funzioni
ed esamineremo le basi molecolari di molte di esse più avanti in questo libro.
Sebbene siano diverse nei dettagli per proteine, acidi nucleici e polisaccaridi, le reazioni chimiche che aggiungono subunità a ciascun polimero hanno
importanti caratteristiche in comune. Ciascun polimero cresce per l’aggiunta di un monomero all’estremità di un polimero in crescita in una reazione di
condensazione, in cui una molecola d’acqua viene persa ogni volta che viene
aggiunta una subunità (Figura 2.9). La polimerizzazione in passaggi successivi di monomeri in una lunga catena è un modo semplice per costruire una
grossa molecola complessa, poiché le subunità sono aggiunte nella stessa reazione ripetuta in continuazione dalla stessa serie di enzimi. A parte alcuni polisaccaridi, la maggior parte delle macromolecole è costituita da una serie di
monomeri che sono leggermente diversi l’uno dall’altro, per esempio, i 20 diversi amminoacidi da cui sono costituite le proteine. Per la vita è cruciale che
la catena polimerica non sia assemblata a caso a partire da queste subunità; le
subunità sono invece aggiunte in un ordine particolare, o sequenza. I meccanismi elaborati che permettono agli enzimi di farlo sono descritti in dettaglio nei Capitoli 5 e 6.
■ Legami non covalenti specificano sia la forma precisa
di una macromolecola che il suo legame con altre molecole
Figura 2.9 La condensazione e
l’idrolisi come reazioni opposte.
Le macromolecole delle cellule
sono polimeri formati da subunità
(o monomeri) per mezzo di una
reazione di condensazione e che
sono scissi in monomeri mediante
idrolisi. Le reazioni di condensazione
sono energeticamente sfavorevoli;
per questo motivo la formazione di
polimeri richiede energia, come verrà
descritto nel testo.
La maggior parte dei legami covalenti in una macromolecola permette la rotazione degli atomi che essi uniscono, così che la catena polimerica abbia grande
flessibilità. In linea di principio ciò permette a una macromolecola di adottare
un numero quasi illimitato di forme, o conformazioni, quando l’energia termica casuale fa contorcere e ruotare la catena polimerica.Tuttavia le forme della maggior parte delle macromolecole biologiche sono molto limitate a causa
dei numerosi legami non covalenti deboli che si formano fra parti diverse della
stessa molecola. Se questi legami non covalenti si formano in numero sufficiente, la catena polimerica può preferire fortemente una conformazione particolare, determinata dalla sequenza lineare dei monomeri della sua catena. La
maggior parte delle molecole proteiche e delle molecole di RNA molto piccole che si trovano nelle cellule si ripiegano strettamente in una conformazione nettamente preferita (Figura 2.10).
I quattro tipi di interazioni non covalenti importanti nelle molecole biologiche sono stati descritti in precedenza in questo capitolo e sono discussi
ulteriormente nel Quadro 2.3 (pp. 98-99). Queste interazioni, oltre a ripiegare macromolecole biologiche in forme uniche, possono anche sommarsi per
creare una forte attrazione fra due molecole diverse (vedi Figura 2.3). Questa
forma di interazione molecolare fornisce una grande specificità, in quanto i
contatti in molteplici punti necessari per un legame forte rendono possibile a
una macromolecola di scegliere – tramite il legame – soltanto uno delle molte
migliaia di altri tipi di molecole presenti in una cellula. Inoltre, poiché la for-
H2O
A
H + HO
B
CONDENSAZIONE
energeticamente
sfavorevole
H2O
A
B
IDROLISI
energeticamente
favorevole
A
H + HO
B
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Figura 2.10 Le proteine e le
molecole di RNA si ripiegano in
una sola struttura tridimensionale
particolarmente stabile, o
conformazione. Se i legami non
covalenti che mantengono questa
conformazione stabile vengono
rotti, la molecola diventa una catena
flessibile che perde la sua attività
biologica.
molte conformazioni
instabili
una conformazione
ripiegata stabile
za del legame dipende dal numero dei legami non covalenti che si formano,
sono possibili interazioni quasi con qualunque grado di affinità, permettendo
quando è necessario una rapida dissociazione.
Come vedremo in seguito, legami di questo tipo sono alla base di tutte le
catalisi biologiche, rendendo possibile alle proteine di svolgere la funzione di
enzimi. Inoltre le interazioni non covalenti permettono anche alle macromolecole di essere usate come unità da costruzione per la formazione di strutture più grandi, formando così macchinari complicati con molteplici parti in
movimento che svolgono compiti complessi come la replicazione del DNA
e la sintesi proteica (Figura 2.11).
SOMMARIO Gli organismi viventi sono sistemi chimici autonomi capaci di
autopropagarsi. Essi sono costituiti da una serie caratteristica e limitata di piccole
molecole basate sul carbonio che sono essenzialmente le stesse per ogni specie
vivente. Ciascuna di queste molecole è composta da una piccola serie di atomi uniti
fra loro in una configurazione precisa da legami covalenti. Le categorie principali
sono zuccheri, acidi grassi, amminoacidi e nucleotidi. Gli zuccheri sono una fonte
primaria di energia chimica per le cellule e possono essere incorporati in polisaccaridi
per conservare energia. Anche gli acidi grassi sono importanti per la conservazione
dell’energia, ma la loro funzione più cruciale è la formazione delle membrane
cellulari. Polimeri consistenti di amminoacidi costituiscono le macromolecole
notevolmente diverse e versatili note come proteine. I nucleotidi hanno un ruolo
centrale nel trasferimento di energia e sono anche le subunità di cui sono fatte le
macromolecole informazionali, RNA e DNA.
SUBUNITÀ
MACROMOLECOLE
legami
covalenti
legami
non covalenti
COMPLESSI
MACROMOLECOLARI
ad esempio, zuccheri,
amminoacidi e nucleotidi
30 nm
ad esempio, proteine
globulari e RNA
Figura 2.11 Piccole molecole si legano covalentemente
a formare macromolecole che a loro volta si assemblano
mediante legami non covalenti a formare grandi
complessi. Piccole molecole, proteine e un ribosoma disegnati
ad esempio, ribosoma
approssimativamente in scala. I ribosomi sono una parte
centrale del macchinario che la cellula usa per produrre
proteine: ciascun ribosoma è formato da un complesso di circa
90 macromolecole (molecole di proteine e di RNA).
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La maggior parte della massa secca di una cellula consiste di macromolecole che
sono state prodotte come polimeri lineari di amminoacidi (proteine) o di nucleotidi
(DNA e RNA), uniti covalentemente fra loro in un preciso ordine. La maggior parte
delle molecole proteiche e molti degli RNA si ripiegano in una conformazione unica
che dipende dalla loro sequenza di subunità. Questo processo di ripiegamento crea
superfici peculiari e dipende da una grande serie di interazioni deboli prodotte
da forze non covalenti fra gli atomi. Queste forze sono di quattro tipi: attrazioni
elettrostatiche, legami idrogeno, attrazioni di van der Waals e un’interazione fra
gruppi non polari causata dalla loro espulsione idrofobica dall’acqua. La stessa serie
di forze deboli governa l’attacco specifico di altre molecole alle macromolecole,
rendendo possibile la miriade di associazioni fra molecole biologiche che producono
la struttura e la chimica di una cellula. ●
La catalisi e l’uso di energia da parte
delle cellule
Una proprietà degli esseri viventi in particolare li fa sembrare quasi miracolosamente diversi dalla materia non vivente: essi creano e mantengono ordine
in un universo che tende sempre al maggior disordine (Figura 2.12). Per creare questo ordine le cellule di un organismo vivente devono svolgere una serie
ininterrotta di reazioni chimiche. In alcune di queste reazioni piccole molecole organiche – amminoacidi, zuccheri, nucleotidi e lipidi – vengono demolite o modificate per produrre tutte le altre piccole molecole che la cellula richiede. In altre reazioni queste piccole molecole vengono usate per costruire
una gamma enormemente diversificata di proteine, acidi nucleici e altre macromolecole che conferiscono ai sistemi viventi tutte le loro caratteristiche
più distintive. Ciascuna cellula può essere vista come una minuscola fabbrica
chimica, che svolge milioni di reazioni al secondo.
■ Il metabolismo cellulare • organizzato da enzimi
Le reazioni chimiche svolte da una cellula avverrebbero normalmente soltanto a temperature molto più alte di quelle esistenti all’interno delle cellule.
Per questa ragione ciascuna reazione richiede una spinta specifica in termini
di reattività chimica. Questa necessità è cruciale, perché permette alla cellula di controllare ciascuna reazione. Il controllo è esercitato tramite catalizzatori biologici specializzati. Questi sono quasi sempre proteine chiamate enzimi,
sebbene esistano anche RNA con funzione di catalizzatore chiamati ribozimi.
Ciascun enzima accelera, o catalizza, soltanto uno dei molti tipi possibili di
reazioni cui una particolare molecola potrebbe andare incontro. Le reazioni
(A)
20 nm
(B)
50 nm
(C)
Figura 2.12 Le strutture biologiche sono altamente
ordinate. Negli organismi viventi si possono trovare a ogni
livello di organizzazione schemi spaziali ben definiti, elaborati e
belli. In ordine di dimensioni crescenti: (A) molecole proteiche
nel rivestimento di un virus (un parassita che, sebbene
tecnicamente non sia un organismo vivente, contiene lo stesso
tipo di molecole trovate nelle cellule viventi; (B) la disposizione
regolare di microtubuli visti in una sezione trasversale della coda
10 µm
(D)
0,5 mm
(E)
20 mm
di uno spermatozoo; (C) contorni della superficie di un grano
di polline (una singola cellula); (D) sezione trasversale di fusto
di felce che mostra la disposizione regolare delle cellule;
(E) disposizione a spirale delle foglie di una pianta grassa.
(A, per gentile concessione di R.A. Grant e J.M. Hogle; B, per
gentile concessione di Lewis Tilney; C, per gentile concessione
di Colin MacFarlane e Chris Jeffree; D, per gentile concessione
di Jim Haseloff.)
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molecola
molecola
molecola
molecola
molecola
molecola
A
B
C
D
E
F
catalisi
da parte
dell’enzima 1
catalisi
da parte
dell’enzima 2
catalisi
da parte
dell’enzima 3
catalisi
da parte
dell’enzima 4
catalisi
da parte
dell’enzima 5
catalizzate da enzimi sono di solito connesse in serie, così che il prodotto di
una reazione diventa il materiale di partenza, o substrato, di quella successiva
(Figura 2.13). Queste lunghe vie lineari di reazioni sono a loro volta collegate
fra loro, formando un labirinto di reazioni interconnesse che rendono la cellula capace di sopravvivere, crescere e riprodursi.
Due flussi opposti di reazioni chimiche si verificano nelle cellule: (1) le vie
cataboliche demoliscono il cibo in molecole più piccole, generando così sia una
forma utile di energia per la cellula che alcune delle piccole molecole di cui
la cellula ha bisogno come unità da costruzione; (2) le vie anaboliche, o biosintetiche, usano l’energia imbrigliata dal catabolismo per spingere la sintesi delle
molte altre molecole che formano la cellula. Insieme queste due serie di reazioni costituiscono il metabolismo della cellula (Figura 2.14).
Molti dettagli del metabolismo cellulare costituiscono il soggetto tradizionale della biochimica e non ci riguardano. Ma i principi generali in base ai
quali le cellule ottengono energia dall’ambiente e la usano per creare ordine
sono fondamentali per la biologia cellulare. Iniziamo con una discussione sul
motivo per cui un apporto costante di energia è necessario per sostenere gli
organismi viventi.
ABBREVIATE COME
Figura 2.13 Il modo in cui una
serie di reazioni catalizzate da
enzimi genera una via metabolica.
Ciascun enzima catalizza una
particolare reazione chimica, che lascia
l’enzima immutato. In questo esempio
un gruppo di enzimi che agisce in serie
converte la molecola A nella molecola
F, formando una via metabolica. (Per
un diagramma di molte delle reazioni
che avvengono in una cellula umana,
abbreviate come mostrato, vedi Figura
2.63.)
■ L’ordine biologico è reso possibile dal rilascio di energia
sotto forma di calore dalle cellule
La tendenza universale delle cose a diventare disordinate è espressa in una legge fondamentale della fisica – la seconda legge della termodinamica – secondo la
quale nell’universo, o in qualunque sistema isolato (un insieme di materia che
è completamente isolato dal resto dell’universo), il grado di disordine può soltanto aumentare. Questa legge ha implicazioni così profonde per tutti gli esseri viventi che vale la pena di enunciarla in diversi modi.
Per esempio, possiamo presentare la seconda legge in termini di probabilità e dire che i sistemi cambieranno spontaneamente verso quelle disposizioni
che presentano il maggior grado di probabilità. Se consideriamo, per esempio,
una scatola contenente 100 monete tutte con la testa rivolta verso l’alto, una
serie di urti che scuota la scatola tenderà a mutare la disposizione verso una
miscela di 50 teste e 50 croci. La ragione è semplice: vi è un numero enorme di disposizioni possibili delle singole monete che può portare al risultato
molecole
di cibo
VIE
CATABOLICHE
le molte molecole
che formano la cellula
forme
utili di
energia
+
VIE
ANABOLICHE
calore
perso
le molte unità da costruzione
per le biosintesi
Figura 2.14 Rappresentazione
schematica della relazione fra
vie cataboliche e anaboliche nel
metabolismo. Come suggerito qui,
una porzione importante dell’energia
conservata nei legami chimici delle
molecole di cibo è dissipata come
calore. Inoltre, la massa di cibo
richiesta da un organismo che deriva
tutta la sua energia dal catabolismo
è molto maggiore della massa delle
molecole che possono essere prodotte
dall’anabolismo.
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
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Figura 2.15 Un esempio nella
vita di tutti i giorni del processo
spontaneo verso il disordine.
Invertire questa tendenza verso
il disordine richiede uno sforzo
intenzionale e un apporto di
energia: non è spontaneo. In effetti,
in base alla seconda legge della
termodinamica, possiamo essere
certi che l’intervento umano richiesto
rilascerà verso l’ambiente più calore
di quello necessario a compensare il
riordino degli oggetti in questa stanza.
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REAZIONE “SPONTANEA”
come passa il tempo
SFORZO ORGANIZZATO CHE RICHIEDE APPORTO DI ENERGIA
50-50, ma soltanto una possibile disposizione che tiene tutte le monete orientate con la testa verso l’alto. Poiché la disposizione 50-50 è perciò la più probabile, noi diciamo che è la più “disordinata”. Per la stessa ragione, è un’esperienza comune che lo spazio in cui viviamo diventerà sempre più disordinato
senza sforzo intenzionale: il movimento verso il disordine è un processo spontaneo, che richiede uno sforzo periodico per invertirlo (Figura 2.15).
La quantità di disordine in un sistema può essere calcolata ed espressa come entropia del sistema: maggiore è il disordine e maggiore è l’entropia. Così
un altro modo di esprimere la seconda legge della termodinamica è quello di
dire che i sistemi cambieranno spontaneamente verso disposizioni con maggiore entropia.
Le cellule viventi – sopravvivendo, crescendo e formando organismi complessi – generano ordine e così potrebbe sembrare che sfidino la seconda legge della termodinamica. Come è possibile? La risposta è che una cellula non
è un sistema isolato: prende energia dall’ambiente sotto forma di cibo, o come fotoni dal sole (o anche, come in alcuni batteri chemosintetici, soltanto
da molecole inorganiche), e quindi usa questa energia per generare ordine
al suo interno. Nel corso delle reazioni chimiche che generano ordine parte
dell’energia che la cellula usa viene convertita in calore. Il calore è scaricato
nell’ambiente della cellula e lo rende disordinato, così che l’entropia totale –
quella della cellula più quella dell’ambiente circostante – aumenta, come previsto dalle leggi della termodinamica.
Per comprendere i principi che governano queste conversioni di energia
pensate a una cellula come se si trovasse in un mare di materia che rappresenta il resto dell’universo. Mentre la cellula vive e cresce crea ordine interno. Ma
rilascia costantemente energia sotto forma di calore mentre sintetizza molecole e le assembla in strutture cellulari. Il calore è energia nella sua forma più
disordinata: scontri casuali fra molecole. Quando la cellula rilascia calore nel
mare, ciò aumenta l’intensità dei movimenti molecolari nel mare (movimenti
termici), aumentando così la casualità, o disordine, del mare. La seconda legge
della termodinamica è soddisfatta perché l’aumento nella quantità di ordine
all’interno della cellula è più che compensato da una maggiore diminuzione
nell’ordine (aumento di entropia) del mare circostante di materia (Figura 2.16).
Da dove viene il calore che la cellula rilascia? Qui incontriamo un’altra importante legge della termodinamica. La prima legge della termodinamica afferma
che l’energia può essere convertita da una forma a un’altra, ma che non può
essere creata né distrutta. Alcune forme di interconversione di energia sono
illustrate nella Figura 2.17. La quantità di energia in forme diverse cambierà
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mare di materia
Figura 2.16 Una semplice analisi
cellula
CALORE
disordine aumentato
ordine aumentato
come risultato delle reazioni chimiche all’interno della cellula, ma la prima
legge ci dice che la quantità totale di energia deve sempre essere la stessa. Per
esempio, una cellula animale assume cibo e converte una parte dell’energia
presente nei legami chimici fra gli atomi di queste molecole di cibo (energia di
legami chimici) nei movimenti termici casuali di molecole (energia di calore).
il mattone che cade
ha energia cinetica
il mattone
sollevato
ha un’energia
potenziale
dovuta alla forza
di gravità
1
termodinamica di una cellula
vivente. Nel disegno schematico a
sinistra le molecole della cellula e del
resto dell’universo (il mare di materia)
sono rappresentate in uno stato
relativamente disordinato. Nel disegno
schematico a destra la cellula ha
assunto energia da molecole di cibo
e ha rilasciato calore da una reazione
che ordina le molecole che la cellula
contiene. Il calore rilasciato aumenta il
disordine nell’ambiente che circonda
la cellula (rappresentato dalle frecce
spezzate e dalle molecole distorte,
che indicano l’aumento dei movimenti
molecolari provocati dal calore).
Come risultato, la seconda legge
della termodinamica – che dice che
la quantità di disordine nell’universo
deve sempre crescere – è soddisfatta
mentre la cellula cresce e si divide.
Per una discussione dettagliata vedi
Quadro 2.7 (pp. 106-107).
viene rilasciato calore
quando il mattone
colpisce il pavimento
energia potenziale dovuta alla posizione
energia cinetica
energia di calore
+
due molecole
di idrogeno
gassoso
2
molecola
di ossigeno
gassoso
vibrazioni e rotazioni rapide
di due molecole d’acqua
appena formate
rapidi movimenti
molecolari in H2O
energia di legame chimico
in H2 e O2
batteria
–
calore disperso
nell’ambiente
energia di calore
motore del
ventilatore
–
+
+
cavi
ventilatore
3
energia di legame chimico
luce solare
4
energia elettromagnetica (luce)
energia elettrica
molecola
di clorofilla
energia cinetica
molecola di clorofilla
in uno stato eccitato
elettroni ad alta energia
fotosintesi
energia di legame chimico
Figura 2.17 Alcune
interconversioni tra forme
diverse di energia. Tutte le forme
di energia sono, in linea di principio,
interconvertibili. In tutti questi
processi la quantità totale di energia
è conservata; così, per esempio,
dall’altezza e dal peso del mattone in
(1) possiamo prevedere esattamente
quanto calore sarà rilasciato quando
colpisce il pavimento. In (2) si noti che
la grande quantità di energia chimica
di legame rilasciata quando si forma
acqua viene inizialmente convertita
in movimenti termici molto rapidi
nelle due nuove molecole d’acqua;
ma collisioni con altre molecole
diffondono quasi istantaneamente
questa energia cinetica in modo
uniforme nell’ambiente circostante
(trasferimento di calore), rendendo
le nuove molecole indistinguibili
da tutto il resto.
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2 Chimica e bioenergetica della cellula
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La cellula non può derivare alcun beneficio dall’energia di calore che rilascia, a meno che le reazioni che generano calore all’interno della cellula non
siano direttamente collegate ai processi che generano ordine molecolare. È
lo stretto accoppiamento della produzione di calore a un aumento dell’ordine
che distingue il metabolismo di una cellula dallo spreco di combustibile in un
fuoco. Più avanti in questo capitolo illustreremo il modo in cui avviene questo accoppiamento. Per il momento è sufficiente riconoscere che un collegamento diretto tra la “combustione” di molecole di cibo e la generazione di
ordine biologico è necessario alle cellule per creare e mantenere un’isola di
ordine in un universo che tende verso il caos.
■ Le cellule ottengono energia dall’ossidazione di molecole
organiche
Figura 2.18 Fotosintesi e
respirazione come due processi
complementari nel mondo
vivente. La fotosintesi usa l’energia
elettromagnetica della luce solare per
produrre energia di legame chimico
negli zuccheri e altre molecole
organiche. Le piante, le alghe e i
cianobatteri ottengono gli atomi di
carbonio di cui hanno bisogno per
questo scopo dalla CO2 atmosferica
e dall’idrogeno dell’acqua, liberando
O2 gassoso come scarto. Le molecole
organiche prodotte dalla fotosintesi a
loro volta servono come cibo per altri
organismi. Molti di questi organismi
effettuano la respirazione aerobica, un
processo che usa O2 per formare CO2
dagli stessi atomi di carbonio che sono
stati assunti come CO2 e convertiti
in zuccheri dalla fotosintesi. Nel
processo, gli organismi che respirano
ottengono l’energia di legame chimico
di cui hanno bisogno per sopravvivere.
Si pensa che le prime cellule sulla Terra
non fossero capaci né di fotosintesi
né di respirazione (vedi Capitolo 14).
Tuttavia, la fotosintesi deve avere
preceduto la respirazione sulla Terra
poiché ci sono prove molto forti che
siano stati necessari molti miliardi di
anni di fotosintesi prima che venisse
rilasciato O2 in quantità sufficiente a
creare un’atmosfera ricca di questo
gas. (L’atmosfera della Terra oggi
contiene il 20% di O2.)
Tutte le cellule animali e vegetali sono alimentate da energia conservata in legami chimici di molecole organiche, sia che si tratti di zuccheri che un vegetale ha fotosintetizzato come cibo per se stesso o che siano la miscela di molecole piccole e grandi che un animale ha mangiato. Per usare questa energia per
vivere, crescere e riprodursi gli organismi devono estrarla in una forma utilizzabile. Sia nei vegetali che negli animali l’energia viene ricavata dalle molecole
di cibo tramite un processo di ossidazione graduale, o combustione controllata.
L’atmosfera terrestre contiene una grande quantità di ossigeno, e in presenza di ossigeno la forma energeticamente più stabile del carbonio è CO2 e
quella dell’idrogeno è H2O. Una cellula è perciò capace di ottenere energia
da zuccheri e altre molecole organiche permettendo ai loro atomi di carbonio e di idrogeno di combinarsi con ossigeno a produrre rispettivamente CO2
e H2O: un processo chiamato respirazione aerobica.
La fotosintesi (discussa in dettaglio nel Capitolo 14) e la respirazione sono
processi complementari (Figura 2.18). Ciò significa che le transazioni fra vegetali e animali non sono tutte unidirezionali.Vegetali, animali e microrganismi hanno convissuto su questo pianeta per così tanto tempo che molti di essi
sono diventati una parte essenziale del comune ambiente. L’ossigeno rilasciato dalla fotosintesi è consumato nella combustione di molecole organiche da
quasi tutti gli organismi. Una parte della CO2 che viene fissata oggi in molecole organiche dalla fotosintesi in una foglia verde è stata rilasciata ieri nell’atmosfera dalla respirazione di un animale, o da quella di un fungo o di un batterio che decompone materia organica morta.Vediamo perciò che l’utilizzo
del carbonio dà vita a un enorme ciclo che coinvolge la biosfera (tutti gli organismi viventi sulla Terra) nel suo insieme (Figura 2.19). In modo simile gli atomi di azoto, fosforo e zolfo si spostano fra il mondo vivente e quello non vivente in cicli che coinvolgono vegetali, animali, funghi e batteri.
■ Ossidazione e riduzione comportano trasferimenti
di elettroni
La cellula non ossida le molecole organiche in un solo passaggio, come avviene quando si brucia materiale organico in un fuoco.Tramite l’uso di cata-
FOTOSINTESI
CO2 + H2O
O2
H2O
RESPIRAZIONE CELLULARE
O2 + ZUCCHERI
ZUCCHERI+ O2
CO2
VEGETALI,
ALGHE,
ALCUNI BATTERI
ENERGIA
DELLA LUCE
SOLARE
CO2
ZUCCHERI E ALTRE
MOLECOLE
ORGANICHE
H2O + CO2
O2
MAGGIOR
PARTE DEGLI
ORGANISMI VIVENTI
ENERGIA
DI LEGAME
CHIMICO
UTILE
H2O
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Figura 2.19 Il ciclo del carbonio.
CO2 IN ATMOSFERA E ACQUA
RESPIRAZIONE
Singoli atomi di carbonio sono
incorporati in molecole organiche
del mondo vivente dall’attività
fotosintetica di batteri, alghe e piante.
Essi passano ad animali, microrganismi
e nel materiale organico nel terreno
e negli oceani in vie cicliche. La CO2
viene restituita nell’atmosfera quando
molecole organiche sono ossidate
dalle cellule o bruciate dagli esseri
umani come combustibili.
FOTOSINTESI
VEGETALI, BATTERI
ALGHE
ANIMALI
CATENA
ALIMENTARE
HUMUS E MATERIA
ORGANICA DISSOLTA
SEDIMENTI E COMBUSTIBILI
FOSSILI
lizzatori enzimatici, nel processo metabolico le molecole subiscono numerose reazioni che soltanto raramente comportano l’aggiunta diretta di ossigeno.
Prima di considerare alcune di queste reazioni e il loro scopo, dobbiamo vedere che cosa si intende per processo di ossidazione.
Ossidazione, nel senso usato sopra, non significa soltanto l’aggiunta di
atomi di ossigeno, ma si applica più generalmente a qualunque reazione in cui
elettroni sono trasferiti da un atomo a un altro. Ossidazione in questo senso si
riferisce alla rimozione di elettroni, e riduzione – l’opposto dell’ossidazione – significa aggiunta di elettroni. Così Fe2+ è ossidato se perde un elettrone per diventare Fe3+ e un atomo di cloro è ridotto se guadagna un elettrone per diventare Cl–. Poiché in una reazione chimica il numero di elettroni è
conservato (nessuna perdita o guadagno), ossidazione e riduzione avvengono sempre simultaneamente: se una molecola guadagna un elettrone in una
reazione (riduzione), una seconda molecola perde un elettrone (ossidazione).
Quando una molecola di zucchero è ossidata a CO2 e H2O, per esempio, le
molecole di O2 coinvolte nella formazione di H2O guadagnano elettroni e si
dice che sono state ridotte.
I termini “ossidazione” e “riduzione” si applicano anche quando c’è soltanto uno spostamento parziale di elettroni fra atomi uniti da un legame covalente (Figura 2.20). Quando un atomo di carbonio si lega covalentemente a
un atomo con una forte affinità per gli elettroni, come ossigeno, cloro o zolfo, per esempio, cede più della sua giusta quota di elettroni e forma un lega-
Figura 2.20 Ossidazione e riduzione. (A) Quando due atomi formano un legame
covalente polare, l’atomo che alla fine ha una quota maggiore di elettroni si dice
ridotto, mentre l’altro atomo ha una quota minore di elettroni e si dice ossidato.
L’atomo ridotto ha acquisito una carica negativa parziale (d–) perché la carica positiva
sul nucleo atomico è adesso più che compensata dalla carica totale degli elettroni
che lo circondano e, viceversa, l’atomo ossidato ha acquisito una carica positiva
parziale (d+). (B) Il singolo atomo di carbonio del metano può essere convertito in
quello di anidride carbonica in seguito alla sostituzione successiva dei suoi atomi
di idrogeno legati covalentemente con atomi di ossigeno. In ciascun passaggio
elettroni sono rimossi dal carbonio (come indicato dall’ombreggiatura blu) e l’atomo
di carbonio diventa progressivamente più ossidato. Ciascuno di questi passaggi è
energeticamente favorevole nelle condizioni presenti all’interno di una cellula.
e
+
+
e
_
e
ATOMO 1
(A)
_
e
+
_
e
ATOMO 2
carica
positiva
parziale
(indicata
con δ+)
ossidata
H
O
I
H
A
e
O
+
N
C
D
OH
U
Z
formaldeide
H
C
O
I
O
H
acido
formico
N
C
O
E
C
O
H
HO
E
(B)
I
H
D
I
MOLECOLA
R
H metanolo
S
_
carica
positiva
parziale
(indicata
con δ–)
ridotta
H
H
Z
+ _
e
C
S
O
_
_
FORMAZIONE
DI UN LEGAME
COVALENTE
POLARE
H metano
anidride carbonica
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2 Chimica e bioenergetica della cellula
58
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me covalente polare: la carica positiva del nucleo di carbonio è ora un po’ più
grande della carica negativa dei suoi elettroni e l’atomo acquisisce quindi una
parziale carica positiva e si dice che è ossidato.Viceversa, un atomo di carbonio in un legame C–H ha leggermente più della sua quota di elettroni e si dice quindi che è ridotto.
Quando una molecola in una cellula assume un elettrone (e–), spesso assume contemporaneamente un protone (H+) (i protoni sono liberamente disponibili nell’acqua). L’effetto netto in questo caso è l’aggiunta di un atomo
di idrogeno alla molecola
A + e– + H+ n AH
Anche se sono coinvolti un protone e un elettrone (invece di un elettrone
soltanto), queste reazioni di idrogenazione sono riduzioni, e l’inverso, la reazione di deidrogenazione, è un’ossidazione. È particolarmente facile capire se una
molecola organica viene ossidata o ridotta: si ha una riduzione se il numero
di legami C–H aumenta, mentre si ha un’ossidazione se il numero di legami
C–H diminuisce (vedi Figura 2.20B).
Le cellule usano enzimi per catalizzare l’ossidazione di molecole organiche in piccoli passaggi, in una sequenza di reazioni che permettono di raccogliere energia utile. Ora dobbiamo spiegare come funzionano gli enzimi e alcune delle restrizioni a cui sono soggetti.
■ Gli enzimi abbassano le barriere che bloccano le reazioni
chimiche
Consideriamo la reazione
carta + O2 n fumo + cenere + calore + CO2 + H2O
La carta brucia facilmente, rilasciando nell’atmosfera energia come calore e
acqua e anidride carbonica come gas. Questa reazione è irreversibile in quanto il fumo e la cenere non recuperano spontaneamente queste entità dall’atmosfera riscaldata e non si ricostituiscono in carta. Quando la carta brucia, la
sua energia chimica viene dissipata come calore, non persa dall’universo, poiché l’energia non può mai essere creata né distrutta, ma viene dispersa in modo irrecuperabile nei movimenti termici caotici casuali delle molecole. Allo
stesso tempo gli atomi e le molecole della carta vengono dispersi disordinatamente. Nel linguaggio della termodinamica, c’è stata una perdita di energia
libera, cioè di energia che può essere imbrigliata per eseguire un lavoro o per
spingere reazioni chimiche. Questa perdita riflette una perdita di ordine nel
modo in cui l’energia e le molecole erano conservate nella carta.
Discuteremo l’energia libera in maggiore dettaglio fra breve, ma il principio generale è abbastanza chiaro intuitivamente: le reazioni chimiche procedono spontaneamente soltanto nella direzione che porta a una perdita di
energia libera; in altre parole, la direzione spontanea per qualunque reazione
è la direzione che va “in discesa”. Una reazione “in discesa” in questo senso si
dice spesso energeticamente favorevole.
Sebbene la forma energeticamente più favorevole del carbonio in condizioni ordinarie sia CO2 e quella dell’idrogeno sia H2O, un organismo vivente
non scompare in uno sbuffo di fumo e il libro nelle vostre mani non prende
fuoco. Ciò perché le molecole dell’organismo vivente e del libro sono in uno
stato relativamente stabile e non possono passare a uno stato a minore energia
senza un apporto di energia: in altre parole, una molecola richiede energia di
attivazione – una spinta per passare una barriera di energia – prima di poter
subire una reazione chimica che la lascia in uno stato più stabile (Figura 2.21).
Nel caso di un libro che brucia, l’energia di attivazione è fornita dal calore di
un fiammifero acceso. Per le molecole nella soluzione acquosa di una cellula,
la spinta è data da una collisione casuale insolitamente energetica con molecole circostanti, collisioni che diventano più violente se si alza la temperatura.
La chimica di una cellula vivente è strettamente controllata poiché la spinta per superare la barriera di energia è molto facilitata da una classe specializzata di proteine, gli enzimi. Ciascun enzima si lega con forza a una o due
molecole, chiamate substrati, e le tiene unite in modo da ridurre molto l’e-
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2 Chimica e bioenergetica della cellula
59
a
energia
di attivazione
per reazione
Y X
Y
b
reagente
energia totale
energia totale
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d
Y
l’enzima abbassa
l’energia
di attivazione
per la reazione
catalizzata
Y X
b
reagente
X
X
c
(A)
c
prodotto
via di reazione
non catalizzata
(B)
prodotto
via di reazione catalizzata
da un enzima
nergia di attivazione di una particolare reazione chimica che i substrati legati possono subire. Una sostanza che può abbassare l’energia di attivazione di
una reazione si chiama catalizzatore; i catalizzatori aumentano la velocità
delle reazioni chimiche perché permettono una quota molto più alta di collisioni casuali con molecole circostanti per spingere i substrati oltre la barriera
di energia, come illustrato nella Figura 2.22. Gli enzimi sono fra i catalizzatori noti più efficienti, alcuni sono capaci di accelerare le reazioni di un fattore
fino a 1014 e oltre. Gli enzimi perciò permettono reazioni che altrimenti non
sarebbero potute avvenire rapidamente a temperature normali.
■ Gli enzimi possono dirigere le molecole di substrato lungo
vie specifiche di reazione
Un enzima non può cambiare il punto di equilibrio di una reazione. La ragione è semplice: quando un enzima (o qualunque catalizzatore) abbassa l’energia di attivazione per la reazione X n Y, necessariamente abbassa anche
l’energia di attivazione della reazione Y n X della stessa quantità (vedi Figura 2.21). Le reazioni in avanti e indietro saranno quindi accelerate da un enzi-
numero di molecole
energia necessaria
per far avvenire
la reazione chimica
catalizzata dall’enzima
molecole con
energia media
energia necessaria
per far avvenire
una reazione chimica
non catalizzata
energia per molecola
Figura 2.22 L’abbassamento dell’energia di attivazione aumenta molto la
probabilità di una reazione. Una popolazione di molecole identiche di substrato avrà
in ciascun istante una quantità di energia che è distribuita come mostrato nel grafico.
Le energie variabili derivano da collisioni con molecole circostanti, che fanno oscillare,
vibrare e girare le molecole di substrato. Affinché una molecola subisca una reazione
chimica l’energia della molecola deve superare la barriera di energia di attivazione per
quella reazione (linee tratteggiate); per la maggior parte delle reazioni biologiche ciò non
avviene quasi mai senza catalisi enzimatica. Anche con la catalisi enzimatica le molecole
di substrato devono subire una collisione particolarmente energetica per reagire, come
indicato qui (area ombreggiata in rosso). Anche un aumento di temperatura può far
crescere il numero di molecole con energia sufficiente a superare l’energia di attivazione
necessaria per una reazione; tuttavia, a differenza della catalisi enzimatica, questo effetto
non è selettivo e accelera tutte le reazioni (Filmato 2.2 ).
Figura 2.21 Il principio importante
dell’energia di attivazione.
(A) Il composto Y (un reagente) è in
uno stato relativamente stabile ed
è necessaria energia per convertirlo
nel composto X (un prodotto), anche
se X è a un livello globale di energia
più basso di Y. Questa conversione
non avverrà, perciò, a meno che il
composto Y non possa acquisire
abbastanza energia di attivazione
(energia a meno energia b)
dall’ambiente per sostenere la
reazione che lo converte nel composto
X. Questa energia può essere fornita
da una collisione insolitamente
energetica con altre molecole. Per
la reazione inversa, X n Y, l’energia
di attivazione sarà molto più grande
(energia a meno energia c); questa
reazione avverrà quindi molto più
raramente. Le energie di attivazione
sono sempre positive; notate però
che il cambiamento totale di energia
per la reazione energeticamente
favorevole Yn X è energia c meno
energia b, un numero negativo.
(B) Le barriere di energia di reazioni
specifiche possono essere abbassate
da catalizzatori, come indicato dalla
linea marcata d. Gli enzimi sono
catalizzatori particolarmente efficaci
perché riducono di molto l’energia
di attivazione delle reazioni che
catalizzano.
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2 Chimica e bioenergetica della cellula
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Figura 2.23 Gli enzimi non
energia
possono cambiare il punto di
equilibrio delle reazioni. Gli enzimi,
come tutti i catalizzatori, aumentano
la velocità in avanti e indietro di una
reazione chimica dello stesso fattore.
Quindi, per entrambe le reazioni,
catalizzata e non catalizzata, mostrate
qui, il numero di molecole che va
incontro alla transizione Y n X
è uguale al numero di molecole
che va incontro alla reazione X n Y
quando il rapporto di molecole Y e di
molecole X è 3 a 1. In altre parole, le
due reazioni raggiungono l’equilibrio
esattamente allo stesso punto.
Figura 2.24 Indirizzamento di
molecole di substrato attraverso
una via di reazione specifica per
mezzo della catalisi enzimatica.
Una molecola substrato in una
cellula (palla verde) è convertita in
una molecola diversa (palla blu)
per mezzo di una serie di reazioni
catalizzate da enzimi. Come indicato
(rettangoli gialli), diverse reazioni sono
energeticamente favorevoli a ogni
passaggio, ma solo una è catalizzata
da ogni specifico enzima. Serie di
enzimi determinano in tal modo
l’esatta via di reazione che è seguita
da ogni molecola all’interno della
cellula.
X
(A)
Y
X
REAZIONE NON CATALIZZATA
ALL’EQUILIBRIO
(B)
Y
REAZIONE CATALIZZATA
DA ENZIMA ALL’EQUILIBRIO
ma nella stessa misura e il punto di equilibrio della reazione rimarrà immutato (Figura 2.23). Perciò non importa quanto un enzima accelera una reazione, non potrà comunque cambiare la sua direzione.
Nonostante le limitazioni appena descritte, gli enzimi guidano tutte le reazioni che avvengono nelle cellule attraverso vie di reazione specifiche. Questo
perché gli enzimi sono sia altamente selettivi sia molto precisi, catalizzando
solitamente solo una particolare reazione. In altre parole, abbassano selettivamente l’energia di attivazione soltanto di una delle parecchie reazioni chimiche che il substrato legato potrebbe subire. In questo modo gli enzimi dirigono ciascuna delle molte molecole diverse presenti in una cellula lungo vie
specifiche di reazione (Figura 2.24).
Il successo degli organismi viventi è attribuibile alla capacità di una cellula di produrre enzimi di molti tipi, ciascuno con proprietà precisamente specificate. Ogni enzima ha una forma unica che contiene un sito attivo, una tasca o fessura nell’enzima in cui si adattano soltanto substrati particolari (Figura 2.25). Come tutti gli altri catalizzatori, le molecole enzimatiche rimangono
immutate dopo aver partecipato a una reazione e perciò possono svolgere la
loro funzione moltissime volte. Nel Capitolo 3 discuteremo ulteriormente il
modo in cui funzionano gli enzimi.
■ Il modo in cui gli enzimi trovano i loro substrati: l’enorme
rapidità dei movimenti molecolari
Un tipico enzima catalizza spesso la reazione di migliaia di molecole di substrato al secondo. Ciò significa che deve essere capace di legare una nuova molecola di substrato in una frazione di millisecondo. Ma sia enzimi che substrati
sono presenti in numeri relativamente piccoli in una cellula. In che modo si
trovano così rapidamente? Un legame rapido è possibile perché i movimenti
provocati dall’energia di calore sono enormemente veloci a livello molecolare.
Questi movimenti molecolari possono essere classificati in tre categorie: (1) il
movimento di una molecola da un posto a un altro (movimento traslazionale);
(2) il rapido movimento avanti e indietro di atomi legati covalentemente l’uno rispetto all’altro (vibrazioni); (3) le rotazioni.Tutti questi movimenti sono
importanti per avvicinare le superfici di molecole interagenti.
La frequenza dei movimenti molecolari può essere misurata mediante varie
tecniche spettroscopiche. Una grossa proteina globulare rotola costantemente, ruotando intorno al suo asse circa un milione di volte al secondo. Le mole-
Figura 2.25 Il modo in cui
funzionano gli enzimi. Ciascun
enzima ha un sito attivo a cui si
attaccano una o più molecole di
substrato, formando un complesso
enzima-substrato. Una reazione
avviene sul sito attivo, producendo
un complesso enzima-prodotto.
Il prodotto viene quindi rilasciato,
permettendo all’enzima di legare
ulteriori molecole di substrato.
enzima
sito attivo
molecola A
(substrato)
enzima
CATALISI
complesso
enzima-substrato
complesso
enzima-prodotto
molecola B
(prodotto)
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2 Chimica e bioenergetica della cellula
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cole sono anche in continuo movimento di traslazione, che fa loro esplorare,
vagando, lo spazio interno della cellula in modo molto efficiente, un processo chiamato diffusione. In questo modo ogni molecola in una cellula collide
con un numero enorme di altre molecole ogni secondo. Mentre le molecole in un liquido collidono e rimbalzano, una singola molecola si muove prima in una direzione e poi in un’altra, seguendo un percorso che costituisce
un cammino casuale (Figura 2.26). In questo cammino la distanza media che ciascuna molecola percorre in linea d’aria dal punto di partenza è proporzionale
alla radice quadrata del tempo: cioè, se ci vuole in media 1 secondo perché la
molecola percorra 1 mm, ci vogliono 4 secondi per percorrere 2 mm, 100 secondi per percorrere 10 mm e così via.
L’interno di una cellula è molto affollato (Figura 2.27). Nonostante ciò,
esperimenti in cui coloranti fluorescenti e altre molecole marcate vengono
iniettati nelle cellule mostrano che piccole molecole organiche diffondono
attraverso il gel acquoso del citosol quasi alla stessa velocità a cui si muovono
nell’acqua. Una piccola molecola organica, per esempio, richiede soltanto un
quinto di secondo in media per diffondere a una distanza di 10 mm. La diffusione è perciò un modo efficiente per le piccole molecole di muoversi per
le distanze limitate all’interno di una cellula (una tipica cellula animale ha un
diametro di 15 mm).
Poiché nelle cellule gli enzimi si muovono più lentamente dei substrati,
possiamo considerarli come se fossero fermi. La frequenza di incontro di ciascuna molecola enzimatica con il suo substrato dipenderà dalla concentrazione delle molecole di substrato. Per esempio, alcuni substrati abbondanti sono
presenti a una concentrazione di 0,5 mM. Poiché l’acqua pura è 55,5 M, nella cellula c’è soltanto una molecola di questo substrato per ogni 105 molecole
d’acqua. Nonostante ciò, il sito attivo di un enzima che lega questo substrato
sarà bombardato da circa 500 000 collisioni casuali con una molecola di substrato al secondo. (Per una concentrazione di substrato dieci volte più bassa il
numero di collisioni scende a 50 000 al secondo e così via.) Un incontro casuale fra la superficie di un enzima e la superficie corrispondente del suo substrato spesso porta immediatamente alla formazione di un complesso enzima-substrato. Una reazione in cui si rompe o si forma un legame covalente
può adesso avvenire con estrema rapidità. Una volta che ci si rende conto di
quanto rapidamente le molecole si muovono e reagiscono, le velocità osservate di catalisi enzimatica non sembrano così stupefacenti.
Due molecole che sono tenute unite da legami non covalenti possono anche dissociarsi. I legami deboli multipli che formano fra loro persisteranno fino a che i movimenti termici casuali non faranno dissociare di nuovo le molecole. In generale, più forte è il legame fra enzima e substrato, più lenta è la
loro velocità di dissociazione. Tuttavia, quando due molecole che collidono
hanno superfici che non si adattano bene, si formano pochi legami non covalenti e la loro energia totale è trascurabile in confronto a quella dei movimenti termici. In questo caso le due molecole si dissociano alla stessa velocità alla quale si uniscono, impedendo che si formino associazioni non corrette e non volute fra molecole che non si adattano, come quella fra un enzima
e il substrato sbagliato.
■ Il cambiamento in energia libera di una reazione, DG,
determina se essa pu˜ avvenire spontaneamente
Sebbene gli enzimi aumentino la velocità delle reazioni non possono far sì
che avvengano reazioni energeticamente sfavorevoli. Ricorrendo a un’analogia con l’acqua, gli enzimi di per sé non possono spingere l’acqua in salita. Le
cellule, però, devono fare proprio questo per crescere e dividersi: devono costruire molecole altamente ordinate e ricche di energia da molecole piccole e
semplici.Vedremo che ciò avviene tramite enzimi che accoppiano direttamente
reazioni energeticamente favorevoli, che rilasciano energia e producono calore, a reazioni energeticamente sfavorevoli, che producono ordine biologico.
Che cosa intende un biologo cellulare con il termine “energeticamente
favorevole” e come si può quantificare? In base alla seconda legge della termodinamica l’universo tende verso il massimo disordine (maggiore entropia o
distanza finale
percorsa
Figura 2.26 Un cammino casuale.
Le molecole in soluzione si muovono
in modo casuale per i continui colpi
che ricevono nelle collisioni con
altre molecole. Questo movimento
permette alle piccole molecole di
diffondere rapidamente da una parte
all’altra della cellula, come descritto
nel testo (Filmato 2.3 ).
100 nm
Figura 2.27 La struttura
del citoplasma. Il disegno è
approssimativamente in scala
e sottolinea l’affollamento nel
citoplasma. Sono mostrate soltanto
le macromolecole: gli RNA sono
raffigurati in azzurro, i ribosomi
in verde e le proteine in rosso. Gli
enzimi e le altre macromolecole
diffondono in modo relativamente
lento nel citoplasma, in parte perché
interagiscono con molte altre
macromolecole; le piccole molecole,
invece, diffondono in modo quasi
altrettanto rapido che nell’acqua
(Filmato 2.4 ). (Adattata da
D.S. Goodsell, Trends Biochem. Sci.
16:203-206, 1991. Con il permesso di
Elsevier.)
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
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REAZIONE
ENERGETICAMENTE
FAVOREVOLE
L’energia libera
di Y è maggiore
dell’energia libera
di X. Perciò ∆G < 0
e il disordine
dell’universo
aumenta durante
la reazione Y X.
Y
X
questa reazione può avvenire
spontaneamente
REAZIONE
ENERGETICAMENTE
SFAVOREVOLE
Y
X
Se la reazione
X Y avvenisse,
∆G sarebbe > 0
e l’universo
sarebbe
più ordinato.
questa reazione può avvenire soltanto
se accoppiata a una seconda reazione
energeticamente favorevole
Figura 2.28 La distinzione
fra reazioni energeticamente
favorevoli e reazioni
energeticamente sfavorevoli.
più grande probabilità). Perciò una reazione chimica può procedere spontaneamente soltanto se porta a un aumento netto di disordine nell’universo (vedi Figura 2.16). Questo disordine dell’universo può essere espresso nel modo
più utile in termini di energia libera di un sistema, un concetto che abbiamo
già affrontato in precedenza.
L’energia libera, G, è un’espressione dell’energia disponibile a fare un lavoro, per esempio il lavoro di spinta di una reazione chimica. Il valore di G
interessa soltanto quando un sistema subisce un cambiamento, indicato con
DG (delta G). Il cambiamento in G è critico perché, come spiegato nel Quadro 2.7 (pp. 106-107), il DG è una misura diretta della quantità di disordine
creato nell’universo quando avviene una reazione. Le reazioni energeticamente favorevoli, per definizione, sono quelle che fanno diminuire l’energia libera, o, in altre parole, hanno un DG negativo e creano disordine nell’universo (Figura 2.28).
Un esempio di una reazione energeticamente favorevole su scala macroscopica è la “reazione” per cui una molla compressa si rilassa in uno stato disteso, rilasciando come calore nell’ambiente circostante la sua energia
elastica immagazzinata; un esempio su scala microscopica è lo scioglimento di un sale in acqua. Al contrario, le reazioni energeticamente sfavorevoli, con
un DG positivo – come quelle in cui due amminoacidi sono uniti insieme a
formare un legame peptidico – di per sé creano ordine nell’universo. Perciò,
queste reazioni possono avvenire soltanto se sono accoppiate a una seconda reazione con un DG negativo così grande che il DG dell’intero processo
sia negativo (Figura 2.29).
■ La concentrazione dei reagenti influenza il cambiamento
di energia libera e la direzione di una reazione
C
Y
∆G
negativo
∆G
positivo
X
D
la reazione energeticamente
sfavorevole X Y è spinta dalla
reazione energeticamente favorevole
C D, perché il cambiamento in
energia libera per la coppia di
reazioni è minore di zero
Figura 2.29 Come
l’accoppiamento di reazioni
è usato per spingere reazioni
energeticamente sfavorevoli.
Come abbiamo appena descritto, una reazione YnX andrà nella direzione
YnX quando il cambiamento associato di energia libera, DG, è negativo,
proprio come una molla in tensione lasciata a se stessa si rilasserà e perderà la
sua energia accumulata come calore disperso nell’ambiente. Per una reazione chimica, però, DG dipende non solo dall’energia conservata in ciascuna
singola molecola, ma anche dalle concentrazioni delle molecole nella miscela
di reazione. Ricordate che DG riflette il grado in cui una reazione crea uno
stato più disordinato – in altre parole più probabile – dell’universo. Riprendendo l’analogia della moneta, è molto probabile che una moneta si sposti da
testa a croce se una scatola che viene scossa contiene 90 teste e 10 croci, ma
questo è un evento meno probabile se la scatola contiene 10 teste e 90 croci.
La stessa cosa vale per una reazione chimica. Per una reazione reversibile
Y n X, un grande eccesso di Y su X tenderà a spingere la reazione nella direzione Y n X; cioè, ci sarà una tendenza per più molecole a subire la transizione Y n X di quante sono le molecole che subiscono la transizione X n Y.
Perciò il DG diventa più negativo per la transizione Y n X (e più positivo per
la transizione X n Y) man mano che aumenta il rapporto di Y su X.
Quanta sia la differenza di concentrazione necessaria per compensare una
data diminuzione in energia chimica di legame (e il corrispondente rilascio
di calore) non è intuitivamente ovvio. Alla fine del XIX secolo, la relazione fu
determinata mediante un’analisi termodinamica, che rese possibile separare
la componente dell’energia libera dipendente dalla concentrazione da quella
indipendente dalla concentrazione, come vedremo dopo.
■ Il cambiamento di energia libera standard, DG°,
rende possibile la comparazione delle proprietà
energetiche di reazioni differenti
Poiché il DG dipende dalla concentrazione delle molecole nella mistura di
reazione in qualunque tempo dato, non è un valore particolarmente utile
per comparare le energie relative di diversi tipi di reazioni. Per mettere le
reazioni in una situazione comparabile abbiamo bisogno del cambiamento di energia libera standard di una reazione, DG°. Il DG° è il cambiamento di energia libera in una condizione standard, definita come quella
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2 Chimica e bioenergetica della cellula
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condizione in cui le concentrazioni di tutti i reagenti sono fissate allo stesso
valore di 1 mole/litro. Definito in questo modo, il DG° dipende solamente
dalle caratteristiche intrinseche delle molecole che partecipano alla reazione.
Per la semplice reazione Y n X a 37 °C, DG° è correlato a DG come segue:
DG = DG° + RTln [X]
[Y]
dove DG è in kilojoule per mole, [Y] e [X] indicano le concentrazioni di Y e
di X in moli/litro, ln è il logaritmo naturale e RT è il prodotto della costante dei
gas, R, e la temperatura assoluta, T. A 37 °C, RT = 2,58 J mole–1 (una mole
sono 6 3 1023 molecole di sostanza).
È stata raccolta una grande quantità di dati termodinamici che ha permesso di determinare il cambiamento di energia libera standard DG° per le reazioni metaboliche importanti di una cellula. Dati questi valori di DG°, combinati con altre informazioni circa le concentrazioni di metaboliti e le vie di
reazione, è possibile prevedere quantitativamente il corso della maggior parte
delle reazioni biologiche.
■ La costante di equilibrio e il DG° si ottengono facilmente
lÕuno dallÕaltro
L’analisi dell’equazione riportata sopra rivela che il DG è uguale al valore di
DG° quando le concentrazioni molari di Y e di X sono uguali. Ma al procedere di ogni reazione favorevole la concentrazione del prodotto aumenta e la concentrazione del substrato diminuisce. Questo cambiamento delle
concentrazioni relative farà diventare [X]/[Y] sempre più grande, rendendo il DG inizialmente favorevole sempre meno negativo (il logaritmo di un
numero x è positivo per x > 1, negativo per x < 1 e zero per x = 1). Alla fine, quando DG = 0, si raggiungerà un equilibrio chimico, dove l’effetto di
concentrazione è esattamente pari alla spinta data alla reazione da DG°, e il
rapporto fra substrato e prodotto raggiunge, all’equilibrio chimico, un valore costante (Figura 2.30).
Possiamo definire la costante di equilibrio K per la reazione Y n X
come
[X]
K=
[Y]
dove [X] è la concentrazione del prodotto e [Y] è la concentrazione del reagente all’equilibrio. Ricordando che DG = DG° + RT ln [X]/[Y] e che DG = 0
all’equilibrio, noi vediamo che
[X]
5 –RTln K
DG° = –RT ln
[Y]
A 37 °C, dove RT = 2,58, l’equazione all’equilibrio è perciò:
DG° = –2,58 ln K
Convertendo questa equazione dal logaritmo naturale (ln) al più usato logaritmo in base 10 (log), otteniamo
DG° = –5,94 log K
Questa equazione rivela come il rapporto all’equilibrio di X e Y (espresso
come costante di equilibrio, K) dipende dalle caratteristiche intrinseche delle molecole (come espresso nel valore di DG° in kilojoules per mole). Si noti
che per ogni 5,94 kj/mole di differenza in energia libera a 37 °C, la costante
di equilibrio cambia di un fattore 10 (Tabella 2.2). Perciò più energeticamente favorevole è una reazione più prodotto si accumulerà se la reazione procede all’equilibrio.
Più in generale, per una reazione con reagenti e prodotti multipli come
A + B n C + D,
[C][D]
K5
[A][B]
Le concentrazioni dei due reagenti e dei due prodotti vengono moltiplicate perché la velocità della reazione in avanti dipende dalle collisioni di A
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2 Chimica e bioenergetica della cellula
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Figura 2.30 Equilibrio chimico.
Quando una reazione raggiunge
l’equilibrio, il flusso avanti e indietro
delle molecole che reagiscono è
uguale e opposto.
PER LA REAZIONE ENERGETICAMENTE FAVOREVOLE Y → X
Y
X
quando X e Y sono alla stessa concentrazione, [Y] = [X], la formazione
di X è energeticamente favorita. In altre parole, il ΔG di Y → X è negativo
e il ΔG di X → Y è positivo, ma a causa dei bombardamenti termici
ci sarà sempre un po’ di X che si trasformerà in Y.
PERCIÒ, PER OGNI SINGOLA MOLECOLA
Y
X
X
Y
la conversione
di Y in X avverrà
frequentemente.
La conversione di X in Y
avverrà meno frequentemente
rispetto alla transizione Y → X,
perché richiede una collisione
a più alta energia
Perciò il rapporto tra le molecole X e Y
aumenterà con il tempo
TABELLA 2.2 Relazione fra
il cambiamento di energia
libera standard, ΔG°, e la
costante di equilibrio
Costante
di
equilibrio
[X]
=K
[Y]
Energia libera
di X meno energia
libera di Y [kJ/mole
(kcal/mole)]
105
–29,7 (–7,1)
104
–23,8 (–5,7)
103
–17,8 (–4,3)
102
–11,9 (–2,8)
101
–5,9 (–1,4)
1
0 (0)
10–1
5,9 (1,4)
10–2
11,9 (2,8)
10–3
17,8 (4,3)
10–4
23,8 (5,7)
10–5
29,7 (7,1)
I valori della costante di equilibrio sono
stati calcolati per la semplice reazione
chimica Y m
n X usando l’equazione
riportata nel testo.
Il ∆G° riportato qui è in kilojoule per
mole a 37 °C con kilocalorie per mole fra
parentesi. Un kilojoule (kJ) corrisponde a
0,239 kilocalorie (kcal), (1 kcal = 4,184 kJ).
Come spiegato nel testo, ∆G° rappresenta
la differenza di energia libera in condizioni
standard (dove tutti i componenti sono
presenti a una concentrazione di 1,0 moli/
litro).
Da questa tabella vediamo che se c’è un
cambiamento favorevole di energia libera
standard ∆G° di –17,8 kJ/mole (–4,3 kcal/
mole) per la transizione Y n X, ci saranno
1000 volte più molecole nello stato X che
nello stato Y all’equilibrio (K = 1000).
ALLA FINE ci sarà un largo eccesso di X rispetto a Y, suféciente
a compensare la bassa velocità di X → Y, così che il numero di molecole di Y
che saranno convertite in X in ogni secondo sarà esattamente uguale
al numero di molecole X che saranno convertite in Y in ogni secondo.
A questo punto la reazione avrà raggiunto l’equilibrio.
Y
X
ALL’EQUILIBRIO non c’è un netto cambiamento nel rapporto tra Y e X
e il ΔG per entrambe le reazioni in avanti e indietro sarà zero.
e B e la velocità della reazione all’indietro dipende dalle collisioni di C e D.
Perciò a 37 °C:
[C][D]
DG° = –5,94 log
[A][B]
dove DG° è espresso in kilojoules per mole e [A], [B], [C] e [D] indicano le
concentrazioni dei reagenti e dei prodotti in moli/litro.
■ I cambiamenti di energia libera delle reazioni accoppiate
sono additivi
Abbiamo visto che le reazioni sfavorevoli possono essere accoppiate ad altre
favorevoli per spingere quelle sfavorevoli in avanti (vedi Figura 2.29). In termini termodinamici questo è possibile perché il cambiamento di energia libera totale per una serie di reazioni accoppiate è la somma dei cambiamenti
di energia libera in ciascuno dei passaggi che la compongono. Consideriamo,
per esempio, due reazioni sequenziali
Xn Y e YnZ
in cui i valori di DG° sono rispettivamente +5 e –13 kcal/mole. Se queste
due reazioni avvengono in sequenza, il DG° per la reazione accoppiata sarà –8
kcal/mole. Quindi la reazione non favorevole X n Y, che non avverrà spontaneamente, può essere spinta dalla reazione favorevole Y n Z, purché la seconda reazione segua la prima.
Per esempio, diverse reazioni nella lunga via che converte gli zuccheri in
CO2 e H2O hanno valori di DG° positivi ma nonostante ciò la via proce-
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
65
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de perché il DG° totale delle serie di reazioni sequenziali ha un ampio valore negativo.
Tuttavia formare una via sequenziale non è adeguato per molti scopi. Spesso la via desiderata è semplicemente X n Y, senza ulteriore conversione di
Y in qualche altro prodotto. Fortunatamente, esistono altri modi generali di
usare enzimi per accoppiare insieme reazioni. Il modo in cui questi agiscono
è l’argomento che discuteremo adesso.
■ Le molecole trasportatrici attivate sono essenziali
per la biosintesi
L’energia rilasciata dall’ossidazione delle molecole di cibo deve essere conservata temporaneamente prima di essere incanalata nella costruzione di molte
altre molecole necessarie alla cellula. Nella maggior parte dei casi, l’energia
è conservata come energia di legame chimico in una piccola serie di “molecole trasportatrici” attivate, che contengono uno o più legami covalenti ricchi di energia. Queste molecole diffondono rapidamente nella cellula e portano così la loro energia di legame dai siti di generazione di energia ai siti in
cui l’energia è usata per la biosintesi e per altre attività cellulari (Figura 2.31).
I trasportatori attivati conservano energia in una forma facilmente
intercambiabile, sia come gruppo chimico facilmente trasferibile che come
elettroni ad alta energia, e possono svolgere un doppio ruolo come fonte
di energia e di gruppi chimici nelle reazioni biosintetiche. Per ragioni storiche queste molecole sono talvolta chiamate anche coenzimi. Le molecole trasportatrici attivate più importanti sono ATP e due molecole che sono
strettamente correlate fra loro, NADH e NADPH. Le cellule usano molecole trasportatrici attivate come moneta per pagare il prezzo di reazioni che
altrimenti non avverrebbero.
■ La formazione di un trasportatore attivato è accoppiata
a una reazione energeticamente favorevole
I meccanismi di accoppiamento richiedono enzimi e sono fondamentali per
tutti gli scambi di energia della cellula. La natura di una reazione accoppiata
è illustrata da un’analogia meccanica nella Figura 2.32, in cui una reazione chimica energeticamente favorevole è rappresentata da rocce che cadono da una
scarpata. L’energia delle rocce che cadono normalmente andrebbe completamente sprecata sotto forma di calore generato dalla frizione quando la roccia
colpisce il terreno (vedi il disegno del mattone che cade nella Figura 2.17).
Con una progettazione accurata, però, parte di questa energia potrebbe esse-
ENERGIA
ENERGIA
molecola
di cibo
molecola necessaria
alla cellula
reazione
energeticamente
favorevole
reazione
energeticamente
sfavorevole
ENERGIA
molecola di cibo
ossidata
CATABOLISMO
molecola trasportatrice
attivata
molecola disponibile
nella cellula
ANABOLISMO
Figura 2.31 Trasferimento di energia e ruolo dei trasportatori attivati nel
metabolismo. Servendo da navette che portano energia, le molecole trasportatrici
attivate svolgono la loro funzione come intermediari che collegano la demolizione di
molecole di cibo e il rilascio di energia (catabolismo) alle biosintesi che richiedono energia
di piccole e grosse molecole organiche (anabolismo).
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
66
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(A)
(B)
(C)
macchine
idrauliche
calore
L’energia cinetica delle rocce che cadono
è trasformata soltanto in energia di calore.
Figura 2.32 Un modello meccanico
che illustra il principio delle
reazioni chimiche accoppiate.
La reazione spontanea mostrata in
(A) è analoga all’ossidazione diretta
di glucosio a CO2 e H2O, che produce
soltanto calore. In (B) la stessa
reazione è accoppiata a una seconda
reazione; questa seconda reazione
è analoga alla sintesi di molecole
trasportatrici attivate. L’energia
prodotta in (B) è in una forma più
utile che in (A) e può essere usata
per spingere varie reazioni altrimenti
energeticamente sfavorevoli (C).
LAVORO
UTILE
calore
Parte dell’energia cinetica è usata per sollevare
un secchio d’acqua e una quantità corrispondentemente
minore è trasformata in calore.
L’energia cinetica potenziale conservata
nel secchio d’acqua sollevato può essere
usata per spingere macchine idrauliche
che svolgono vari compiti utili.
re invece usata per far girare una ruota a pale che solleva un secchio d’acqua
(Figura 2.32B). Poiché le rocce possono adesso raggiungere il suolo soltanto dopo aver mosso la ruota a pale, diciamo che la reazione energeticamente
favorevole della caduta delle rocce è stata direttamente accoppiata alla reazione energeticamente sfavorevole del sollevamento del secchio d’acqua. Si noti che poiché parte dell’energia è usata per fare un lavoro nella Figura 2.32B,
le rocce colpiscono il terreno con velocità minore che nella Figura 2.32A e
proporzionalmente meno energia è dissipata come calore.
Nelle cellule avvengono processi simili, in cui enzimi svolgono il ruolo
della ruota a pale della nostra analogia. Mediante meccanismi che saranno
discussi più avanti in questo capitolo, essi accoppiano una reazione energeticamente favorevole, come l’ossidazione del cibo, a una reazione energeticamente sfavorevole, come la generazione di una molecola trasportatrice attivata. Come risultato, la quantità di calore rilasciato dalla reazione di ossidazione viene ridotta esattamente della quantità di energia che viene conservata nei legami covalenti ricchi di energia della molecola trasportatrice attivata. La molecola trasportatrice attivata a sua volta raccoglie un “pacchetto” di energia di dimensioni sufficienti ad alimentare una reazione chimica
altrove nella cellula.
■ L’ATP è la molecola trasportatrice attivata più usata
Il trasportatore attivato più importante e versatile nelle cellule è l’ATP (adenosina trifosfato). Proprio come l’energia conservata nel secchio d’acqua
sollevato nella Figura 2.32B può spingere una grande varietà di macchine
idrauliche, l’ATP è un deposito utile e versatile, o moneta, di energia usata per spingere varie reazioni chimiche nelle cellule. L’ATP è sintetizzato in
una reazione di fosforilazione energeticamente sfavorevole in cui un gruppo fosfato viene aggiunto ad ADP (adenosina difosfato). Quando necessario, l’ATP cede il suo pacchetto di energia tramite la sua idrolisi energeticamente favorevole ad ADP e fosfato inorganico (Figura 2.33). L’ADP rigenerato è quindi disponibile per essere usato in un altro ciclo della reazione di
fosforilazione che forma ATP.
La reazione energeticamente favorevole dell’idrolisi di ATP è accoppiata a molte reazioni altrimenti non favorevoli tramite le quali sono sintetizzate
altre molecole. Molte di esse comportano il trasferimento del fosfato terminale dell’ATP a un’altra molecola, come illustrato dalla reazione di fosforilazione nella Figura 2.34.
L’ATP è il trasportatore attivato più abbondante nelle cellule. Per esempio, è usato per fornire energia a molte delle pompe che trasportano sostanze dentro e fuori la cellula (vedi Capitolo 11). L’ATP alimenta anche i moto-
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
67
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Figura 2.33 L’idrolisi di ATP ad
legami fosfoanidride
O
_
O
_
O
_
O
_
ADENINA
P O P O P O CH2
O
O
O
ATP
RIBOSIO
H2O
O
H+
+
_
_
O
O P OH
_
+
O
O
_
O
_
ADENINA
P O P O CH2
O
O
ADP
fosfato
inorganico (Pi)
RIBOSIO
ADP e fosfato inorganico. I due
fosfati più esterni dell’ATP sono legati
al resto della molecola da legami
fosfoanidride ad alta energia e sono
prontamente trasferiti. Come indicato,
si può aggiungere acqua ad ATP per
formare ADP e fosfato inorganico (Pi).
Questa idrolisi del fosfato terminale
dell’ATP produce da 46 a 54 kJ/mole
di energia utilizzabile, a seconda
delle condizioni intracellulari. Il
∆G largamente negativo di questa
reazione deriva da numerosi fattori: il
rilascio del gruppo fosfato terminale
elimina una repulsione sfavorevole
fra cariche negative adiacenti, e lo
ione fosfato inorganico (Pi) rilasciato
è stabilizzato per risonanza e dalla
formazione favorevole di legami
idrogeno con l’acqua.
ri molecolari che permettono alle cellule muscolari di contrarsi e alle cellule
nervose di trasportare materiali da un’estremità all’altra dei loro lunghi assoni (vedi Capitolo 16).
■ L’energia conservata nell’ATP è spesso imbrigliata per unire
due molecole
Abbiamo discusso in precedenza un modo in cui una reazione energeticamente favorevole può essere accoppiata a una reazione energeticamente sfavorevole, X n Y, in modo da permetterle di avvenire. In quello schema un secondo
enzima catalizza la reazione energeticamente favorevole Y n Z convertendo
tutte le molecole di X in molecole di Y nel processo. Ma quando il prodotto
richiesto è Y e non Z, questo meccanismo non è utile.
Una tipica reazione biosintetica è quella in cui due molecole, A e B, sono unite per produrre A–B nella reazione di condensazione energeticamente
sfavorevole
A–H + B–OH n A–B + H2O
C’è una via indiretta che permette ad A–H e B–OH di formare A–B, in
cui un accoppiamento all’idrolisi di ATP fa procedere la reazione. Qui l’energia dell’idrolisi dell’ATP viene prima usata per convertire B–OH in un composto intermedio a energia maggiore, che quindi reagisce direttamente con
il gruppo
ossidrilico
di un’altra
molecola
O
_
O
HO C C
_
O
_
O
_
ADENINA
P O P O P O CH2
O
O
O
ATP
RIBOSIO
legame
fosfoanidridico
Figura 2.34 Un esempio di
ΔG < 0
O
_
_
O P O C C
O
legame
fosfoesterico
O
_
+ O
_
O
TRASFERIMENTO DI FOSFATO
_
ADENINA
P O P O CH2
O
O
ADP
RIBOSIO
una reazione di trasferimento
di fosfato. Poiché un legame
fosfoanidridico ricco di energia
dell’ATP è convertito in un legame
fosfoesterico, la reazione è
energeticamente favorevole, avendo
un ∆G nettamente negativo. Reazioni
di questo tipo sono coinvolte nella
sintesi dei fosfolipidi e nei passaggi
iniziali delle reazioni che catabolizzano
zuccheri.
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
68
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(B)
P
O
O
C
CH2
CH2
H3N+
CH
COO–
intermedio ad alta energia
(A)
P
ATP
O
PASSAGGIO
DI ATTIVAZIONE
B
ADP
PASSAGGIO
DI ATTIVAZIONE
B
OH
Pi
prodotti
di idrolisi dell’ATP
Figura 2.35 Un esempio di
una reazione biosintetica
energeticamente sfavorevole
spinta dall’idrolisi dell’ATP.
(A) Illustrazione schematica della
formazione di A–B nella reazione di
condensazione descritta nel testo.
(B) La biosintesi dell’amminoacido
comune glutammina da acido
glutammico e ammoniaca. L’acido
glutammico viene prima convertito
in un intermedio fosforilato ad alta
energia (corrispondente al composto
B–O–PO3 descritto nel testo), che
quindi reagisce con ammoniaca
(corrispondente ad A–H) per formare
glutammina. In questo esempio
entrambi i passaggi avvengono
sulla superficie dello stesso enzima,
la glutammina sintetasi. I legami ad
alta energia sono ombreggiati in
rosso; qui, come altrove nel libro,
il simbolo Pi = HPO42– e una P in un
cerchio giallo =PO32–.
A
O
CH2
H3N
+
CH
NH2
C
CH2
–
COO
acido glutammico
B
PASSAGGIO DI
CONDENSAZIONE
CH2
PASSAGGIO DI
CONDENSAZIONE
A
Pi
prodotti
di idrolisi dell’ATP
C
H
ATP
ADP
OH
O
intermedio ad alta energia
NH3
ammoniaca
CH2
H3N+
CH
COO–
glutammina
A–H per dare A–B. Il meccanismo più semplice possibile comporta il trasferimento di un fosfato da ATP a B–OH per produrre B–O–PO3, nel qual caso la via di reazione contiene soltanto due passaggi:
1. B–OH + ATP n B–O–PO3 + ADP
2. A–H + B–O–PO3 n A–B + Pi
Risultato netto: B–OH + ATP + A–H n A–B + ADP + Pi
La reazione di condensazione, che di per sé è energeticamente sfavorevole,
viene forzata dal fatto di essere direttamente accoppiata all’idrolisi di ATP in
una via di reazione catalizzata da enzimi (Figura 2.35A).
Una reazione biosintetica esattamente di questo tipo è usata per sintetizzare l’amminoacido glutammina, come illustrato nella Figura 2.35B. Vedremo fra poco che meccanismi molto simili (ma più complessi) sono usati anche per produrre quasi tutte le grosse molecole della cellula.
■ NADH e NADPH sono importanti trasportatori di elettroni
Altri importanti trasportatori attivati partecipano alle reazioni di ossidazione-riduzione e fanno comunemente parte delle reazioni accoppiate nelle
cellule. Questi trasportatori attivati sono specializzati nel portare elettroni tenuti a un alto livello di energia (talvolta chiamati elettroni “ad alta energia”)
e atomi di idrogeno. I più importanti di questi trasportatori di elettroni sono NAD+ (nicotinammide adenina dinucleotide) e la molecola strettamente
correlata NADP+ (nicotinammide adenina dinucleotide fosfato). NAD+ e
NADP+ raccolgono un “pacchetto di energia” che corrisponde a due elettroni ad alta energia più un protone (H+), convertendosi in NADH (nicotinammide adenina dinucleotide ridotto) e NADPH (nicotinammide adenina dinucleotide fosfato ridotto) rispettivamente (Figura 2.36). Queste molecole possono perciò essere considerate anche trasportatori di ioni idruro
(H+ più due elettroni, o H–).
Come l’ATP, il NADPH è un trasportatore attivato che partecipa a molte
reazioni biosintetiche importanti che altrimenti sarebbero energeticamente
sfavorevoli. Il NADPH è prodotto secondo lo schema generale mostrato nella
Figura 2.36A. Durante una serie speciale di reazioni cataboliche che producono energia due elettroni vengono rimossi dalla molecola di substrato. Entrambi gli elettroni ma solamente un protone (cioè uno ione idruro, H–) sono
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2 Chimica e bioenergetica della cellula
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(A)
H
C
OH
NADP+
C
O
NADPH
C
H
C
C
+
C
+H
ossidazione
della molecola 1
(B)
H
riduzione
della molecola 2
(C)
NADP+
H
O
forma ridotta
H
+
N
C
NH2
N
O
P
RIBOSIO
RIBOSIO
H–
ADENINA
P
O
NH2
O
ADENINA
P
O
H
C
anello
nicotinammidico
P
NADPH
forma ossidata
O
RIBOSIO
RIBOSIO
O
O
P
P
questo gruppo fosfato
+
manca nel NAD e nel NADH
aggiunti all’anello di nicotinammide del NADP+ per formare NADPH; il secondo protone (H+) è rilasciato in soluzione. Questa è una tipica reazione di
ossido-riduzione; il substrato è ossidato e il NADP+ è ridotto.
Il NADPH cede prontamente lo ione idruro in una successiva reazione
di ossido-riduzione, perché senza di esso l’anello di nicotinammide può raggiungere una disposizione di elettroni più stabile. In questa reazione successiva, che rigenera NADP+, è il NADPH che diventa ossidato e il substrato che
diventa ridotto. Il NADPH è un donatore efficace del suo ione idruro ad altre molecole per la stessa ragione per cui l’ATP trasferisce prontamente un
fosfato: in entrambi i casi il trasferimento è accompagnato da un grande cambiamento negativo in energia libera. Un esempio dell’uso del NADPH nelle
biosintesi è mostrato nella Figura 2.37.
Il gruppo fosfato aggiuntivo del NADPH non ha effetto sulle proprietà
di trasferimento di elettroni del NADPH rispetto al NADH, in quanto si
trova lontano dalla regione coinvolta nel trasferimento di elettroni (vedi Figura 2.36C). Tuttavia conferisce alla molecola del NADPH una forma leggermente diversa da quella del NADH, rendendo possibile il legame di
NADPH e NADH come substrati a serie diverse di enzimi. Così i due tipi
di trasportatori sono usati per trasferire elettroni (o ioni idruro) fra due serie diverse di molecole.
Perché dovrebbe esserci questa divisione del lavoro? La risposta sta nella
necessità di regolare due serie di reazioni di trasferimento di elettroni in modo indipendente. Il NADPH opera principalmente con enzimi che catalizzano reazioni anaboliche, fornendo gli elettroni ad alta energia necessari per
sintetizzare molecole biologiche ricche di energia. Il NADH, invece, ha un
ruolo speciale come intermedio nel sistema catabolico di reazioni che gene-
Figura 2.36 Il NADPH, un
importante trasportatore di
elettroni. (A) Il NADPH è prodotto in
reazioni del tipo generale mostrato
sulla sinistra, in cui due atomi
di idrogeno sono rimossi da un
substrato. La forma ossidata della
molecola trasportatrice, NADP+, riceve
un atomo di idrogeno più un elettrone
(uno ione idruro), e il protone (H+)
dall’altro atomo di H è rilasciato in
soluzione. Poiché il NADPH trattiene
il suo ione idruro in un legame ad
alta energia, lo ione idruro aggiunto
può essere trasferito facilmente
ad altre molecole, come mostrato
sulla destra. (B) e (C) La struttura del
NADP+ e del NADPH. La parte della
molecola di NADP+ nota come anello
nicotinammidico accetta lo ione
idruro, H– formando NADPH. NAD+ e
NADH hanno una struttura identica
a NADP+ e NADPH rispettivamente,
eccetto che il gruppo fosfato indicato
è assente in entrambi.
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
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Figura 2.37 NADPH come agente
riducente. (A) Il passaggio finale
nella via biosintetica che porta al
colesterolo. Come in molte altre
reazioni biosintetiche, la riduzione
del legame CPC viene ottenuta
per trasferimento di uno ione idruro
dalla molecola trasportatrice NADPH,
più un protone (H+) dalla soluzione.
(B) Tenendo i livelli di NADPH alti e
i livelli di NADH bassi si alterano le
loro affinità per gli elettroni (vedi
Quadro 14.1 p. 816). Questo fa sì che
il NADPH sia un donatore di elettroni
(agente riducente) molto più forte
del NADH e che il NAD+ sia quindi un
migliore accettore di elettroni (agente
ossidante) rispetto al NADP+, come
indicato.
agente ossidante
per il catabolismo
7-deidrocolesterolo
NAD+
NADH
C
NADP+
NADPH
C
HO
H
(B)
agente riducente
per l’anabolismo
NADPH + H+
NADP+
C
HO
C
H
H
H
colesterolo
(A)
rano ATP tramite l’ossidazione di molecole di cibo, come vedremo fra breve.
La genesi di NADH da NAD+ e quella di NADPH da NADP+ avviene per
vie diverse ed è regolata in modo indipendente, così che la cellula può regolare
in modo indipendente la scorta di elettroni per questi due scopi contrastanti.
Dentro la cellula il rapporto fra NAD+ e NADH è mantenuto alto, mentre il
rapporto fra NADP+ e NADPH è mantenuto basso. Ciò fornisce sufficiente
NAD+ perché agisca da agente ossidante e sufficiente NADPH perché agisca
da agente riducente (Figura 2.37B), come richiesto dai loro specifici ruoli rispettivamente nel catabolismo e nell’anabolismo.
■ Nelle cellule ci sono molte altre molecole trasportatrici
attivate
Anche altri trasportatori attivati raccolgono e portano un gruppo chimico in
un legame ad alta energia facilmente trasferibile. Per esempio, il coenzima A
porta un gruppo acetilico in un legame facilmente trasferibile e in questa forma attivata è noto come acetil CoA (acetil coenzima A). L’acetil CoA (Figura 2.38) è usato per aggiungere unità a due atomi di carbonio nella biosintesi
di molecole più grandi.
Nell’acetil CoA e nelle altre molecole trasportatrici il gruppo trasferibile
costituisce soltanto una piccola parte della molecola. Il resto consiste di una
grossa porzione organica che funge da pratica “maniglia”, che facilita il riconoscimento della molecola trasportatrice da parte di enzimi specifici. Come
per l’acetil CoA, questa maniglia molto spesso contiene un nucleotide (generalmente adenosina difosfato), un fatto curioso che può essere una traccia di
uno stadio iniziale dell’evoluzione. Oggi si pensa che i catalizzatori principali
delle forme di vita primitive – prima di DNA o proteine – fossero molecole
di RNA (o loro parenti stretti), come descritto nel Capitolo 6. Si è tentati di
ipotizzare che molte delle molecole trasportatrici che troviamo oggi si siano
originate in questo mondo primitivo a RNA, dove le loro porzioni nucleotidiche potrebbero essere state utili per il legame con enzimi a RNA (ribozimi).
Quindi, l’ATP trasferisce il fosfato, il NADPH trasferisce elettroni e idrogeno e l’acetil CoA trasferisce gruppi acetilici con due atomi di carbonio. Il
FADH2 (flavina adenina dinucleotide ridotto) è usato come il NADH nel trasferimento di elettroni e protoni (Figura 2.39). Le reazioni di altre molecole
trasportatrici attivate coinvolgono i trasferimenti di gruppi metilici, carbossilici o glucosio per le biosintesi (Tabella 2.3). Questi trasportatori attivati sono
generati in reazioni che sono accoppiate all’idrolisi di ATP, come nell’esempio
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
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Figura 2.38 La struttura
dell’importante molecola
trasportatrice attivata acetil
CoA. Sopra la struttura è mostrato
un modello a palle e bastoncini.
L’atomo di zolfo (giallo) forma un
legame tioestere con l’acetato. Poiché
questo è un legame ad alta energia,
che rilascia una grande quantità di
energia libera quando è idrolizzato,
la molecola di acetato può essere
prontamente trasferita ad altre
molecole.
gruppo
acetilico
nucleotide
ADENINA
H3C
H H
O H H
O H
C S C C N C C C N C C
O
H H H
H H H
CH3 H
C
O
O
C O P O P O CH2
O–
O–
OH CH3 H
legame
ad alta energia
RIBOSIO
–O
gruppo
acetilico
coenzima A
(CoA)
FADH2
(A)
CH3
CH3
H
O
N
C
C
C
+
(B)
H
C
C
O
P O
O–
C
C
C
H
FAD
–
2e
FADH2
NH
C
C
N
N
CH2
H
H
C
OH
H
C
OH
H
C
OH
H2C O
2H
O
Figura 2.39 FADH2 è un
P P O CH2 ADENINA
trasportatore di idrogeno
di elettroni ad alta energia,
come NADH e NADPH.
(A) Struttura del FADH2 con i suoi
atomi trasportatori di idrogeno
evidenziati in giallo. (B) La
formazione del FADH2 a partire
dal FAD.
RIBOSIO
TABELLA 2.3 Alcune molecole trasportatrici attivate ampiamente usate
nel metabolismo
Trasportatore attivato
Gruppo trasportato in un legame ad alta energia
ATP
Fosfato
NADH, NADPH, FADH2
Elettroni e atomi di idrogeno
Acetil CoA
Gruppo acetilico
Biotina carbossilata
Gruppo carbossilico
S-Adenosilmetionina
Gruppo metilico
Uridina difosfato glucosio
Glucosio
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
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ATTIVAZIONE DEL GRUPPO CARBOSSILICO
biotina
carbossilata
O
C
legame ad
alta energia
N
ADP
P P
–
O
O
O
S
ADENINA
CH2
N
H
CH3
O
RIBOSIO
C O
ENZIMA
C
ATP
P P P
O
CH2
O
ADENINA
Pi
–
O
piruvato
RIBOSIO
biotina
–
O
O
S
C
OH
bicarbonato
H
N
O
CH2
C O
O
piruvato carbossilasi
–
C
O
N
H
ENZIMA
O
C
O
O–
ossalacetato
TRASFERIMENTO DEL GRUPPO CARBOSSILICO
Figura 2.40 Una reazione di
trasferimento di un gruppo
carbossilico usando una molecola
trasportatrice attivata. La biotina
carbossilata è usata dall’enzima
piruvato carbossilasi per trasferire un
gruppo carbossilico nella produzione
di ossalacetato, una molecola
necessaria per il ciclo dell’acido citrico.
L’accettore di questo trasferimento
di gruppo è il piruvato. Altri enzimi
usano biotina per trasferire gruppi
carbossilici ad altre molecole. Si noti
che la sintesi di biotina carbossilata
richiede energia che è derivata da ATP,
una caratteristica generale di molti
trasportatori attivati.
nella Figura 2.40. Perciò l’energia consente ai loro gruppi di essere usati per le
biosintesi deriva, alla fine, dalle reazioni cataboliche che generano ATP. Processi simili avvengono nella sintesi delle grandi molecole della cellula – gli acidi
nucleici, le proteine e i polisaccaridi – che discuteremo adesso.
■ La sintesi dei polimeri biologici richiede idrolisi di ATP
Come discusso in precedenza, le macromolecole della cellula rappresentano
la grande maggioranza della sua massa secca (vedi Figura 2.7). Queste molecole sono composte da subunità (o monomeri) unite insieme in una reazione di condensazione, in cui i costituenti di una molecola d’acqua (OH più H)
sono rimossi dai due reagenti. Di conseguenza, la reazione inversa – la demolizione di tutti e tre i tipi di polimeri – avviene per l’aggiunta di acqua
catalizzata da enzimi (idrolisi). Questa reazione di idrolisi è energeticamente
favorevole, mentre le reazioni biosintetiche richiedono un apporto di energia (vedi Figura 2.9).
Gli acidi nucleici (DNA e RNA), le proteine e i polisaccaridi sono tutti polimeri prodotti dall’aggiunta ripetuta di una subunità (chiamata anche
monomero) a una estremità di una catena in crescita. Le reazioni di sintesi per
questi tre tipi di macromolecole sono riportate nella Figura 2.41. Come indicato, il passaggio di condensazione in ciascun caso dipende da energia derivata dall’idrolisi di un nucleoside trifosfato. Eppure, eccetto che per gli acidi
nucleici, non ci sono gruppi residui di fosfato nei prodotti finali. In che modo le reazioni che rilasciano l’energia di idrolisi dell’ATP sono accoppiate alla sintesi dei polimeri?
Per ciascun tipo di macromolecola esiste una via catalizzata da enzimi che
assomiglia a quella esaminata in precedenza per la sintesi dell’amminoacido
glutammina (vedi Figura 2.35). Il principio è esattamente lo stesso, in quanto
il gruppo -OH che sarà rimosso nella reazione di condensazione viene prima
attivato coinvolgendolo in un legame ad alta energia con una seconda molecola. Tuttavia i meccanismi effettivi usati per collegare l’idrolisi di ATP alla
sintesi di proteine e polisaccaridi sono più complessi di quello usato per la sintesi della glutammina, poiché è necessaria una serie di intermedi ad alta energia per generare il legame finale ad alta energia che viene spezzato durante il
passaggio di condensazione (vedi Capitolo 6 a proposito della sintesi proteica).
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
73
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(B) ACIDI NUCLEICI
(A) POLISACCARIDI
glucosio
glicogeno
CH2OH
O
CH2OH
O
CH2OH
O
OH
OH
OH
OH
HO
O
CH2
O
HO
CH2OH
O
OH
O
CH2OH
O
OH
O
CH2
C
O
OH
H2O
OH
OH
energia da idrolisi
di un nucleoside
trifosfato
OH
O
(C) PROTEINE
proteina
C
C
R
N
C
H
H
H
H
O
N
C
OH
H
C
R
C
C
R
_
CH2
O
G
O
C
nucleotide
CH2
O
G
OH
OH
RNA
OH
OH
energia da idrolisi
di un nucleoside trifosfato
H2 O
O
O
P
O
O
OH
H
O
_
P
OH
O
O
amminoacido
R
C
O
O
OH
O
_
O
glicogeno
H
O
P
O
CH2
O
OH
O
P
OH
O
_
OH
O
HO
OH
O
RNA
CH2OH
O
A
O
OH
energia originariamente derivata
da idrolisi di un nucleoside trifosfato
H2 O
CH2
A
O
O
OH
OH
O
R
O
N
C
C
H
H
H
N
C
H
R
O
C
OH
proteina
Figura 2.41 La sintesi di polisaccaridi, proteine e acidi
nucleici. La sintesi di ciascun tipo di polimero biologico
comporta la perdita di acqua in una reazione di condensazione.
Non è mostrato il consumo di nucleosidi trifosfato ad alta
energia richiesto per attivare ciascun monomero prima della
sua aggiunta. La reazione inversa – la demolizione di tutti i tre
tipi di polimeri – avviene invece per semplice aggiunta di acqua
(idrolisi).
Ci sono dei limiti a quello che ciascun trasportatore attivato può fare per
spingere le biosintesi. Il DG per l’idrolisi di ATP a ADP e fosfato inorganico
(Pi) dipende dalle concentrazioni di tutti i reagenti, ma nelle condizioni tipiche di una cellula è fra –46 e –54 kJ/mole. In linea di principio questa reazione di idrolisi può essere usata per spingere una reazione sfavorevole con un
DG di circa +40 kJ/mole, purché sia disponibile una via di reazione adatta.
Per alcune reazioni biosintetiche, però, anche –50 kJ/mole possono non essere sufficienti. In questi casi la via dell’idrolisi dell’ATP può essere alterata così
che inizialmente produce AMP e pirofosfato (PPi), che viene poi idrolizzato
in un passaggio successivo (Figura 2.42). L’intero processo rende disponibile
un cambiamento totale in energia libera di circa –100 kJ/mole. Una reazione biosintetica importante che viene spinta in questo modo è la sintesi degli
acidi nucleici (polinucleotidi) dai nucleosidi trifosfato, come illustrato nella
parte destra della Figura 2.43.
È interessante notare che le reazioni ripetitive di condensazione che producono macromolecole possono essere orientate in due modi diversi, dando
origine alla polimerizzazione di testa o alla polimerizzazione di coda dei mo-
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
74
Figura 2.42 Una via alternativa
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(A)
per l’idrolisi di ATP, in cui il
pirofosfato prima si forma e
poi viene idrolizzato. Questa via
rilascia quasi il doppio dell’energia
libera (approssimativamente –100kJ/
mole) della reazione mostrata in
precedenza nella Figura 2.33 e forma
AMP invece di ADP. (A) Nelle due
successive reazioni di idrolisi gli atomi
di ossigeno delle molecole d’acqua
che partecipano sono trattenuti nei
prodotti, come indicato, mentre
gli atomi di idrogeno si dissociano
formando ioni idrogeno liberi (H+, non
mostrati). (B) Schema sintetico della
reazione totale.
(B)
O
O
O
ADENINA
_
ATP
O P O P O P O CH2
_
_
O
_
O
O
RIBOSIO
H2O
adenosina trifosfato (ATP)
H2O
O
O
O
_
O P O P O
O
_
_
+
ADENINA
_
O P O CH2
+
P Pi
_
_
AMP
O
O
RIBOSIO
pirofosfato
H2O
adenosina monofosfato (AMP)
H2O
O
O
_
O P OH
+
_
O P OH
_
_
O
O
fosfato
fosfato
+
Pi
Pi
nomeri. Nella cosiddetta polimerizzazione di testa il legame reattivo necessario
per la reazione di condensazione è portato sull’estremità del polimero in crescita e deve perciò essere rigenerato ogni volta che viene aggiunto un monomero. In questo caso ciascun monomero porta il legame reattivo che sarà usato per aggiungere il monomero successivo della serie. Nella polimerizzazione di
coda il legame reattivo portato da ciascun monomero viene invece usato immediatamente per la sua aggiunta (Figura 2.44).
Vedremo nei capitoli successivi che vengono usati entrambi i tipi di polimerizzazione. La sintesi dei polinucleotidi e di alcuni polisaccaridi semplici, per esempio, avviene per polimerizzazione di coda, mentre la sintesi delle
proteine avviene per un processo di polimerizzazione di testa.
base
3
P P P
O
zucchero
base
1
OH
P O
intermedio ad alta energia
Figura 2.43 La sintesi di un
polinucleotide, RNA o DNA, è
un processo in molti passaggi
spinto dall’idrolisi di ATP. Nel
primo passaggio un nucleoside
monofosfato è attivato mediante
trasferimento sequenziale dei gruppi
fosfato terminali a partire da due
molecole di ATP. L’intermedio ad alta
energia che si forma – un nucleoside
trifosfato – si trova libero in soluzione
finché reagisce con l’estremità in
crescita di una catena di RNA o di
DNA con rilascio di pirofosfato.
L’idrolisi di quest’ultimo a fosfato
inorganico è altamente favorevole
e aiuta a spingere la reazione totale
nella direzione della sintesi del
polinucleotide. Per dettagli vedi il
Capitolo 5.
zucchero
2 ATP
base
2
P O
P Pi
zucchero
H2O
base
3
P
2 ADP
OH
O
zucchero
OH
nucleoside
monofosfato
catena
polinucleotidica
contenente
due nucleotidi
2 Pi
base
1
prodotti di idrolisi
dell’ATP
P O
zucchero
base
2
P O
zucchero
catena polinucleotidica
contenente tre nucleotidi
base
3
P O
zucchero
OH
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
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POLIMERIZZAZIONE DI TESTA
(ad esempio, PROTEINE, ACIDI GRASSI)
6
6
+
7
POLIMERIZZAZIONE DI CODA (ad esempio, DNA, RNA, POLISACCARIDI)
ciascun monomero porta un legame
ad alta energia che sarà usato
per l’aggiunta del monomero successivo
7
+
1
7
7
ciascun monomero porta
un legame ad alta energia
per la propria aggiunta
1
SOMMARIO Le cellule viventi, per sopravvivere e crescere, devono creare ordine
al loro interno e mantenerlo. Ciò è termodinamicamente possibile soltanto grazie
a un continuo apporto di energia, parte della quale deve essere rilasciata dalle
cellule all’ambiente come calore che aumenta il disordine di ciò che le circonda. Le
uniche reazioni chimiche possibili sono quelle che aumentano la quantità totale di
disordine nell’universo. Il cambiamento di energia libera di una reazione, DG, misura
questo disordine e deve essere minore di zero affinché una reazione possa procedere
spontaneamente. Questo DG dipende sia dalle proprietà intrinseche dei reagenti sia
dalle loro concentrazioni e può essere calcolato a partire da queste concentrazioni
se si conoscono la costante all’equilibrio della reazione (K) o il suo cambiamento di
energia libera standard DG°.
L’energia necessaria alla vita deriva in ultima istanza dalle radiazioni elettromagnetiche
del sole, che alimentano la formazione di molecole organiche negli organismi
fotosintetici come le piante verdi. Gli animali ricavano la loro energia ingerendo
queste molecole organiche e ossidandole in una serie di reazioni catalizzate da enzimi
accoppiate alla formazione di ATP, una “moneta” comune di energia in tutte le cellule.
Per rendere possibile la continua generazione di ordine nelle cellule l’idrolisi
energeticamente favorevole di ATP è accoppiata a reazioni energeticamente
sfavorevoli. Nella biosintesi delle macromolecole l’ATP è usato per formare intermedi
reattivi fosforilati. Poiché la reazione energeticamente sfavorevole diventa adesso
energeticamente favorevole, si dice che l’idrolisi di ATP spinge la reazione. Le
molecole polimeriche come proteine, acidi nucleici e polisaccaridi sono assemblate
a partire da piccoli precursori attivati mediante reazioni ripetitive di condensazione
che sono spinte in questo modo. Altre molecole reattive, chiamate trasportatori attivi
o coenzimi, trasferiscono altri gruppi chimici nel corso della biosintesi: il NADPH
trasferisce idrogeno in forma di un protone più due elettroni (uno ione idruro), per
esempio, mentre l’acetil CoA trasferisce un gruppo acetilico. ●
Il modo in cui le cellule ottengono energia
dal cibo
L’apporto costante di energia necessario alle cellule per generare e mantenere l’ordine biologico che consente loro di vivere deriva dall’energia chimica
di legame nelle molecole di cibo.
Le proteine, i lipidi e i polisaccaridi che compongono la maggior parte del
cibo che mangiamo devono essere demoliti in molecole più piccole prima che
le nostre cellule possano usarli, sia come fonte di energia che come unità da
costruzione per altre molecole. La digestione enzimatica demolisce le grandi
molecole polimeriche del cibo nelle loro subunità monomeriche: le proteine
in amminoacidi, i polisaccaridi in zuccheri, i grassi in acidi grassi e glicerolo.
Dopo la digestione le piccole molecole organiche derivate dal cibo entrano
nel citosol delle cellule, dove inizia la loro graduale ossidazione.
Gli zuccheri sono molecole combustibili particolarmente importanti e sono ossidati in piccoli passaggi controllati ad anidride carbonica (CO2) e acqua
(Figura 2.45). In questa sezione delineeremo le fasi principali della demolizione, o catabolismo, degli zuccheri e mostreremo come questi producano ATP,
Figura 2.44 L’orientamento degli
intermedi attivi nelle reazioni
di condensazione ripetitive che
formano i polimeri biologici.
La crescita di testa dei polimeri è
confrontata con la crescita alternativa
di coda. Come indicato, questi due
meccanismi sono usati per produrre
tipi diversi di macromolecole
biologiche.
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
76
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(A) COMBUSTIONE DIRETTA DI UNO ZUCCHERO
IN UN SISTEMA NON VIVENTE
(B) OSSIDAZIONE IN PIÙ PASSAGGI
DI UNO ZUCCHERO IN UNA CELLULA
grande energia
di attivazione
superata dal calore
di un fuoco
ZUCCHERO + O2
energia libera
ZUCCHERO + O2
piccole energie di attivazione
superate da enzimi che agiscono
alla temperatura corporea
tutta l’energia
libera è rilasciata
come calore;
nessuna
è conservata
CO2 + H2O
Figura 2.45 Rappresentazione
schematica dell’ossidazione
controllata in più passaggi di
uno zucchero in una cellula,
confrontata con la combustione
ordinaria. (A) Se lo zucchero fosse
invece ossidato a CO2 e H2O in un
singolo passaggio rilascerebbe una
quantità di energia molto più grande
di quella che potrebbe essere catturata
per scopi utili. (B) Nella cellula, gli
enzimi catalizzano l’ossidazione in
una serie di piccoli passaggi in cui
l’energia libera è trasferita in pacchetti
di dimensioni utili a molecole
trasportatrici, più spesso ATP e NADH.
In ciascun passaggio un enzima
controlla la reazione riducendo la
barriera di energia di attivazione che
deve essere superata prima che la
reazione specifica possa avvenire.
L’energia libera totale rilasciata è
esattamente la stessa in (A) e in (B).
molecole
trasportatrici
attivate
conservano
energia
CO2 + H2O
NADH e altre molecole trasportatrici attivate nelle cellule animali. Una via
molto simile opera anche nei vegetali, nei funghi e in molti batteri. Come vedremo, l’ossidazione degli acidi grassi è ugualmente importante per le cellule.
Altre molecole, come le proteine, possono anch’esse servire da fonte di energia quando sono incanalate in vie enzimatiche appropriate.
■ La glicolisi è una via centrale che produce ATP
Il processo più importante della demolizione degli zuccheri è la sequenza
di reazioni nota come glicolisi (dal greco glycos, “zucchero”, e lysis, “rottura”). La glicolisi produce ATP senza il coinvolgimento di ossigeno molecolare
(O2 gassoso). Avviene nel citosol della maggior parte delle cellule, compresi
molti microrganismi anaerobi. La glicolisi si è probabilmente evoluta precocemente nella storia della vita, prima che le attività degli organismi fotosintetici introducessero ossigeno nell’atmosfera. Durante la glicolisi una molecola
di glucosio con sei atomi di carbonio è convertita in due molecole di piruvato, ciascuna delle quali contiene tre atomi di carbonio. Per ciascuna molecola di glucosio due molecole di ATP vengono idrolizzate per fornire l’energia
necessaria per spingere i passaggi iniziali, ma quattro molecole di ATP sono
prodotte nei passaggi successivi. Alla fine della glicolisi c’è di conseguenza un
guadagno netto di due molecole di ATP per ciascuna molecola di glucosio demolita. Sono prodotte anche due molecole del trasportatore attivato NADH.
La via glicolitica è presentata schematicamente nella Figura 2.46 e con maggiori dettagli nel Quadro 2.8 (pp. 108-109) e Filmato 2.5 . La glicolisi consta
di una sequenza di 10 reazioni separate, ciascuna delle quali produce uno zucchero intermedio diverso ed è catalizzata da un enzima diverso. Come la maggior parte degli enzimi, questi hanno tutti nomi che terminano in -asi – come isomerasi e deidrogenasi – che indicano il tipo di reazione che catalizzano.
Sebbene nella glicolisi non sia coinvolto ossigeno molecolare, si ha ossidazione, in quanto vengono rimossi elettroni a opera del NAD+ (producendo
NADH) da alcuni dei carboni derivati dalla molecola di glucosio. Il fatto che
il processo avvenga in più passaggi permette all’energia di ossidazione di essere rilasciata in piccoli “pacchetti”, così che molta di essa può essere conservata
in molecole trasportatrici attivate invece di essere tutta rilasciata come calore
(vedi Figura 2.45). Così una parte dell’energia rilasciata dall’ossidazione spinge la sintesi diretta di molecole di ATP da ADP e Pi e una parte resta con gli
elettroni nel trasportatore di elettroni ad alta energia NADH.
Per ogni molecola di glucosio si formano due molecole di NADH nel corso della glicolisi. Negli organismi aerobi queste molecole di NADH donano i
loro elettroni alla catena di trasporto degli elettroni descritta nel Capitolo 14
e il NAD+ formato dal NADH viene usato di nuovo per la glicolisi (vedi il
passaggio 6 nel Quadro 2.8 pp. 108-109).
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
77
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Figura 2.46 Uno schema della
CH2OH
O
una molecola
di glucosio
OH
HO
OH
investimento
di energia
che verrà
recuperato
più tardi
OH
ATP
PASSAGGIO 1
PASSAGGIO 2
ATP
PASSAGGIO 3
P OH2C
CH2O P
O
fruttosio
1,6 bifosfato
HO
OH
OH
PASSAGGIO 4
PASSAGGIO 5
due molecole
di gliceraldeide
3-fosfato
CHO
CHO
CHOH
CHOH
CH2O P
CH2O P
NADH
PASSAGGIO 6
NADH
ATP
PASSAGGIO 7
ATP
taglio di uno
zucchero
a sei carboni
in due zuccheri
a tre carboni
PASSAGGIO 8
PASSAGGIO 9
PASSAGGIO 10
ATP
COO–
due molecole
di piruvato
generazione
di energia
C
CH3
O
ATP
COO–
C
O
CH3
■ Le fermentazioni producono ATP in assenza di ossigeno
Per la maggior parte delle cellule animali e vegetali la glicolisi è soltanto un
preludio allo stadio finale della demolizione delle molecole di cibo. In queste
cellule il piruvato formato nella glicolisi viene rapidamente trasportato nei
mitocondri, dove è convertito in CO2 più acetil CoA, che viene poi ossidato
completamente a CO2 e H2O.
Per molti organismi anaerobi – che non utilizzano ossigeno molecolare e
possono crescere e dividersi senza di esso – la glicolisi è invece la fonte principale dell’ATP cellulare. Ciò vale anche per certi tessuti animali, come il muscolo scheletrico, che continuano a funzionare quando l’ossigeno molecolare è
scarso. In queste condizioni anaerobiche il piruvato e gli elettroni del NADH
si trovano nel citosol. Il piruvato è convertito in prodotti escreti dalla cellula,
per esempio in etanolo e CO2 nei lieviti usati per fare birra e pane, o in lattato nei muscoli. In questo processo il NADH cede i suoi elettroni ed è convertito di nuovo in NAD+. Questa rigenerazione del NAD+ è necessaria per
mantenere le reazioni della glicolisi (Figura 2.47).
Vie che producono energia di questo tipo, in cui molecole organiche donano e accettano elettroni (e che spesso, come in questi casi, sono anaerobiche) sono chiamate fermentazioni. Lo studio delle fermentazioni svolte da
lieviti importanti dal punto di vista economico ha ispirato buona parte della
biochimica iniziale. Ricerche svolte nel XIX secolo hanno portato nel 1896
al riconoscimento, a quel tempo sorprendente, che questi processi potevano
glicolisi. Ciascuno dei 10 passaggi
mostrati è catalizzato da un enzima
diverso. Si noti che il passaggio 4
taglia uno zucchero a sei carboni
in due zuccheri a tre carboni, così
che il numero di molecole a ogni
stadio successivo raddoppia. Come
indicato, il passaggio 6 dà inizio alla
fase di generazione dell’energia della
glicolisi. Poiché due molecole di ATP
sono idrolizzate nella fase iniziale che
consuma energia, la glicolisi porta alla
sintesi netta di 2 molecole di ATP e 2
di NADH per ogni molecola di glucosio
(vedi anche Quadro 2.8).
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
78
(A) FERMENTAZIONE CHE PORTA ALL’ESCREZIONE DI LATTATO
glucosio
NAD+
glicolisi
ADP
ATP
+
O–
O
NAD+
NADH + H
C
C
O–
O
rigenerazione
+
di NAD
C
H
O
C
OH
CH3
CH3
piruvato
lattato
(B) FERMENTAZIONE CHE PORTA ALL’ESCREZIONE DI ALCOL E CO2
glucosio
ADP
NAD+
glicolisi
Figura 2.47 Due vie per la
demolizione anaerobica del
piruvato. (A) Quando non è presente
una quantità di ossigeno adeguata,
per esempio in una cellula muscolare
in forte contrazione, il piruvato
prodotto dalla glicolisi è convertito
in lattato, come mostrato. Questa
reazione rigenera il NAD+ consumato
nel passaggio 6 della glicolisi, ma
l’intera via produce in totale molta
meno energia dell’ossidazione
completa. (B) In alcuni organismi che
possono crescere anaerobicamente,
come i lieviti, il piruvato è convertito
tramite acetaldeide in anidride
carbonica ed etanolo. Di nuovo,
questa via rigenera NAD+ da NADH,
come è necessario per permettere alla
glicolisi di continuare. Sia (A) che (B)
sono esempi di fermentazioni.
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ATP
+
NADH + H
O–
O
H
+
rigenerazione
+
di NAD
C
C
NAD+
HC
O
O
CH3
CH3
acetaldeide
piruvato
H2C
OH
CH3
etanolo
CO2
essere studiati fuori da organismi viventi, in estratti cellulari. Questa scoperta
rivoluzionaria rese alla fine possibile la scomposizione e lo studio di ciascuna singola reazione del processo di fermentazione. La ricostruzione della via
glicolitica completa negli anni ’30 del Novecento è stata uno dei più grandi trionfi della biochimica, rapidamente seguita dal riconoscimento del ruolo
centrale dell’ATP nei processi cellulari.
■ La glicolisi illustra il modo in cui gli enzimi accoppiano
l’ossidazione alla conservazione dell’energia
La formazione di ATP durante la glicolisi fornisce una chiara dimostrazione
di come gli enzimi accoppino reazioni energeticamente sfavorevoli a reazioni energeticamente favorevoli, spingendo in questo modo le molte reazioni
che rendono possibile la vita. Due reazioni centrali della glicolisi (passaggi 6
e 7) convertono lo zucchero intermedio a tre carboni gliceraldeide 3-fosfato (un’aldeide) in 3-fosfoglicerato (un acido carbossilico; vedi Quadro 2.8,
pp. 108-109), ossidando così un gruppo aldeidico in un gruppo carbossilico.
La reazione totale rilascia abbastanza energia libera per convertire una molecola di ADP in ATP e per trasferire due elettroni (e un protone) dall’aldeide a
NAD+ per formare NADH, rilasciando comunque abbastanza calore nell’ambiente per rendere la reazione totale energeticamente favorevole (il DG° per
la reazione totale è –12,5 kJ/mole).
La via utilizzata per compiere questa notevole impresa di raccolta di energia
è schematizzata nella Figura 2.48. Le reazioni chimiche indicate sono guidate
precisamente da due enzimi ai quali gli zuccheri intermedi sono strettamente
legati. Infatti, come descritto dettagliatamente nella Figura 2.48, il primo en-
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
79
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(A)
H
O
C
H
C
gliceraldeide
3-fosfato
OH
CH2O
HS
Figura 2.48 Immagazzinamento
PASSAGGI 6 E 7 DELLA GLICOLISI
P
Un legame covalente a vita breve
si forma fra gliceraldeide 3-fosfato
(il substrato) e il gruppo –SH di una
catena laterale di cisteina
dell’enzima gliceraldeide 3-fosfato
deidrogenasi, che si lega anche in
modo non covalente a NAD+.
ENZIMA
NAD+
S
H
C
OH
H
C
OH
PASSAGGIO 6
gliceraldeide 3-fosfato deidrogenasi
ENZIMA
CH2O
P
+
NADH + H
legame ad alta energia
(tioestere)
S
ENZIMA
H
C
O
C
OH
CH2O
legame
fosfato
ad alta energia
P
H
C
O
C
OH
1,3-bifosfoglicerato
CH2O
P
P A
P
PASSAGGIO 7
Una molecola di fosfato inorganico
sposta il legame ad alta energia per
creare 1,3-bifosfoglicerato che contiene
un legame fosfato ad alta energia.
fosfato
inorganico
Pi
O
P
fosfoglicerato chinasi
La gliceraldeide 3-fosfato viene
ossidata in quanto l’enzima
rimuove un atomo di idrogeno (in
giallo) e lo trasferisce, assieme a un
elettrone al NAD+ formando così
NADH (vedi Figura 2.37). Parte
dell’energia rilasciata
dall’ossidazione dell’aldeide viene
così immagazzinata in NADH e
parte in legami tioesterici ad alta
energia che uniscono la
gliceraldeide 3-fosfato all'enzima.
P
HO
ADP
Il gruppo fosfato ad alta energia
è trasferito ad ADP per formare ATP.
P A
P
ATP
O
C
H
C
OH
CH2O
(B)
3-fosfoglicerato
P
RIASSUNTO DEI PASSAGGI 6 E 7
H
O
C
HO
NADH
aldeide
O
C
acido
carbossilico
ATP
L'ossidazione di un'aldeide ad acido
carbossilico rilascia energia, gran parte
della quale viene acquisita dai
trasportatori attivati ATP e NADH.
di energia nei passaggi 6 e 7 della
glicolisi. (A) Nel passaggio 6 l’enzima
gliceraldeide 3-fosfato deidrogenasi
accoppia l’ossidazione di un’aldeide,
energeticamente favorevole, alla
formazione, energeticamente
sfavorevole, di un legame fosfato
ad alta energia. Allo stesso tempo,
permette all’energia di essere
immagazzinata nella molecola di
NADH. La formazione del legame
fosfato ad alta energia è spinta dalla
reazione di ossidazione, e l’enzima
perciò agisce come l’accoppiatore
“a turbina” della Figura 2.32B.
Nel passaggio 7, il legame fosfato
ad alta energia di nuova sintesi
presente nell’1,3-bifosfoglicerato
è trasferito all’ADP, formando una
molecola di ATP e lasciando nello
zucchero ossidato un gruppo di
acido carbossilico libero. La parte
della molecola che subisce un
cambiamento è ombreggiata in
azzurro, il resto della molecola rimane
inalterato in tutte queste reazioni. (B)
Riassunto del cambiamento chimico
totale prodotto dalle reazioni 6 e 7.
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2 Chimica e bioenergetica della cellula
80
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P
O
O
P
O
1,3-bifosfoglicerato
C
O
C
ATP
energia libera
NADH
formazione
di un legame
ad alta energia
idrolisi
del legame
ad alta energia
ADP
NAD+
H
O
C
gliceraldeide
3-fosfato
HO
3-fosfoglicerato
O
C
ossidazione
del legame
C–H
PASSAGGIO 6
PASSAGGIO 7
IL CAMBIAMENTO TOTALE DI ENERGIA per il passaggio 6 seguito dal passaggio 7
è favorevole –12,5 kJ/mole
Figura 2.49 Disegno schematico delle reazioni accoppiate che formano NADH
e ATP nei passaggi 6 e 7 della glicolisi. L’energia dell’ossidazione del legame C–H
spinge la formazione sia di NADH che di un legame fosfato ad alta energia. La rottura del
legame ad alta energia spinge quindi la formazione di ATP.
zima (gliceraldeide 3-fosfato deidrogenasi) forma un legame covalente a vita
breve con l’aldeide tramite un gruppo reattivo –SH sull’enzima e catalizza la
sua ossidazione da parte del NAD+ mentre è ancora attaccato. Il legame reattivo enzima-substrato viene quindi spostato da uno ione fosfato inorganico
producendo un intermedio fosfato ad alta energia, che viene quindi rilasciato dall’enzima. Questo intermedio si lega poi al secondo enzima (fosfoglicerato chinasi), che catalizza il trasferimento energeticamente favorevole del fosfato ad alta energia appena creato ad ADP, formando ATP e completando il
processo di ossidazione di un’aldeide ad acido carbossilico. Si noti che l’energia di ossidazione del legame C-H nel passaggio 6 spinge la formazione sia di
NADH che di un legame fosfato ad alta energia. La rottura di questo legame
ad alta energia porta poi alla formazione di ATP.
Abbiamo mostrato questo particolare processo di ossidazione in dettaglio perché fornisce un chiaro esempio di conservazione di energia mediata enzimaticamente tramite reazioni accoppiate (Figura 2.49). I passaggi 6 e
7 della glicolisi sono le sole reazioni che creano un legame fosfato ad alta energia direttamente da fosfato inorganico. Come tali sono responsabili
della resa netta di due ATP e di due NADH per molecola di glucosio (vedi
Quadro 2.8, pp. 108-109).
Come abbiamo appena visto, l’ATP si può formare facilmente da ADP
quando si producono intermedi di reazione con legami fosfato ad energia superiore di quelli dell’ATP. I legami fosfato possono essere disposti in ordine di
energia confrontando il cambiamento in energia libera standard (DG¡) per la
rottura di ciascun legame per idrolisi. La Figura 2.50 mette a confronto i legami fosfoanidride ad alta energia dell’ATP con l’energia di altri legami fosfato,
alcuni dei quali sono generati durante la glicolisi.
■ Gli organismi conservano le molecole di cibo
in speciali depositi
Tutti gli organismi devono mantenere un alto rapporto ATP/ADP, se nelle
loro cellule deve essere mantenuto un ordine biologico. Eppure gli animali
hanno soltanto un accesso periodico al cibo e i vegetali devono sopravvivere
durante la notte in assenza di luce solare, senza la possibilità di produrre zuc-
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O–
O
O
C
H2C
C
O
O
C
C
O
C
N
H
CH3
C
–61,9 kJ
O–
per esempio,
1,3-bifosfoglicerato
(vedi Quadro 2.8)
–49,0 kJ
–40
O
N
P
H
O–
O–
creatina fosfato
(trasportatore attivato
che conserva energia
nel muscolo)
–43,0 kJ
o
C
–O
P
O–
+NH
2
H
O
–60
fosfoenolpiruvato
(vedi Quadro 2.8,
pp. 108-109)
O
H2O
legame
fosfato nella
creatina
fosfato
O–
O–
H 2O
legame anidride
con il carbonio
P
H2O
legame
anidride
con fosfato
(legame
fosfoanidridico)
O
C
O
P
O
O
O–
O
P
O
O–
P
O–
per esempio,
ATP quando è idrolizzato
ad ADP
–30,6 kJ
O–
–20
H2O
O
H
legame
fosfoesterico
C
C
H
∆G PER L’IDROLISI
legame
enol fosfato
O
P
O–
O–
per esempio,
glucosio 6-fosfato
(vedi Quadro 2.8)
–17,5 kJ
H2O
tipo di legame fosfato
esempi specifici che mostrano il cambiamento
in energia libera standard (∆G°)
per l’idrolisi del legame fosfato
0
Figura 2.50 I legami fosfato hanno energie diverse. Nelle
molecole rappresentate a sinistra sono mostrati esempi di
diversi tipi di legami fosfato con i loro siti di idrolisi. Quelli che
iniziano con un atomo di carbonio grigio mostrano soltanto
parte della molecola. Esempi di molecole contenenti questi
legami sono riportati a destra, con il cambiamento di energia
libera della loro idrolisi in kilojoule. Il trasferimento di un
gruppo fosfato da una molecola a un’altra è energeticamente
favorevole se il cambiamento di energia libera (∆G) per l’idrolisi
del legame fosfato della prima molecola è più negativo di
quello per l’idrolisi del legame fosfato della seconda molecola.
Così, per esempio, in condizioni standard un gruppo fosfato
è prontamente trasferito da 1,3-bifosfoglicerato ad ADP,
formando ATP. (Spesso le condizioni standard non sono
applicabili alle cellule viventi, dove le concentrazioni relative
di reagenti e prodotti influenzeranno il reale cambiamento di
energia libera.) La reazione di idrolisi può essere vista come
trasferimento del gruppo fosfato all’acqua.
cheri dalla fotosintesi. Per questa ragione sia i vegetali che gli animali convertono zuccheri e grassi in forme speciali di deposito (Figura 2.51).
Per compensare lunghi periodi di digiuno gli animali conservano gli acidi grassi come goccioline di grasso composte di triacilgliceroli insolubili in acqua (chiamati anche trigliceridi). Negli animali i triacilgliceroli sono immagazzinati in gran parte nel citoplasma di cellule adipose specializzate chiamate
adipociti. Per la conservazione a più breve termine gli zuccheri sono immagazzinati come subunità di glucosio nel grande polisaccaride ramificato glicogeno, che è presente in forma di piccoli granuli nel citoplasma di molte
cellule, fra le quali quelle di fegato e muscolo. La sintesi e la degradazione del
glicogeno sono regolate rapidamente secondo le necessità. Quando è necessario più ATP di quanto possa essere generato dalle molecole di cibo assunte dal torrente circolatorio, le cellule demoliscono glicogeno in una reazione che produce glucosio 1-fosfato, che è rapidamente convertito in glucosio
6-fosfato per la glicolisi (Figura 2.52).
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granuli
di glicogeno
nel citoplasma
di una cellula
di fegato
punto di
ramificazione
subunità
di glucosio
(A)
(B)
1 µm
involucro del cloroplasto
vacuolo
grani
tilacoide
amido
gocciolina
di grasso
parete cellulare
grani
(C)
(D)
1 µm
Figura 2.51 La conservazione di zuccheri e grassi nelle
cellule animali e vegetali. (A) Le strutture di amido e glicogeno,
la forma di deposito degli zuccheri rispettivamente nei vegetali e
negli animali. Entrambi sono polimeri di deposito dello zucchero
glucosio e differiscono soltanto per la frequenza dei punti di
ramificazione. Ci sono molte più ramificazioni nel glicogeno
rispetto all’amido. (B) Una micrografia elettronica che mostra
granuli di glicogeno nel citoplasma di una cellula di fegato.
50 µm
(C) Una sezione sottile di un singolo cloroplasto di una cellula
vegetale, che mostra i granuli di amido e le goccioline di lipidi
che si sono accumulati come risultato delle biosintesi avvenute
nell’organello. (D) Goccioline di grasso (colorate in rosso) che
cominciano ad accumularsi in cellule adipose in fase di sviluppo
di un animale. (B, per gentile concessione di Robert Fletterick e
Daniel S. Friend; C, per gentile concessione di K. Plaskitt; D, per
gentile concessione di Ronald M. Evans e Peter Totonoz.)
Per gli animali il grasso è quantitativamente una forma di deposito molto
più importante del glicogeno, presumibilmente perché rappresenta un deposito più efficiente. L’ossidazione di un grammo di grasso rilascia circa il doppio dell’energia rilasciata da un grammo di glicogeno. Inoltre il glicogeno differisce dal grasso in quanto lega una grande quantità di acqua, il che produce
HOCH2
HOCH2
O
O
OH
OH
O
HO
OH
polimero
di glicogeno
O
OH
P OCH2
HOCH2
Pi
O
glicogeno
fosforilasi
O P
OH
HOCH2
glucosio-1-fosfato
O
OH
O
HO
OH
GLICOLISI
OH
OH
HO
Figura 2.52 Come sono prodotti
gli zuccheri a partire dal glicogeno.
Le subunità di glucosio sono rilasciate
a partire dal glicogeno mediante
l’enzima glicogeno fosforilasi
che produce glucosio-1-fosfato,
rapidamente convertito in glucosio-6fosfato per la glicolisi.
O
polimero
di glicogeno
HO
OH
OH
glucosio-6-fosfato
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2 Chimica e bioenergetica della cellula
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Figura 2.53 Alcuni semi che
costituiscono un importante
alimento per gli esseri umani. Mais,
noci e piselli contengono riserve di
amido e di grassi che forniscono al
giovane embrione vegetale nel seme
energia e unità da costruzione per le
biosintesi. (Per gentile concessione
della John Innes Foundation.)
una differenza di sei volte nella massa effettiva di glicogeno richiesta per conservare la stessa quantità di energia del grasso. Un essere umano adulto medio
immagazzina glicogeno sufficiente per un giorno soltanto di attività normale
ma abbastanza grasso da sopravvivere quasi un mese. Se la nostra riserva principale di combustibile dovesse essere il glicogeno invece che il grasso, il peso
corporeo dovrebbe aumentare in media di 30 kg.
Lo zucchero e l’ATP necessari alle cellule vegetali sono prodotti in larga
parte in organelli separati: gli zuccheri nei cloroplasti (gli organelli specializzati nella fotosintesi) e l’ATP nei mitocondri. Sebbene i vegetali producano
NADPH e ATP nei loro cloroplasti, questo tipo di organelli è isolato dal resto della cellula vegetale da una membrana impermeabile a entrambi i tipi di
molecole trasportatrici attivate. Inoltre i vegetali contengono molte altre cellule – come quelle delle radici – che sono prive di cloroplasti e perciò non
producono i propri zuccheri. Perciò gli zuccheri sono esportati dai cloroplasti
ai mitocondri che si trovano in tutte le cellule dei vegetali. La maggior parte
dell’ATP necessario per il metabolismo generale della cellula vegetale viene
sintetizzata in questi mitocondri, impiegando esattamente le stesse vie di demolizione ossidativa degli zuccheri che sono usate dagli organismi non fotosintetici; questo ATP viene poi passato al resto della cellula (vedi Figura 14.42).
Nei periodi in cui la capacità fotosintetica è in eccesso, durante il giorno, i
cloroplasti convertono una parte degli zuccheri che producono in grassi e in
amido, un polimero di glucosio analogo al glicogeno degli animali. I grassi
dei vegetali sono triacilgliceroli (trigliceridi), proprio come i grassi degli animali, e differiscono soltanto nei tipi di acidi grassi che predominano. Il grasso e l’amido sono entrambi conservati nel cloroplasto come riserve da mobilizzare come fonte di energia durante i periodi di buio (vedi Figura 2.51C).
Gli embrioni all’interno di semi vegetali devono contare su fonti di energia conservate per un periodo prolungato, fino a che germinano producendo foglie che possono raccogliere l’energia della luce solare. Per questa ragione i semi vegetali contengono spesso quantità particolarmente abbondanti di
grassi e amido, che li rendono una delle fonti principali di cibo per gli animali, compreso l’uomo (Figura 2.53).
■ Durante il digiuno la maggior parte delle cellule animali
trae lÕenergia dagli acidi grassi
Dopo un pasto la maggior parte dell’energia necessaria a un animale deriva
dagli zuccheri presenti nel cibo. Se ci sono zuccheri in eccesso, questi sono
usati per rifornire le scorte esaurite di glicogeno, o per sintetizzare grassi come deposito di cibo. Ma il grasso depositato nel tessuto adiposo viene molto presto richiamato e già al mattino dopo il digiuno notturno l’ossidazione
degli acidi grassi genera la maggior parte dell’ATP di cui abbiamo bisogno.
Bassi livelli di glucosio nel sangue innescano la demolizione dei grassi per
la produzione di energia. Come illustrato nella Figura 2.54, i triacilgliceroli depositati nelle goccioline di grasso degli adipociti sono idrolizzati per produrre
acidi grassi e glicerolo, e gli acidi grassi rilasciati sono trasferiti alle cellule del
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2 Chimica e bioenergetica della cellula
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Figura 2.54 Il modo in cui i grassi
depositati sono mobilizzati per
produrre energia negli animali.
Bassi livelli di glucosio nel sangue
innescano l’idrolisi delle molecole
di triacilglicerolo delle goccioline di
grasso in acidi grassi liberi e glicerolo.
Questi acidi grassi entrano nel torrente
circolatorio, dove si legano alla
proteina albumina serica, abbondante
nel sangue. Speciali trasportatori
degli acidi grassi presenti nella
membrana plasmatica delle cellule
che ossidano gli acidi grassi, come le
cellule muscolari, trasferiscono quindi
questi acidi grassi nel citosol, e da qui
sono spostati nei mitocondri per la
produzione di energia.
idrolisi
grasso
depositato
acidi grassi
torrente circolatorio
glicerolo
CELLULA ADIPOSA
CELLULA MUSCOLARE
acidi grassi
ossidazione
nei mitocondri
CO2
ATP
corpo attraverso il torrente circolatorio. Mentre convertono facilmente zuccheri in grassi, gli animali non possono convertire acidi grassi in zuccheri. Gli
acidi grassi vengono invece ossidati direttamente.
■ Zuccheri e grassi sono entrambi degradati ad acetil CoA
nei mitocondri
Nel metabolismo aerobico il piruvato prodotto dagli zuccheri nella glicolisi citoplasmatica è trasportato nei mitocondri delle cellule eucariotiche, dove è
rapidamente decarbossilato da un enorme complesso di tre enzimi, chiamato
complesso della piruvato decarbossilasi. I prodotti della decarbossilazione del piruvato sono una molecola di CO2 (un prodotto di rifiuto), una molecola di
NADH, e acetil CoA (vedi il Quadro 2.9).
Gli acidi grassi importati dal torrente circolatorio sono condotti nei mitocondri, dove avviene tutta la loro ossidazione (Figura 2.55). Ciascuna molecola di acido grasso (come la molecola attivata acido grasso CoA) viene demolita
completamente da un ciclo di reazioni che taglia due carboni alla volta dalla
sua estremità carbossilica, generando una molecola di acetil CoA a ogni giro
del ciclo. In questo processo sono prodotte anche una molecola di NADH e
una di FADH2 (Figura 2.56).
Gli zuccheri e i grassi rappresentano le fonti principali di energia per la
maggior parte degli organismi non fotosintetici, compresi gli esseri umani.
Tuttavia la maggioranza dell’energia utile che può essere ricavata dall’ossidazione di entrambi i tipi di nutrienti rimane conservata nelle molecole di acetil
CoA che sono prodotte dai due tipi di reazione appena descritti. Le reazioni
del ciclo dell’acido citrico, in cui il gruppo acetilico dell’acetil CoA viene ossidato a CO2 e H2O, sono perciò centrali per il metabolismo energetico degli
organismi aerobici. Negli eucarioti queste reazioni hanno tutte luogo nei mitocondri. Non dovremmo perciò sorprenderci di scoprire che il mitocondrio
Figura 2.55 Le vie di produzione
di acetil CoA da zuccheri e
grassi. Nelle cellule eucariotiche il
mitocondrio è il luogo in cui viene
prodotto acetil CoA a partire da
entrambi i tipi principali di molecole
di cibo ed è quindi dove avviene
la maggior parte delle reazioni di
ossidazione e dove viene prodotta
la maggior parte dell’ATP. Anche gli
amminoacidi (non mostrati) possono
entrare nel mitocondrio dove sono
convertiti in acetil CoA o in un
altro intermedio del ciclo dell’acido
citrico. La struttura e la funzione dei
mitocondri sono trattate in dettaglio
nel Capitolo 14.
membrana plasmatica
Zuccheri
e polisaccaridi
zuccheri
glucosio
piruvato
piruvato
acetil CoA
Grassi
acidi grassi
acidi grassi
acidi grassi
MITOCONDRIO
CITOSOL
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(A)
(C)
R
CH2
C
CH2
CH2
S–CoA
resto della coda
idrocarburica
gocciolina di grasso
acido
grasso CoA
accorciato
di due
carboni
il ciclo si ripete
finché l’acido grasso
non è degradato
completamente
O
R
CH2
l’acido grasso attivato
entra nel ciclo
O
acido grasso CoA
C
S–CoA
O
CH3
FAD
C
S–CoA
1 µm
FADH2
acetil CoA
O
O
CH2
O
C
R
coda idrocarburica
O
C
O
coda idrocarburica
CH
CH
R
CH2
C
OH H
O
CH2 C
C
S–CoA
H2O
HS–CoA
O
CH
CH2
R
S–CoA
CH2
C
C
H
H
O
C
S–CoA
O
CH2
O
C
coda idrocarburica
NADH
+ H+
NAD+
legame estere
(B)
triacilglicerolo
è il luogo in cui viene prodotta la maggior parte di ATP nelle cellule animali.
I batteri aerobi svolgono invece tutte le loro reazioni, incluso il ciclo dell’acido citrico, in un unico compartimento, il citosol.
■ Il ciclo dell’acido citrico genera NADH ossidando gruppi
acetilici a CO2
Nel XIX secolo i biologi notarono che in assenza di aria (condizioni anaerobiche) le cellule producono acido lattico (per esempio, nel muscolo) o etanolo (per esempio, nel lievito), mentre in presenza di aria (condizioni aerobiche) consumano O2 e producono CO2 e H2O. Gli sforzi per definire le vie
del metabolismo aerobico si concentrarono alla fine sull’ossidazione del piruvato e portarono nel 1937 alla scoperta del ciclo dell’acido citrico, noto
anche come ciclo dell’acido tricarbossilico o ciclo di Krebs. Il ciclo dell’acido citrico
è responsabile di circa i due terzi dell’ossidazione totale dei composti del carbonio nella maggior parte delle cellule e i suoi prodotti finali principali sono
CO2 ed elettroni ad alta energia sotto forma di NADH. La CO2 viene rilasciata come prodotto di scarto, mentre gli elettroni ad alta energia del NADH
passano a una catena di trasporto degli elettroni attaccata alla membrana (discussa nel Capitolo 14), e alla fine si combinano con O2 per produrre H2O.
Sebbene il ciclo dell’acido citrico non usi di per sé O2 (usa atomi di ossigeno derivanti dall’H2O),richiede O2 per procedere perché non esiste un altro
modo efficiente per liberare il NADH dai suoi elettroni e quindi rigenerare
il NAD+ che è necessario perché il ciclo non si fermi.
Il ciclo dell’acido citrico, che ha luogo all’interno dei mitocondri nelle
cellule eucariotiche, porta alla completa ossidazione degli atomi di carbonio dei gruppi acetilici dell’acetil CoA, convertendoli in CO2. Ma il gruppo acetilico non viene ossidato direttamente. Questo gruppo viene invece
trasferito dall’acetil CoA a una molecola più grande a quattro carboni, l’ossalacetato, per formare l’acido tricarbossilico a sei carboni, l’acido citrico, dal
Figura 2.56 L’ossidazione
degli acidi grassi ad acetil CoA.
(A) Micrografia elettronica di una
gocciolina di lipidi nel citoplasma.
(B) La struttura dei grassi. I grassi sono
triacilgliceroli. Il glicerolo, a cui sono
collegati tre acidi grassi tramite legami
estere, è mostrato qui in azzurro.
I grassi sono insolubili in acqua e
formano grosse gocce lipidiche nelle
cellule adipose (chiamate adipociti)
in cui sono depositati. (C) Il ciclo di
ossidazione degli acidi grassi. Il ciclo
è catalizzato da una serie di quattro
enzimi nel mitocondrio. Ciascun giro
del ciclo accorcia la catena dell’acido
grasso di due carboni (mostrati in
rosso) e genera una molecola di acetil
CoA e una molecola di NADH e di
FADH2. (A, per gentile concessione di
Daniel S. Friend.)
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
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Figura 2.57 Uno schema
semplificato del ciclo dell’acido
citrico. La reazione di acetil CoA con
ossalacetato inizia il ciclo producendo
citrato (acido citrico). In ciascun giro
del ciclo due molecole di CO2 hanno
origine come prodotti di scarto, più
tre molecole di NADH, una molecola
di GTP e una molecola di FADH2.
Il numero di atomi di carbonio in
ciascun intermedio è riportato in un
riquadro giallo. Per i dettagli vedi
Quadro 2.9 (pp. 110-111).
O
H 3C
C
S–CoA
acetil CoA
2C
ossalacetato
citrato
6C
PASSAGGIO 1
4C
PASSAGGIO 2
NADH
6C
+
+H
PASSAGGIO 8
+
NADH + H
PASSAGGIO 3
4C
PASSAGGIO 7
C O2
5C
PASSAGGIO 4
PASSAGGIO 6
4C
+
PASSAGGIO 5
NADH + H
4C
4C
FADH2
C O2
GTP
RISULTATO NETTO: UN GIRO DEL CICLO PRODUCE TRE NADH, UN GTP
E UN FADH2 E RILASCIA DUE MOLECOLE DI CO2
quale ha preso il nome il successivo ciclo di reazioni. La molecola dell’acido citrico viene quindi ossidata gradualmente, permettendo di imbrigliare
l’energia di questa ossidazione per produrre molecole trasportatrici attivate
ricche di energia. La catena di otto reazioni forma un ciclo perché alla fine
l’ossalacetato è rigenerato ed entra in un nuovo ciclo, come mostrato schematicamente nella Figura 2.57.
Finora abbiamo preso in esame soltanto uno dei tre tipi di molecole trasportatrici attivate che vengono prodotte nel ciclo dell’acido citrico, la coppia
NAD+-NADH (vedi Figura 2.36). Oltre a tre molecole di NADH, ciascun
giro del ciclo produce anche una molecola di FADH2 (flavina adenina dinucleotide ridotto) da FAD (vedi Figura 2.39) e una molecola del ribonucleotide GTP (guanosina trifosfato) da GDP. La struttura del GTP è illustrata nella Figura 2.58. Il GTP è un parente stretto dell’ATP e il trasferimento del suo
gruppo fosfato terminale ad ADP produce una molecola di ATP in ciascun
ciclo. Al pari del NADH, FADH2 è un trasportatore di elettroni ad alta energia e di idrogeno. Come vedremo fra breve, l’energia che è conservata negli
elettroni ad alta energia prontamente trasferiti del NADH e del FADH2 sarà
utilizzata successivamente per la produzione di ATP nel processo della fosforilazione ossidativa, l’unico passaggio del catabolismo ossidativo del cibo che richiede direttamente ossigeno gassoso (O2) dall’atmosfera.
O
guanina
N
O
–
O
P
O
O
–
O
P
O
–
P
N
O
N
O–
ribosio
GDP
GTP
OH
C
C
CH2 O
OH
Figura 2.58 La struttura del
GTP. GTP e GDP sono parenti stretti
rispettivamente di ATP e ADP.
NH
HC
O
O
C
C
NH2
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GLUCOSIO
nucleotidi
glucosio 6-fosfato
amminozuccheri
glicolipidi
glicoproteine
fruttosio 6-fosfato
GLICOLISI
serina
diidrossiacetone
fosfato
lipidi
amminoacidi
pirimidine
3-fosfoglicerato
fosfoenolpiruvato
alanina
piruvato
colesterolo
acidi grassi
aspartato
altri amminoacidi
purine
pirimidine
citrato
ossalacetato
CICLO
DELL’ACIDO
CITRICO
α-chetoglutarato
succinil CoA
eme
clorofilla
glutammato
altri amminoacidi
purine
Il ciclo completo dell’acido citrico è presentato nel Quadro 2.9 (pp. 110111) e nel Filmato 2.6 . Gli atomi di ossigeno extra necessari per produrre
CO2 dai gruppi acetilici che entrano nel ciclo dell’acido citrico sono forniti non da ossigeno molecolare, ma dall’acqua. Come illustrato nel Quadro, tre
molecole di acqua vengono spezzate in ciascun ciclo e gli atomi di ossigeno
di alcune di esse sono alla fine usati per produrre CO2.
Oltre al piruvato e agli acidi grassi, alcuni amminoacidi passano dal citosol nei mitocondri, dove sono anch’essi convertiti in acetil CoA o in uno degli altri intermedi del ciclo dell’acido citrico. Così nella cellula eucariotica il
mitocondrio è il centro verso cui convergono tutti i processi che producono
energia, che inizino con zuccheri, grassi o proteine.
Sia il ciclo dell’acido citrico che la glicolisi costituiscono anche un punto
di partenza per reazioni biosintetiche importanti poiché producono intermedi
vitali contenenti carbonio, come ossalacetato e a-chetoglutarato. Alcune di queste
sostanze prodotte dal catabolismo sono trasferite di nuovo dal mitocondrio al
citosol, dove servono da precursori nelle reazioni anaboliche per la sintesi di
molte molecole essenziali, come gli amminoacidi (Figura 2.59).
■ Il trasporto degli elettroni spinge la sintesi della maggior
parte dell’ATP in quasi tutte le cellule
La maggior parte dell’energia chimica è rilasciata nell’ultimo passaggio della
degradazione di una molecola di cibo. In questo processo finale i trasportatori di elettroni NADH e FADH2 trasferiscono gli elettroni, che hanno guadagnato quando hanno ossidato altre molecole, alla catena di trasporto degli elettroni, che è posta nella membrana mitocondriale interna (vedi Figura 14.10). Quando gli elettroni percorrono questa lunga catena di accettori e
donatori specializzati di elettroni, scendono a stati di energia progressivamente più bassi. L’energia che gli elettroni rilasciano in questo processo è usata per
pompare ioni H+ (protoni) attraverso la membrana, dal compartimento mi-
Figura 2.59 La glicolisi e il ciclo
dell’acido citrico forniscono
i precursori necessari per
sintetizzare molte molecole
biologiche importanti. Gli
amminoacidi, i nucleotidi, i lipidi, gli
zuccheri e altre molecole – mostrate
qui come prodotti – servono a
loro volta da precursori per molte
macromolecole della cellula. Ciascuna
freccia nera in questo schema indica
una singola reazione catalizzata da un
enzima; le frecce rosse rappresentano
generalmente vie con molti passaggi
che sono necessarie per dar vita ai
prodotti indicati.
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H+
elettrone
ad alta
energia
eA
proteina
di membrana
C
B
membrana
eA
B H
C
A
B
C
H+
e-
elettrone
a bassa
energia
Figura 2.60 La generazione di
un gradiente di H+ attraverso
una membrana per mezzo
delle reazioni di trasporto degli
elettroni. Un elettrone ad alta
energia (derivato, per esempio,
dall’ossidazione di un metabolita)
viene passato sequenzialmente dai
trasportatori A, B e C a uno stato a
energia più bassa. In questo schema
il trasportatore B è disposto nella
membrana in modo da assumere
H+ da un lato e rilasciarlo dall’altro
mentre passa l’elettrone. Il risultato
è un gradiente di H+. Come vedremo
nel Capitolo 14, questo gradiente
rappresenta una forma di energia
conservata che è imbrigliata da altre
proteine di membrana per spingere
la formazione di ATP (per un esempio
reale si veda la Figura 14.21).
Figura 2.61 Gli stadi finali
dell’ossidazione delle molecole di
cibo. Molecole di NADH e di FADH2 (il
FADH2 non è mostrato) sono prodotte
dal ciclo dell’acido citrico. Questi
trasportatori attivati donano elettroni
ad alta energia che sono alla fine
usati per ridurre ossigeno gassoso ad
acqua. La maggior parte dell’energia
rilasciata durante il trasferimento di
questi elettroni lungo una catena
di trasferimento di elettroni nella
membrana mitocondriale interna
(o nella membrana plasmatica dei
batteri) è imbrigliata per spingere
la sintesi di ATP: di qui il nome
fosforilazione ossidativa (trattata
nel Capitolo 14).
tocondriale interno (la matrice) allo spazio tra le due membrane (e poi al citosol), generando un gradiente di ioni H+ (Figura 2.60). Questo gradiente serve come fonte di energia, essendo utilizzato come una batteria per spingere
varie reazioni che richiedono energia. La più rilevante di queste reazioni è la
generazione di ATP mediante fosforilazione di ADP.
Alla fine di questa serie di trasferimenti di elettroni, questi giungono a
molecole di ossigeno gassoso (O2) che si sono diffuse nel mitocondrio e che
si combinano simultaneamente con protoni (H+) dalla soluzione circostante
per produrre molecole di acqua. Gli elettroni hanno adesso raggiunto il loro
livello più basso di energia e perciò tutta l’energia disponibile è stata estratta
dalla molecola di cibo che è stata ossidata. Questo processo, chiamato fosforilazione ossidativa (Figura 2.61), avviene anche nella membrana plasmatica
dei batteri. Essendo una delle realizzazioni più notevoli dell’evoluzione cellulare, sarà un argomento centrale del Capitolo 14.
In totale, l’ossidazione completa di una molecola di glucosio a H2O e CO2
è usata dalla cellula per produrre circa 30 molecole di ATP. Soltanto 2 molecole di ATP per molecola di glucosio sono invece prodotte dalla sola glicolisi.
■ Gli amminoacidi e i nucleotidi sono parte del ciclo dell’azoto
Finora ci siamo concentrati soprattutto sul metabolismo dei carboidrati e non
abbiamo ancora considerato il metabolismo dell’azoto o dello zolfo. Questi
due elementi sono costituenti importanti delle macromolecole biologiche. Gli
atomi di azoto e di zolfo passano da composto a composto e dagli organismi
all’ambiente in una serie di cicli reversibili.
Sebbene l’azoto molecolare sia abbondante nell’atmosfera terrestre, l’azoto
è chimicamente non reattivo sotto forma di gas. Soltanto poche specie viventi sono capaci di incorporarlo in molecole organiche, un processo chiamato
fissazione dell’azoto. La fissazione dell’azoto avviene in certi microrganismi e attraverso alcuni processi geofisici, come le scariche dei fulmini. È essenziale per la biosfera nel suo insieme, perché senza di essa la vita non esisterebbe su questo pianeta. Soltanto una piccola parte dei composti azotati negli organismi odierni, però, è dovuta a prodotti nuovi della fissazione dell’azoto dall’atmosfera. La maggior parte dell’azoto organico è in circolazione da
tempo, passando da un organismo vivente all’altro. Così si può dire che le reazioni odierne di fissazione dell’azoto svolgano una funzione di “aggiunta” alle scorte totali di azoto.
I vertebrati ricevono praticamente tutto il loro azoto dall’assunzione con
la dieta di proteine e acidi nucleici. Nel corpo queste macromolecole sono
demolite in amminoacidi e nei componenti dei nucleotidi e l’azoto che contengono è usato per produrre nuovi acidi nucleici e proteine o utilizzato per
produrre altre molecole. Circa metà dei 20 amminoacidi presenti nelle proteine sono amminoacidi essenziali per i vertebrati (Figura 2.62), il che significa che non possono essere sintetizzati a partire da altri ingredienti della dieta. Gli altri possono essere sintetizzati usando vari materiali grezzi, compresi
piruvato
da glicolisi
CO2
NADH
da glicolisi
O2
piruvato
ADP + Pi
acetil CoA
CoA
CICLO
DELL’ACIDO
CITRICO
2 eÐ
NADH
FOSFORILAZIONE
NAD+
OSSIDATIVA
ATP
MITOCONDRIO
H2O
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
89
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intermedi del ciclo dell’acido citrico. Gli amminoacidi essenziali sono prodotti da vegetali e da altri organismi non vertebrati, in genere tramite lunghe
vie energeticamente costose che sono state perdute nel corso dell’evoluzione dei vertebrati.
I nucleotidi necessari per produrre RNA e DNA possono essere sintetizzati usando vie biosintetiche specializzate. Tutti gli atomi di azoto nelle basi
puriniche e pirimidiniche (oltre ad alcuni dei carboni) derivano dagli amminoacidi abbondanti glutammina, acido aspartico e glicina, mentre il ribosio e
il deossiribosio derivano dal glucosio. Non ci sono “nucleotidi essenziali” che
devono essere forniti con la dieta.
Gli amminoacidi che non sono utilizzati nelle biosintesi possono essere ossidati per generare energia metabolica. La maggior parte dei loro atomi di carbonio e di idrogeno alla fine forma CO2 e H2O, mentre i loro atomi di azoto
sono trasportati sotto varie forme e alla fine compaiono come urea, che viene
escreta. Ciascun amminoacido è processato in modo diverso ed esiste un’intera costellazione di reazioni enzimatiche per il loro catabolismo.
Lo zolfo è abbondante sulla Terra nella sua forma più ossidata, il solfato
(SO42–). Per convertirlo in forme utili per la vita il solfato deve essere ridotto
a solfuro (S2–), lo stato di ossidazione richiesto per la sintesi di molecole biologiche essenziali. Queste molecole comprendono gli amminoacidi metionina e cisteina, il coenzima A (vedi Figura 2.39) e i centri ferro-zolfo essenziali per il trasporto degli elettroni (vedi Figura 14.16). Il processo di riduzione
dello zolfo inizia nei batteri, nei funghi e nei vegetali, dove un gruppo speciale di enzimi usa ATP e potere riducente per creare una via di assimilazione del solfato. Gli esseri umani e altri animali non possono ridurre il solfato
e devono perciò acquisire lo zolfo di cui hanno bisogno per il loro metabolismo con il cibo.
■ Il metabolismo • altamente organizzato e regolato
Si può avere un’idea di quanto una cellula sia intricata come macchina chimica dalle relazioni della glicolisi e del ciclo dell’acido citrico con le altre vie
metaboliche schematizzate nella Figura 2.63. Questo schema rappresenta soltanto una parte delle vie enzimatiche di una cellula umana. Ovviamente la
nostra discussione del metabolismo cellulare ha riguardato soltanto una minima parte della chimica cellulare.
Tutte queste reazioni avvengono in una cellula che ha un diametro di meno di 0,1 mm e ciascuna richiede un enzima diverso. Come risulta chiaramente dalla Figura 2.63, la stessa molecola spesso può essere parte di molte
vie diverse. Il piruvato, per esempio, è un substrato per più di mezza dozzina
di enzimi differenti, ciascuno dei quali lo modifica chimicamente in un modo
diverso. Un enzima converte il piruvato in acetil CoA, un altro in ossalacetato; un terzo enzima cambia il piruvato nell’amminoacido alanina, un quarto
in lattato e così via.Tutte queste vie diverse competono per la stessa molecola
di piruvato e competizioni simili per migliaia di altre piccole molecole si verificano contemporaneamente.
La situazione è ulteriormente complicata in un organismo multicellulare.
Tipi diversi di cellule richiederanno in generale serie un po’ diverse di enzimi e ogni tessuto diverso dà contributi distinti alla chimica dell’organismo nel
suo insieme. Oltre a differenze in prodotti specializzati come ormoni o anticorpi, ci sono differenze significative nelle vie metaboliche “comuni” fra i vari tipi di cellule dello stesso organismo.
Sebbene praticamente tutte le cellule contengano gli enzimi della glicolisi, del ciclo dell’acido citrico, della sintesi e della demolizione dei lipidi e del
metabolismo degli amminoacidi, i livelli di questi processi necessari in tessuti
diversi non sono gli stessi. Per esempio, le cellule nervose, che sono probabilmente le cellule più esigenti del corpo, non mantengono riserve di glicogeno
o di acidi grassi e si basano quasi interamente su un rifornimento costante di
glucosio dal sangue. Le cellule del fegato, invece, forniscono glucosio alle cellule muscolari in attiva contrazione e riciclano l’acido lattico prodotto dalle
cellule muscolari di nuovo in glucosio.Tutti i tipi di cellule hanno i loro tratti
metabolici distintivi e cooperano estesamente nello stato normale, oltre che
GLI AMMINOACIDI ESSENZIALI
TREONINA
METIONINA
LISINA
VALINA
LEUCINA
ISOLEUCINA
ISTIDINA
FENILALANINA
TRIPTOFANO
Figura 2.62 I nove amminoacidi
essenziali. Questi non possono essere
sintetizzati dalle cellule umane e
devono così essere forniti dalla dieta.
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
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glucosio 6-fosfato
piruvato
acetil CoA
Figura 2.63 Nelle cellule umane la glicolisi e il ciclo
dell’acido citrico sono al centro di un’elaborata serie
di vie metaboliche. Sono mostrate schematicamente circa
2000 reazioni metaboliche con le reazioni della glicolisi e del
ciclo dell’acido citrico in rosso. Molte altre reazioni conducono
QUELLO CHE
NON SAPPIAMO
• La chemiosmosi ha preceduto la
fermentazione come sorgente di
energia biologica oppure alcune forme
di fermentazione sono arrivate prima,
come si è pensato per molti anni?
• Qual è il numero minimo di
componenti richiesti per generare
una cellula vivente da zero? Come
potremmo determinarlo?
• Sono possibili altre chimiche della
vita a fianco dell’unica conosciuta sulla
Terra (e descritta in questo capitolo)?
Tentando di scoprire la vita su altri
pianeti che tipo di caratteristiche
chimiche dovremmo cercare?
• La chimica interna comune a tutte
le cellule viventi è un indizio per
ricostruire l’ambiente sulla Terra dove
si sono originate le prime cellule? Per
esempio, che cosa potremo concludere
dal fatto che l’alto rapporto K+/Na+, il
pH neutro e il ruolo centrale dei fosfati
siano caratteristiche universalmente
condivise?
a queste due vie centrali – portando piccole molecole da
catabolizzare con produzione di energia – o fuori di esse e
quindi forniscono composti del carbonio per le biosintesi.
(Adattata con permesso da Kanehisa Laboratories.)
in risposta a stress e digiuno. Si potrebbe pensare che l’intero sistema debba
essere bilanciato così finemente che qualunque minima alterazione, come un
cambiamento temporaneo nella dieta, sarebbe disastrosa.
In realtà l’equilibrio metabolico di una cellula è stabile in modo stupefacente. Ogni volta che l’equilibrio è perturbato, la cellula reagisce in modo da
ripristinare lo stato iniziale. La cellula può adattarsi e continuare a funzionare durante digiuno o malattie. Mutazioni di molti tipi possono danneggiare o
anche eliminare particolari vie di reazione, eppure – purché siano soddisfatti dei requisiti minimi – la cellula sopravvive. Ci riesce grazie a una rete elaborata di meccanismi di controllo che regola e coordina le velocità di tutte le sue
reazioni. Questi controlli si basano, alla fine, sulle notevoli capacità delle proteine di cambiare forma e chimica in risposta a mutamenti del loro ambiente
più prossimo. I principi che sono alla base del modo in cui molecole grandi
come le proteine vengono costruite e della chimica che sta dietro alla loro regolazione saranno il prossimo argomento che considereremo.
SOMMARIO Il glucosio e le altre molecole di cibo sono demoliti da un’ossidazione
controllata in più passaggi per fornire energia chimica sotto forma di ATP e NADH.
L’ossidazione è composta da tre serie principali di reazioni che agiscono l’una dopo
l’altra; i prodotti di ciascuna sono il materiale di partenza della successiva: la glicolisi
(che avviene nel citosol), il ciclo dell’acido citrico (nella matrice mitocondriale) e la
fosforilazione ossidativa (nella membrana mitocondriale interna). I prodotti intermedi
della glicolisi e del ciclo dell’acido citrico sono usati sia come fonte di energia
metabolica che per produrre molte delle piccole molecole usate come materiali grezzi
per le biosintesi. Le cellule conservano le molecole di zucchero in forma di glicogeno
negli animali e di amido nei vegetali; sia vegetali che animali usano estesamente anche
grassi come deposito di energia. Questi materiali di deposito servono a loro volta come
fonte principale di cibo per gli esseri umani, insieme alle proteine che costituiscono la
maggioranza della massa secca delle cellule dei cibi che mangiamo. ●
2 Chimica e bioenergetica della cellula
CAPITOLO
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PROBLEMI
Quali affermazioni sono vere? Spiegate perché sì o
perché no.
gale (160 mg/100 mL), quanto tempo deve passare
perché il suo livello di alcol nel sangue scenda sotto
il limite legale?
2.1 Una soluzione 10–8 M di HCl ha un pH di 8.
cole mediate da legami non covalenti potrebbe essere
mediata altrettanto bene da legami covalenti.
2.3 Gli animali e i vegetali usano l’ossidazione per
estrarre energia dalle molecole di cibo.
2.4 Se in una reazione avviene un’ossidazione, questa
deve essere accompagnata da una riduzione.
2.5 Il collegamento di una reazione energeticamen-
te sfavorevole AnB a una seconda reazione favorevole BnC sposterà la costante di equilibrio della prima
reazione.
2.6 Il criterio importante per decidere se una reazio-
ne procede spontaneamente è ∆G e non ∆G°, perché
∆G tiene in considerazione le concentrazioni dei substrati e dei prodotti.
2.10 Si sa che una catena laterale di istidina ha un ruo-
lo importante nel meccanismo catalitico di un enzima;
tuttavia, non è chiaro se l’istidina è necessaria nella forma protonata (carica) o non protonata (scarica). Per rispondere a questa domanda misurate l’attività enzimatica in una gamma di pH, con il risultato mostrato nella Figura P2.1. Quale forma di istidina è necessaria per
l’attività enzimatica?
Figura P2.1 Attività
enzimatica in funzione
del pH (Problema 2.10).
100
attività (% del massimo)
2.2 La maggior parte delle interazioni fra macromole-
0
4
5
6
pH
7
8
9
10
2.7 L’ossigeno consumato durante l’ossidazione del glu-
cosio nelle cellule animali ritorna come CO2 nell’atmosfera.
Discutete i seguenti problemi.
2.8 La chimica organica delle cellule viventi è consi-
derata speciale per due ragioni: avviene in un ambiente
acquoso e svolge alcune reazioni molto complesse. Ma
pensate che sia veramente così tanto diversa dalla chimica organica praticata nei migliori laboratori del mondo?
Perché sì o perché no?
2.11 Le tre molecole della Figura P2.2 contengono i set-
te gruppi reattivi più comuni in biologia. Per la maggior
parte le molecole della cellula sono costruite a partire
da questi gruppi funzionali. Indicate con il loro nome i
gruppi funzionali di queste molecole.
O
–O
O
C
HO
2.9 Il peso molecolare dell’etanolo (CH3CH2OH) è 46
O
–O
Figura P2.2 Tre molecole che
illustrano i sette gruppi funzionali più
comuni in biologia (Problema 2.11).
1,3-Bifosfoglicerato e piruvato sono
intermedi della glicolisi e la cisteina è un
amminoacido.
CH
CH 2
3
e la sua densità è 0,789 g/cm .
A. Qual è la molarità dell’etanolo in una birra che è 5%
etanolo in volume? [Il contenuto di alcol della birra
varia da circa 4% (birra leggera) all’8% (birra forte).]
B. Il limite legale per il contenuto di alcol nel sangue
di un guidatore varia, ma 80 mg di etanolo per 100
mL di sangue (di solito riferito come un livello di
alcol nel sangue di 0,08) è un valore tipico. Qual è la
molarità dell’etanolo in una persona a questo limite
legale?
C. Quante bottiglie da 335 mL di birra al 5% potrebbe
bere una persona di 70 kg e rimanere sotto il limite
legale? Una persona di 70 kg contiene circa 40 litri
di acqua. Ignorate il metabolismo dell’etanolo e assumete che il contenuto d’acqua della persona resti
costante.
D. L’etanolo è metabolizzato a una velocità costante di
circa 120 mg per ora per kg di peso corporeo, indipendentemente dalla sua concentrazione. Se una
persona di 70 kg fosse due volte sopra il limite le-
P
O–
O–
O
O
C
P
C
O
SH
CH 2
O
O–
CH 3
1,3-bifosfoglicerato
piruvato
CH
O
C
NH 3 +
O–
cisteina
2.12 La “diffusione” pare una cosa lenta, e sulla scala
delle distanze a cui siamo abituati lo è, ma sulla scala di
una cellula è molto veloce. La velocità istantanea media di una particella in soluzione, cioè l’intervallo fra le
collisioni, è
v = (kT/m)1/2
in cui k = 1,38 3 10–16 g cm2/K sec2, T = temperatura in gradi K (37 °C corrispondono a 310 K), m = massa in g/molecola.
Calcolate la velocità istantanea di una molecola d’acqua
(massa molecolare = 18 dalton), di una molecola di glucosio (massa molecolare = 180 dalton) e di una molecola di mioglobina (massa molecolare = 15 000 dalton) a
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2 Chimica e bioenergetica della cellula
92
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37 °C.Tanto per divertirvi, convertite questi numeri in
chilometri/ora. Prima di fare il calcolo, provate a indovinare se le molecole si muovono strisciando lentamente (<1 km/ora), camminando normalmente (5 km/ora)
o a una velocità record (40 km/ora).
2.13 La polimerizzazione delle subunità di tubulina nei
microtubuli avviene con un aumento di ordine delle
subunità. Eppure la polimerizzazione della tubulina avviene con un aumento di entropia (diminuzione di ordine). Come può essere?
2.14 Un essere umano adulto di 70 kg potrebbe soddi-
sfare le sue necessità di energia di un giorno mangiando 3 moli di glucosio (540 g). (Non è raccomandabile.) Ciascuna molecola di glucosio genera 30 molecole
di ATP quando è ossidata a CO2. La concentrazione di
ATP nelle cellule è mantenuta a circa 2 mM e un adulto di 70 kg ha circa 25 litri di fluido intracellulare. Dato
che la concentrazione di ATP resta costante nelle cellule, calcolate quante volte al giorno, in media, ciascuna
molecola di ATP del corpo è idrolizzata e risintetizzata.
2.15 Assumendo che ci siano 5 3 1013 cellule nel cor-
Figura P2.3 Il Cervino. (Problema 2.16) (Per gentile
concessione dell’Ufficio Turistico di Zermatt.)
venga svolto contro la gravità (cioè state semplicemente salendo in linea retta). Ricordate dal corso introduttivo di fisica che
lavoro (J) = massa (kg) 3 g (m/sec2) 3 altezza guadagnata (m)
po umano e che l’ATP abbia un turnover pari a 109 molecole al minuto in ciascuna cellula, quanti watt consuma il corpo umano? (Un watt è un joule per secondo.)
Assumete che l’idrolisi dell’ATP produca 50 kJ/mole.
in cui g è l’accelerazione dovuta alla gravità (9,8 m/sec2).
Un joule è 1 kg m2/sec2
Quali considerazioni fatte qui porteranno a sottostimare di molto la quantità di barrette di cui avrete bisogno?
2.16 Una barretta energetica (65 g, 1360 kJ) fornisce
2.17 In assenza di ossigeno le cellule consumano glu-
abbastanza energia per salire da Zermatt (altezza 1660 m)
alla cima del Cervino (4478 m, Figura P2.3) o bisognerebbe fermarsi al rifugio Hörnli (3260 m) per mangiarne un’altra? Immaginate che voi e il vostro equipaggiamento abbiate una massa di 75 kg e che tutto il lavoro
cosio a un ritmo alto e costante. Quando si aggiunge
ossigeno, il consumo di glucosio precipita ed è quindi
mantenuto al ritmo più basso. Perché il glucosio è consumato ad alta velocità in assenza di ossigeno e a bassa
velocità in sua presenza?
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CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
94
© 978-88-08-62126-9
QUADRO 2.1
Legami e gruppi chimici incontrati comunemente nelle molecole biologiche
SCHELETRI DI CARBONIO
Il carbonio ha un ruolo unico nella cellula per la sua capacità
di formare forti legami covalenti con altri atomi di carbonio.
Così gli atomi di carbonio si possono unire a formare catene.
alberi ramificati
anelli
catene
C
C
C
C
C
C
C
C
C
C
C
C
C
C
C
C
C
C
C
C
C
C
anche scritto come
anche scritto come
anche scritto come
C
C
LEGAMI COVALENTI
LEGAMI
COVALENTI
IDROCARBURI
Un legame covalente si forma quando due atomi si avvicinano
molto e condividono uno o più elettroni. In un legame singolo
è condiviso un elettrone di ciascuno dei due atomi; in un legame
doppio è condiviso un totale di quattro elettroni.
Ciascun atomo forma un numero fisso di legami covalenti
in una disposizione spaziale definita. Per esempio, il carbonio
forma quattro legami singoli disposti a tetraedro, mentre l'azoto
forma tre legami singoli e l'ossigeno forma due legami singoli
disposti come mostrato sotto.
Carbonio e idrogeno si
combinano formando
composti stabili (o gruppi
chimici) chiamati idrocarburi.
Questi sono non polari, non
formano legami idrogeno e
sono generalmente insolubili
in acqua.
C
N
O
I doppi legami esistono e hanno una disposizione spaziale diversa.
C
N
O
Atomi uniti da due o
più legami covalenti
non possono ruotare
liberamente intorno
all’asse del legame.
Questa limitazione
esercita un’influenza
importante sulla forma
tridimensionale di
molte macromolecole.
H
H
C
H
H
H
H
C
H
metano
gruppo metilico
H2C
CH2
DOPPI LEGAMI ALTERNATI
H2C
La catena di carboni può includere
doppi legami. Se questi sono su atomi
alternati di carbonio, gli elettroni di
legame si muovono all’interno della
molecola, stabilizzando la struttura per
un fenomeno chiamato risonanza.
C
C
C
C
C
H
la struttura vera è intermedia fra queste
C
C
C
C
C
H
H2C
C
C
C
C
H
H
benzene
CH2
H
H2C
←→
C
H
C
H
C
C
C
H2C
CH2
H
H
C
CH2
Doppi legami alternati in un anello
possono generare una struttura molto stabile.
H
H
CH2
H2C
H
CH2
H3C
spesso scritto come
parte della “coda” idrocarburica
di una molecola di acido grasso
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
95
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GRUPPI CHIMICI C–O
GRUPPI CHIMICI C–N
Molti composti biologici contengono un carbonio legato
a un ossigeno. Per esempio,
Le ammine e le ammidi sono due esempi importanti di composti
contenenti un carbonio legato a un azoto.
Le ammine in acqua si combinano con uno ione H+ per
diventare cariche positivamente.
H
alcol
C
L’–OH è chiamato
gruppo ossidrilico.
OH
H
H
aldeide
C
O
H
H
O
C
O
O
C
C
O
acido carbossilico
OH
acido
ammina
C
HO
C
NH2
H
C
alcol
N
C
C
C
citosina (una pirimidina)
H2O
O
OH
acido
C
Il
C
H
N
O
estere
GRUPPO SULFIDRILICO
ammide
H
L’azoto si trova anche in parecchi composti ad anello, compresi
costituenti importanti degli acidi nucleici: purine e pirimidine.
O
C
H2O
C
N
Gli esteri si formano in una reazione
di condensazione fra un acido e un alcol.
O
C
C
H2N
OH
Il –COOH è chiamato
gruppo carbossilico. In
+
acqua perde uno ione
_ H
per diventare –COO .
C
C
H+
N
Le ammidi si formano combinando un acido e un’ammina.
A differenza delle ammine, le ammidi sono prive di carica in
acqua. Un esempio è il legame peptidico che unisce gli
amminoacidi in una proteina.
— è chiamato
Il C—O
gruppo carbonilico.
C
esteri
C
H
C
chetone
H
H+
N
H
SH è chiamato gruppo sulfidrilico. Nell’amminoacido cisteina il gruppo sulfidrilico
può esistere nella forma ridotta
C
SH o più raramente
in una forma ossidata che ha la struttura di un ponte
C
S
S
C
FOSFATI
Il fosfato inorganico è uno ione stabile formato
da acido fosforico H3PO4. È spesso scritto Pi .
Gli esteri fosfati si possono formare fra un fosfato e un gruppo ossidrilico libero.
I gruppi fosfato sono spesso attaccati alle proteine in questo modo.
O
HO
O
P
O
O
_
C
OH
HO
_
O
_
O
P
O
_
C
O
_
O
P
H2O
anche scritto
come
C
_
O
O
P
La combinazione di un fosfato e di un gruppo carbossilico, o di due o più gruppi fosfato, dà un’anidride acida. Poiché composti di questo
genere sono facilmente idrolizzati all’interno della cellula, certe volte si dice che contengono un legame ad “alta energia”.
HO
C
H2O
O
O
OH
O
_
O
P
O
C
_
O
O
O
H2O
O
P
OH
_
O
HO
_
O
P
O
P
O
O
_
H2O
_
O
O
_
_
O
P
O
H2O
legame ad alta energia
acil fosfato (anidride acido
carbossilico-fosforico)
presente in alcuni metaboliti
O
O
_
O
P
O
_
fosfoanidride, un legame
ad alta energia presente
in molecole come ATP
anche scritto come
O
C
O
P
anche scritto come
O
P
P
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
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QUADRO 2.2
L’acqua e la sua influenza sul comportamento delle molecole biologiche
STRUTTURA DELL’ACQUA
L’ACQUA
Due atomi, connessi da un legame covalente, possono esercitare attrazioni
diverse per gli elettroni del legame. In questi casi il legame è polare, con
_
un’estremità leggermente carica negativamente (δ ) e l’altra leggermente carica
+
positivamente (δ ).
H
Le molecole dell’acqua si uniscono
transitoriamente in un reticolo legato da
legami idrogeno. Anche a 37 °C, il 15%
delle molecole d’acqua è unito ad altre
quattro in un complesso a vita breve noto
come “gruppo tremolante”.
δ+
regione
elettropositiva
O
δ
δ+
H
_
regione
elettronegativa
δ
_
Sebbene una molecola d’acqua abbia una carica globale neutra (avendo lo stesso
numero di elettroni e di protoni), gli elettroni sono distribuiti asimmetricamente, il
che rende la molecola polare. Il nucleo dell’ossigeno attira gli elettroni
allontanandoli dai nuclei di idrogeno, che rimangono con una piccola carica netta
positiva. L’eccesso di densità elettronica dell’atomo di ossigeno crea regioni
debolmente negative agli altri due vertici di un tetraedro immaginario.
La natura coesiva dell’acqua è responsabile
di molte delle sue proprietà insolite, come
l’elevata tensione superficiale, il calore
specifico e il calore di vaporizzazione.
LEGAMI IDROGENO
legame idrogeno
0,17 nm
H
H
2δ
_
δ
O
I legami idrogeno sono più forti
quando i tre atomi sono allineati.
lunghezze di legame
δ+
δ+
Poiché sono polarizzate, due molecole
d’acqua adiacenti possono formare un
legame noto come legame idrogeno.
I legami idrogeno hanno soltanto 1/20
della forza di un legame covalente.
H
H
+
O
H
2δ
_
O
H
H
legame idrogeno
0,10 nm
legame covalente
δ+
MOLECOLE IDROFOBICHE
MOLECOLE IDROFILICHE
Le sostanze che si sciolgono prontamente in acqua sono chiamate idrofiliche. Esse
sono composte da ioni o molecole polari che attraggono molecole d’acqua tramite
effetti di carica elettrica. Le molecole d’acqua circondano ciascuno ione o molecola
polare sulla superficie di una sostanza solida e la portano in soluzione.
H
H
O
δ
H
Oδ
H
_
Na+
δ
H
_
δ
_
δ O
O
H
H
+
δ
O
H
Cl
δ+
H
H
H
O
H δ+
H
H
O
H
O
O_
_
H
H
H
H
O
H
_
H
δ+
H
O
H
H
δ+
O
O
O
Le sostanze ioniche come il cloruro di
sodio si sciolgono perché le molecole
d’acqua sono attratte dalla carica positiva
_
(Na+) o negativa (Cl ) di ciascuno ione.
H
O
H
H
H
H
H
H
O
H
N
O
H
C
H
H
H
N
Le molecole che contengono una
preponderanza di legami non polari sono
di solito insolubili in acqua e sono
chiamate idrofobiche. Ciò è vero
specialmente per gli idrocarburi, che
contengono molti legami C–H. Le
molecole d’acqua non sono attratte da
queste molecole e hanno quindi scarsa
tendenza a circondarle e a portarle in
soluzione.
H
C
O
H
C
H
Le sostanze polari come l’urea
si sciolgono perché le loro
molecole formano legami
idrogeno con le molecole
d’acqua circostanti.
H
O
H
H
O
H
H
H
O
H
O
H
O
H
H
C
H
H
O
H
H
O
H
H
H
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
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LÕACQUA COME SOLVENTE
Molte sostanze, come lo zucchero da tavola, si sciolgono in acqua: le loro molecole
si separano l’una dall’altra e ciascuna viene circondata da molecole d’acqua.
Quando una sostanza si scioglie in un
liquido, la miscela viene chiamata
soluzione. La sostanza disciolta (in questo
caso lo zucchero) è il soluto, e il liquido
che lo scioglie (in questo caso l’acqua) è il
solvente. L’acqua è un solvente eccellente
per molte sostanze a causa dei suoi
legami polari.
lo zucchero
si scioglie
molecola
d’acqua
cristallo di zucchero
molecola di zucchero
ACIDI
SCAMBIO DI IONI IDROGENO
Le sostanze che rilasciano ioni idrogeno in soluzione
sono chiamate acidi.
Ioni idrogeno carichi positivamente (H+) possono muoversi
spontaneamente da una molecola d’acqua a un’altra, creando
così due specie ioniche.
+
HCl
H
acido cloridrico
(acido forte)
ione idrogeno
Cl
–
H
ione cloruro
H
O
H
+
H
O
O
H
ione idronio
ione ossidrilico
(acqua che agisce (acqua che agisce
da base debole)
da acido debole)
O
spesso scritta come
O
H+
H
H
Molti degli acidi importanti nella cellula sono solo
parzialmente dissociati e sono perciò acidi deboli,
per esempio, il gruppo carbossilico (–COOH), che
si dissocia in soluzione per dare uno ione idrogeno.
C
H
O
+
H2O
H
OH
ione
idrogeno
C
–
–
ione
ossidrilico
Si noti che questa è una reazione reversibile.
Poiché il processo è rapidamente reversibile, gli ioni idrogeno
si muovono continuamente fra le molecole d’acqua. L’acqua
pura contiene una concentrazione stabile di ioni idrogeno e di
ioni ossidrilici (entrambi 10–7M).
pH
BASI
OH
O
(acido debole)
conc.
di H+
moli/litro
_1
10
10
ACIDO
L’acidità di una
soluzione è definita
dalla concentrazione di
ioni H+ che possiede.
Per convenienza usiamo
la scala di pH, in cui
10
10
10
10
pH = _log10[H+]
_
[H+] = 10 7 moli/litro
_3
_4
_5
_6
_
10 7
_
10 8
ALCALINO
Per l’acqua pura
_2
10
10
10
10
10
10
_9
_10
_11
_12
_13
_14
pH
Le sostanze che riducono il numero di ioni idrogeno in
soluzione sono chiamate basi. Alcune basi, come l’ammoniaca,
si combinano direttamente con ioni idrogeno.
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
NH3
+
+
H
NH4
ammoniaca ione idrogeno
ione ammonio
Altre basi, come l’idrossido di sodio, riducono il numero di ioni
H+ indirettamente, producendo ioni OH– che si combinano
quindi direttamente con ioni H+ per produrre H2O.
Na+
NaOH
idrossido di sodio
(base forte)
ione
sodio
OH–
ione
ossidrilico
Molte basi presenti nelle cellule sono parzialmente dissociate e
sono dette basi deboli. Ciò è vero per composti che
contengono un gruppo amminico (–NH2), che ha una debole
tendenza ad accettare reversibilmente uno ione H+ dall’acqua,
aumentando la quantità di ioni OH– liberi.
–NH2
H+
–NH3+
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
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QUADRO 2.3
I tipi principali di legami non covalenti deboli che tengono insieme le macromolecole
ATTRAZIONI DI VAN DER WAALS
LEGAMI CHIMICI NON COVALENTI DEBOLI
Le molecole organiche possono interagire con altre molecole
tramite tre tipi di forze di attrazione a corto raggio note
come legami non covalenti: attrazioni di van der Waals,
attrazioni elettrostatiche e legami idrogeno. La repulsione dei
gruppi idrofobici dall’acqua è importante anche per piegare
le macromolecole biologiche.
Se due atomi sono troppo vicini si respingono con molta forza.
Per questa ragione un atomo può spesso essere trattato come
una sfera con un raggio fisso. Le “dimensioni” caratteristiche
per ciascun atomo sono specificate da uno specifico raggio di
van der Waals. La distanza di contatto fra due atomi legati non
covalentemente è la somma dei loro raggi di van der Waals.
legame
non covalente
debole
H
C
N
O
raggio
di 0,12 nm
raggio
di 0,2 nm
raggio
di 0,15 nm
raggio
di 0,14 nm
A distanze molto brevi due atomi mostrano una debole
interazione di legame dovuta alle loro cariche elettriche
fluttuanti. I due atomi saranno attratti l’uno dall’altro in
questo modo fino a che la distanza fra i loro nuclei è
approssimativamente uguale alla somma dei loro raggi di van
der Waals. Sebbene siano singolarmente molto deboli, le
attrazioni di van der Waals possono diventare importanti
quando due superfici macromolecolari combaciano molto
bene, perché sono coinvolti molti atomi.
Si noti che quando due atomi formano un legame covalente i
centri dei due atomi (i due nuclei) sono molto più vicini della
somma dei loro raggi di van der Waals. Così
I legami chimici non covalenti deboli hanno meno di 1/20
della forza di un legame covalente forte. Sono abbastanza
forti da fornire un legame stretto soltanto quando se ne
formano simultaneamente molti.
LEGAMI IDROGENO
Come già descritto per l’acqua (vedi Quadro 2.2), i legami
idrogeno si formano quando un atomo di idrogeno è
“intrappolato” fra due atomi che attraggono elettroni (di
solito ossigeno e azoto).
0,4 nm
due atomi
di carbonio
non legati
I legami idrogeno sono più forti quando i tre atomi sono
allineati:
O
H
O
N
H
LEGAMI IDROGENO IN ACQUA
Gli amminoacidi di una catena polipeptidica possono
essere uniti da legami idrogeno che stabilizzano
la struttura della proteina ripiegata.
C
C
H
R
C
C
O
H
N
H
H
legame
peptidico
N
H
O
Le molecole che possono formare legami idrogeno fra loro
possono formare in alternativa legami idrogeno con l’acqua.
A causa di questa competizione con le molecole d’acqua,
i legami idrogeno formati fra due molecole sciolte in acqua
sono relativamente deboli.
C
O
R
C
C
N
C
O
2H2O
C
H
C
H
Due basi, G e C, legate da legami idrogeno nel DNA.
H
N
C
H
O
C
C
H
N
H
N
C
C
C
O
H
C
C
N
N
H
H
C
C
C
N
H
O
C
C
O
2H2O
H
H
N
C
N
N
H
O
N
H
O
H
0,13 nm
due atomi
di carbonio con
un doppio legame
O
Esempi nelle macromolecole:
R
0,15 nm
due atomi
di carbonio con
un legame singolo
N
H
C
C
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
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FORZE IDROFOBICHE
L’acqua forza insieme i gruppi idrofobici, perché
facendo così riduce al minimo i loro effetti dirompenti
sul reticolo d’acqua tenuto insieme da legami
idrogeno. Talvolta si dice che i gruppi idrofobici tenuti
insieme in questo modo sono uniti da “legami
idrofobici”, anche se l’apparente attrazione è in realtà
causata da una repulsione dall’acqua.
H
H
C
C
H
H
H
H
ATTRAZIONI ELETTROSTATICHE
IN SOLUZIONI ACQUOSE
H
H
I gruppi carichi sono schermati dalle loro
interazioni con molecole d’acqua. Le attrazioni
elettrostatiche sono perciò molto deboli in acqua.
H
C
H
H
C
H
O
H
H
O
O
H
P
H
H
H
H
O
H
O
O
O
H
H
H
H
O
O + Mg
O
H
H
H
ATTRAZIONI ELETTROSTATICHE
O
+ H
O
H
H
Le forze d’attrazione agiscono fra gruppi completamente
carichi (legame ionico) e fra i gruppi parzialmente carichi
delle molecole polari.
In modo simile altri ioni in soluzione si possono
raggruppare intorno a gruppi carichi e possono
indebolire ulteriormente le attrazioni elettrostatiche.
Na
+
δ+
δ–
O
+
Na
Cl
+
Cl
Na
O
+
+
Na
+
N
H
Cl
–
La forza di attrazione fra le due cariche, δ e δ , decresce
rapidamente man mano che aumenta la distanza fra le
cariche.
H
H
C
Cl
+
Na
Cl
Nonostante il fatto che sono indebolite da acqua e
sali, le attrazioni elettrostatiche sono molto importanti
nei sistemi biologici. Per esempio, un enzima che lega
un substrato carico positivamente avrà spesso una
catena laterale di un amminoacido carica
negativamente nel posto appropriato.
In assenza di acqua le forze elettrostatiche sono molto
potenti. Esse sono responsabili della forza di minerali
come il marmo e l’agata e della formazione di cristalli nel
comune sale da cucina, NaCl.
Cl–
substrato
Na+
+
–
enzima
un cristallo di sale,
NaCl
H
O
H
H
H
O
O
1 mm
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
100
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QUADRO 2.4
Alcuni tipi di zuccheri comunemente presenti nelle cellule
MONOSACCARIDI
I monosaccaridi di solito hanno la formula generale (CH2O) n, dove n può essere 3, 4, 5, 6, 7 o 8, e hanno due o più gruppi
O
ossidrilici. Essi contengono un gruppo aldeidico (
C
H
) e si chiamano aldosi, o gruppi chetonici (
3 carboni (TRIOSI)
5 carboni (PENTOSI)
C
O
) e si chiamano chetosi.
6 carboni (ESOSI)
O
H
C
O
H
ALDOSI
C
O
H
C
H
C
OH
H
C
OH
HO
C
H
H
C
OH
H
C
OH
H
C
OH
H
C
OH
H
C
OH
H
C
OH
H
C
OH
H
C
OH
H
H
H
gliceraldeide
ribosio
glucosio
H
H
H
CHETOSI
H
H
H
C
OH
C
O
HO
C
H
H
C
OH
C
O
C
OH
H
C
OH
H
C
OH
C
O
H
C
OH
H
C
OH
C
OH
H
C
OH
H
C
OH
H
H
H
diidrossiacetone
ribulosio
fruttosio
FORMAZIONE DELL’ANELLO
ISOMERI
In soluzione acquosa, il gruppo aldeidico o chetonico di uno
zucchero tende a reagire con un gruppo ossidrilico della
stessa molecola, chiudendo così la molecola in un anello.
Molti monosaccaridi differiscono soltanto nella disposizione
spaziale degli atomi, cioè sono isomeri. Per esempio, glucosio,
galattosio e mannosio hanno la stessa formula (C6H12O6) ma
differiscono nella disposizione dei gruppi intorno a uno o due
atomi di carbonio.
O
H
H
HO
H
H
2
3
4
5
C
OH
C
H
C
OH
C
OH
CH2OH
6
1C
H
H
O
5
H
H
4
OH
HO
2
3
4
C
C
OH
C
OH
CH2OH
5
1
glucosio
CH2OH
OH
H
CH2OH
5
H
HO
H
2
3
4
OH
CH2OH
OH
H
H
O
O
H
H
CH2OH
6
C
1
H
HO
OH
H
3
2
OH
OH
1
ribosio
O
H
OH
H
H
OH
glucosio
H
Si noti che ciascun atomo
di carbonio ha un numero.
H
O
H
OH
H
OH
H
H
OH
OH
CH2OH
H
H
galattosio
HO
O
H
OH
OH
H
H
OH
H
mannosio
Queste lievi differenze producono soltanto piccoli cambiamenti
nelle proprietà chimiche degli zuccheri. Ma sono riconosciute
da enzimi e altre proteine e perciò possono avere effetti
biologici importanti.
2 Chimica e bioenergetica della cellula
CAPITOLO
101
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LEGAMI a E b
DERIVATI DEGLI ZUCCHERI
Il gruppo ossidrilico del carbonio che porta l’aldeide
o il chetone può spostarsi rapidamente da una
posizione all’altra. Queste due posizioni sono
chiamate α e β.
I gruppi ossidrilici di un monosaccaride CH2OH
O
semplice possono essere sostituiti
OH
da altri gruppi. Per esempio
O
CH2OH
O
O
OH
HO
OH
HO
OH
OH
H
OH
NH2
H
O
OH
C
glucosammina
O
NH
β ossidrile
N-acetilglucosammina C
α ossidrile
Non appena uno zucchero è unito a un altro, la
forma α o β diventa fissa.
acido glucuronico
O
OH
HO
CH3
DISACCARIDI
OH
CH2OH
α glucosio
β fruttosio
O
Il carbonio che porta l’aldeide o il
chetone può reagire con qualunque
gruppo ossidrilico di un secondo
zucchero a formare un disaccaride.
Il legame si chiama legame glicosidico.
+
OH
HO
HO
OH
HO
OH
OH
O
maltosio (glucosio + glucosio)
lattosio (galattosio + glucosio)
saccarosio (glucosio + fruttosio)
O
HOCH2
HO
OH
HO
Qui è mostrata la reazione che forma
il saccarosio.
CH2OH
H2O
CH2OH
Tre disaccaridi comuni sono
O
HOCH2
O
OH
CH2OH
OH
saccarosio
OLIGOSACCARIDI E POLISACCARIDI
Grosse molecole lineari e ramificate si possono formare da semplici subunità
ripetute di zuccheri. Brevi catene sono chiamate oligosaccaridi, mentre lunghe
catene sono chiamate polisaccaridi. Il glicogeno, per esempio, è un polisaccaride
composto interamente da unità di glucosio unite insieme.
glicogeno
punti di ramificazione
OLIGOSACCARIDI COMPLESSI
In molti casi una sequenza di zuccheri
non è ripetitiva. Sono possibili molte
molecole diverse. Questi
oligosaccaridi complessi sono di solito
uniti a proteine o a lipidi, come nel
caso di questo oligosaccaride che è
parte di una molecola della superficie
cellulare che definisce un particolare
gruppo sanguigno.
CH2OH
CH2OH
O
HO
CH2OH
O
HO
O
O
O
NH
C
O
O
CH3
O
OH
O
OH
CH3
HO
OH
NH
C
O
CH3
OH
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
102
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QUADRO 2.5
Acidi grassi e altri lipidi
ACIDI GRASSI COMUNI
TRIACILGLICEROLI
Questi sono acidi carbossilici
con lunghe code
idrocarburiche.
COOH
COOH
COOH
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH
CH2
CH2
CH
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH3
CH2
CH2
CH2
CH3
acido
palmitico
(C16)
acido
stearico (C18)
Gli acidi grassi sono conservati come riserva di energia
(grassi e oli) tramite un legame estere al glicerolo
per formare triacilgliceroli, noti anche come trigliceridi.
O
H2C
O
HC
O
H2C
O
C
O
H2C
OH
C
HC
OH
O
H2C
OH
C
glicerolo
Esistono centinaia di specie diverse di acidi grassi. Alcuni hanno uno o più doppi legami nelle loro
code idrocarburiche e sono detti insaturi. Gli acidi grassi senza doppi legami sono saturi.
–
O
–
O
O
O
C
C
Questo doppio
legame è rigido
e crea un
ripiegamento
nella catena. Il
resto della
catena è libero di
ruotare intorno
agli altri legami
C–C.
acido
oleico
acido
stearico
CH2
CH3
acido
oleico (C18)
modello a spazio pieno
scheletro di carbonio
INSATURI
GRUPPO CARBOSSILICO
SATURI
FOSFOLIPIDI
I fosfolipidi sono i costituenti principali
delle membrane cellulari.
Se libero, il gruppo carbossilico
di un acido grasso sarà ionizzato.
gruppo
idrofilico
O
colina
O
C
_
O
O
_
O
P
O
CH2
Ma di solito è legato ad altri gruppi
a formare esteri
CH
CH2
O
C
O
C
code idrofobiche
di acidi grassi
o ammidi.
O
modello a spazio
pieno del fosfolipide
fosfatidilcolina
C
N
H
struttura generale
di un fosfolipide
Nei fosfolipidi due dei gruppi –OH del glicerolo sono
legati ad acidi grassi, mentre il terzo gruppo –OH è
legato ad acido fosforico. Il fosfato è ulteriormente
legato a un piccolo gruppo polare di vario tipo (colina).
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
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AGGREGATI LIPIDICI
POLIISOPRENOIDI
polimeri di isoprene
a lunga catena
Gli acidi grassi hanno una testa
idrofilica e una coda idrofobica.
O–
micella
O
In acqua possono formare un film
superficiale o formare piccole micelle.
P
O–
O
I loro derivati possono formare aggregati più grandi tenuti insieme da forze idrofobiche.
I trigliceridi possono formare goccioline
sferiche di grasso nel citoplasma
della cellula.
I fosfolipidi e i glicolipidi formano doppi strati lipidici
autosigillanti che sono la base di tutte le membrane
cellulari.
200 nm
o più
4 nm
ALTRI LIPIDI
STEROIDI
Si definiscono lipidi le molecole delle cellule che
sono insolubili in acqua ma solubili nei solventi
organici. Altri due tipi comuni di lipidi sono gli
steroidi e i poliisoprenoidi. Entrambi sono
composti da unità di isoprene.
CH3
C
CH2
CH
CH2
isoprene
Gli steroidi hanno una struttura comune ad anelli multipli.
OH
HO
colesterolo – presente in molte membrane
O
testosterone – ormone steroide maschile
GLICOLIPIDI
Come i fosfolipidi, questi composti sono costituiti da una regione
idrofobica, contenente due lunghe code idrocarburiche, e una regione
polare, che, però, a differenza dei fosfolipidi, non contiene fosfato ma
uno o più residui di zuccheri.
C
galattosio
OH
H
H
C
C
H
C
O
CH2
zucchero
H
C NH
O
un glicolipide
semplice
dolicol fosfato – usato per
portare zuccheri attivati nella
sintesi associata alla
membrana di glicoproteine e
di alcuni polisaccaridi
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
104
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QUADRO 2.6
Una rassegna dei nucleotidi
O
BASI
NH2
C
NH2
HC
C
C
citosina
C
N
H
uracile
C
N
H
N
HC
HC
U
4
5
N
7
3N
6
C
NH
C
HC
timina
T
2
5
1N
4
2
1
N
3
N
PIRIMIDINA
FOSFATI
PURINA
Un nucleotide consiste di una base
contenente azoto, uno zucchero a cinque
carboni e uno o più gruppi fosfato.
O
P
O
–O
P
O
O–
P
P
come in
ADP
CH2
–O
O–
P
O
CH2
O
O
O–
P
CH2
O
O–
come
in
ATP
4
Il fosfato rende un nucleotide carico
negativamente.
ZUCCHERI
H
H
OH
OH
H
ZUCCHERO
uno zucchero
a cinque carboni
O
1’
3’
2’
H
H
OH
sono usate due specie
HOCH2
Ciascun carbonio numerato dello zucchero
di un nucleotide è seguito da un segno primo;
perciò si parla del “carbonio 5 primo”, ecc.
H
OH
β-D-2-deossiribosio usato
nell’acido deossiribonucleico
H
H
H
OH
β-D-ribosio usato
nell’acido ribonucleico
OH
O
H
2
OH
O
H
4’
3
La base è legata allo
stesso carbonio (C1)
usato nei legami
zucchero-zucchero.
H
PENTOSIO
C
1
HOCH2
C 5’
ZUCCHERO
O
H
I nucleotidi
sono subunità
degli acidi nucleici.
O
O
N
O–
O
O
P
N
5
O
O
O–
O
–O
N
FOSFATO
O
NH2
BASE
O–
O
C
N
NH2
come in
AMP
CH2
C
N
H
legame
N-glicosidico
BASE
–O
NH
G
LEGAME FRA LA BASE
E LO ZUCCHERO
NUCLEOTIDI
I fosfati sono normalmente uniti
all’ossidrile C5 del ribosio o del
deossiribosio (designato 5’). Sono
comuni mono-, di- e trifosfati.
C
HC
guanina
O
CH
N
C
N
C
N
H
C
O
6
9
N
N
A
N
H
8
H3C
C
HC
O
O
O
Le basi sono composti ad anello contenenti
azoto, o pirimidine o purine.
C
N
adenina
NH
HC
H
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
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Un nucleoside o un nucleotide prendono il nome dalla loro base azotata.
NOMENCLATURA
BASE
NUCLEOSIDE
ABBR.
adenina
adenosina
A
guanina
guanosina
G
citosina
citidina
C
uracile
uridina
U
timina
timidina
T
base
Le abbreviazioni a una lettera sono
usate in vario modo per (1) la base da sola,
(2) il nucleoside o (3) l’intero nucleotide
(il contesto rende di solito chiaro a che cosa
ci si riferisce). Quando il contesto non è
sufficiente si aggiungono i termini “base”,
“nucleoside”, “nucleotide” o – come negli
esempi sotto – si usa il codice completo dei
nucleotidi a 3 lettere.
AMP
dAMP
UDP
ATP
zucchero
BASE + ZUCCHERO = NUCLEOSIDE
base
= adenosina monofosfato
= deossiadenosina monofosfato
= uridina difosfato
= adenosina trifosfato
P
zucchero
BASE + ZUCCHERO + FOSFATO = NUCLEOTIDE
ACIDI NUCLEICI
I NUCLEOTIDI HANNO MOLTE ALTRE FUNZIONI
I nucleotidi sono uniti insieme da un
legame fosfodiestere fra gli atomi di
carbonio 5’ e 3’ per formare acidi
nucleici. La sequenza lineare dei
nucleotidi in un acido nucleico è
abbreviata comunemente con un
codice a una lettera,
A—G—C—T—T—A—C—A,
con l’estremità 5’ a sinistra.
O
–O
P
O
NH2
legami fosfoanidride
N
O
–O
O
P
O
P
O–
N
O
O
O–
P
O
N
CH2
N
O
O–
CH2
O
OH
esempio: ATP (o ATP )
OH
zucchero
+
O
OH
2
NH2
Si combinano con altri gruppi per formare coenzimi.
base
N
N
P
O
CH2
O–
O
zucchero
HS
OH
estremità 5’
della catena
O
–O
Portano energia chimica nei loro legami fosfoanidride facilmente idrolizzabili.
base
O–
–O
1
P
5’
CH2
O
O–
H
H
C
C
N
H
H
H
O
H
H
C
C
C
N
H
H
H
O
H
CH3 H
C
C
C
HO
O
O
C
P
O
O
O–
CH3 H
O
esempio: coenzima A (CoA)
O
O
3
3’ O
–O
P
Sono usati come molecole di segnalazione specifiche nella cellula.
esempio: AMP ciclico (cAMP)
O
esempio: DNA
N
N
O
base
5’ CH2
P
O–
O
NH2
legame
fosfodiestere
CH2
CH2
O
N
O
O
zucchero
O
3’ OH
estremità 3’
della catena
P
O–
O
OH
O
O–
base
zucchero
N
N
P
N
OH
O–
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
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QUADRO 2.7
Energia libera e reazioni biologiche
L’IMPORTANZA DELL’ENERGIA LIBERA PER LE CELLULE
La vita è possibile per la complessa rete di reazioni chimiche
interagenti che si verificano in ogni cellula. Osservando le
vie metaboliche che compongono questa rete, si potrebbe
sospettare che la cellula abbia avuto la capacità di evolvere
un enzima per svolgere qualunque reazione di cui ha
bisogno. Ma non è così. Sebbene gli enzimi siano catalizzatori
potenti, possono accelerare soltanto quelle reazioni che sono
termodinamicamente possibili; le altre reazioni procedono
nelle cellule soltanto perché sono accoppiate a reazioni molto
favorevoli che le spingono. Se una reazione può avvenire
spontaneamente o invece ha bisogno di essere accoppiata
a un’altra reazione è una questione centrale in biologia. La
risposta si ottiene riferendosi a una quantità chiamata energia
libera: il cambiamento totale di energia libera durante una
serie di reazioni determina se l’intera sequenza di reazioni può
avvenire o no. In questo quadro spiegheremo alcune delle
idee fondamentali – derivate da una branca speciale della
chimica e della fisica chiamata termodinamica – necessarie
per comprendere che cos’è l’energia libera e perché è così
importante per le cellule.
L’ENERGIA RILASCIATA DA CAMBIAMENTI NEI LEGAMI CHIMICI È CONVERTITA IN CALORE
SCATOLA
CELLULA
MARE
UNIVERSO
Un sistema chiuso è definito come un insieme di molecole che
non scambia materia con il resto dell’universo (per esempio, la
“cellula in una scatola” mostrata sopra). Qualunque sistema di
questo tipo conterrà molecole con un’energia totale E. Questa
energia sarà distribuita in vari modi: in parte come energia di
traslazione delle molecole, in parte come energie vibrazionali
e rotazionali, ma la maggior parte come energia di legame
fra i singoli atomi che compongono le molecole. Supponiamo
che nel sistema avvenga una reazione. La prima legge della
termodinamica pone una restrizione ai tipi possibili di reazioni:
essa dice che “in ogni processo, l’energia totale dell’universo
rimane costante”. Per esempio, supponiamo che la reazione
A n B avvenga in qualche punto della scatola e rilasci una
grande quantità di energia di legame chimico. Questa energia
inizialmente aumenterà l’intensità dei movimenti molecolari
(di traslazione, vibrazionali e rotazionali) nel sistema, che
equivale ad aumentare la sua temperatura. Tuttavia, questi
maggiori movimenti verranno presto trasferiti fuori dal sistema
da una serie di collisioni molecolari che scaldano prima le
pareti della scatola e poi il mondo esterno (rappresentato dal
mare nel nostro esempio). Alla fine il sistema ritorna alla sua
temperatura iniziale, quando tutta l’energia chimica di legame
rilasciata nella scatola è stata convertita in energia di calore e
trasferita fuori dalla scatola nell’ambiente. Secondo la prima
legge, il cambiamento nell’energia nella scatola (DEscatola,
che indicheremo con DE) deve essere uguale e opposto alla
quantità di energia di calore trasferita, che designeremo come
h: cioè, DE = –h. Così l’energia nella scatola (E) diminuisce
quando il calore lascia il sistema.
E può anche cambiare durante una reazione dovuta
all’esecuzione di un lavoro nel mondo esterno. Per esempio,
supponiamo che vi sia un piccolo aumento nel volume (DV)
della scatola durante una reazione. Poiché le pareti della scatola
devono spingere contro la pressione costante (P) dell’ambiente
per espandersi, ciò produce un lavoro nel mondo esterno e
richiede energia. L’energia usata è P(DV), che secondo la prima
legge deve far diminuire l’energia nella scatola (E) della stessa
quantità. Nella maggior parte delle reazioni l’energia chimica
di legame è convertita sia in lavoro che in calore. L’entalpia
(H) è una funzione composita che include entrambi, sia lavoro
che calore (H = E + PV). Per essere rigorosi, è il cambiamento
in entalpia (DH) di un sistema chiuso, e non il cambiamento
in energia, che è uguale al calore trasferito al mondo esterno
durante una reazione. Le reazioni in cui H diminuisce rilasciano
calore nell’ambiente e sono dette “esotermiche”, mentre le
reazioni in cui H aumenta assorbono calore dall’ambiente
e sono dette “endotermiche”. Così, –h = DH. Tuttavia il
cambiamento di volume è trascurabile nella maggior parte delle
reazioni biologiche, quindi con una buona approssimazione
_h = ∆H =
~ ∆E
LA SECONDA LEGGE DELLA TERMODINAMICA
Consideriamo un contenitore in cui vi sono 1000 monete tutte
a testa in su. Se il contenitore viene scosso vigorosamente,
sottoponendo le monete ai tipi di movimenti casuali che tutte
le molecole subiscono a causa delle loro frequenti collisioni
con altre molecole, alla fine circa metà delle monete sarà a
testa in giù. La ragione di questo riorientamento è che c’è
soltanto un unico modo in cui lo stato originale ordinato delle
monete può essere ripristinato (ogni moneta deve essere a
testa in su), mentre ci sono molti modi diversi (circa 10298) di
ottenere uno stato disordinato in cui c’è una miscela uguale
di teste e di croci; in effetti ci sono più modi di ottenere uno
stato 50-50 che di ottenere qualunque altro stato. Ciascuno
stato ha una probabilità di verificarsi che è proporzionale
al numero di modi in cui può realizzarsi. La seconda legge
della termodinamica dice che “i sistemi cambieranno
spontaneamente da stati a bassa probabilità a stati a
probabilità maggiore”. Poiché gli stati a probabilità minore
sono più “ordinati” degli stati ad alta probabilità, la seconda
legge può essere riscritta: “l’universo cambia costantemente in
modo da diventare più disordinato”.
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
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L’ENTROPIA, S
La seconda legge (ma non la prima legge) permette di prevedere
la direzione di una particolare reazione. Ma per renderla utile per
questo scopo c’è bisogno di una misura appropriata della probabilità
o, in modo equivalente, del grado di disordine di uno stato.
L’entropia (S) è questa misura. È una funzione logaritmica della
probabilità che il cambiamento di entropia (DS) che avviene quando
la reazione A n B converte una mole di A in una mole
di B sia
∆S = R In p B /pA
in cui pA e pB sono le probabilità dei due stati A e B, R è la costante
dei gas (8,3 J K–1 mole) e DS è misurata in unità di entropia (eu).
Nel nostro esempio iniziale di 1000 monete, la probabilità relativa
di tutte teste (stato A) rispetto a metà teste e metà croci (stato B)
è uguale al rapporto del numero di modi diversi in cui si possono
ottenere i due risultati. Si può calcolare che pA = 1 e
pB = 1000!(500! 3 500!) = 10299. Perciò il cambiamento di
entropia per il riorientamento delle monete quando il loro
contenitore viene scosso vigorosamente, ottenendo una miscela
uguale di teste e di croci, è R ln (10298), o circa 1370 eu per mole di
questi contenitori (6 3 1023 contenitori). Vediamo che, poiché DS
definito sopra è positivo per la transizione dallo stato A allo stato B
(pB /pA > 1), le reazioni con un grande aumento di entropia (per le
quali, cioè, DS > 0) sono favorite e avverranno spontaneamente.
Come discusso nel Capitolo 2, l’energia termica provoca
movimenti casuali delle molecole. Poiché il trasferimento di calore
da un sistema chiuso al suo ambiente aumenta il numero di
disposizioni diverse che le molecole nel mondo esterno possono
avere, la loro entropia aumenta. Si può dimostrare che il rilascio
di una quantità fissa di energia di calore ha un effetto di disordine
maggiore a bassa temperatura che ad alta temperatura e che
il valore di DS per l’ambiente, come definito sopra (DSmare), è
precisamente uguale alla quantità di calore trasferito all’ambiente
dal sistema (h) diviso per la temperatura assoluta (T):
∆Smare = h / T
L’ENERGIA LIBERA DI GIBBS, G
Quando si ha a che fare con un sistema biologico chiuso, sarebbe
auspicabile avere un modo semplice di prevedere se nel sistema
una data reazione avverrà spontaneamente o no. Abbiamo visto
che la questione cruciale è se il cambiamento di entropia per
l’universo sia positivo o negativo quando avviene la reazione. Nel
nostro sistema idealizzato, la cellula in una scatola, ci sono due
componenti separati nel cambiamento di entropia dell’universo –
il cambiamento di entropia per il sistema chiuso nella scatola e il
cambiamento di entropia per il “mare” circostante – ed entrambi
devono essere sommati prima di poter fare una previsione. Per
esempio, è possibile che una reazione assorba calore e diminuisca
così l’entropia del mare (DSmare < 0) e allo stesso tempo provochi
un grado così alto di disordine all’interno della scatola
(DSscatola > 0) che il totale DSuniverso = DSmare + DSscatola è maggiore di
0. In questo caso la reazione avverrà spontaneamente, anche se il
mare cede calore alla scatola durante la reazione. Un esempio di
una reazione di questo tipo è lo scioglimento di cloruro di sodio
in un becker contenente acqua (la “scatola”), che è un processo
spontaneo anche se la temperatura dell’acqua diminuisce quando
il sale va in soluzione.
I chimici hanno trovato utile definire un numero di nuove
“funzioni composite” che descrivono combinazioni di proprietà
fisiche di un sistema. Le proprietà che possono essere combinate
includono la temperatura (T), la pressione (P), il volume (V),
l’energia (E) e l’entropia (S). L’entalpia (H) è una di queste
funzioni composite. Ma la funzione composita di gran lunga
più utile per i biologi è l’energia libera di Gibbs, G. Essa serve da
sistema di calcolo che permette di dedurre il cambiamento di
entropia dell’universo prodotto da una reazione chimica nella
scatola, mentre evita qualunque considerazione separata del
cambiamento di entropia nel mare. La definizione di G è
G = H _ TS
in cui, per una scatola di volume V, H è l’entalpia descritta sopra
(E + PV), T è la temperatura assoluta e S è l’entropia. Ciascuna
di queste quantità si applica soltanto all’interno della scatola.
Il cambiamento in energia libera durante una reazione nella
scatola (il G dei prodotti meno il G dei materiali di partenza) è
indicato come DG e, come dimostreremo adesso, è una misura
diretta della quantità di disordine che si crea nell’universo quando
avviene la reazione.
A temperatura costante il cambiamento in energia libera (DG)
durante una reazione è uguale a DH – TDS. Ricordando che
DH = –h, il calore assorbito dal mare, avremo
_∆G = _∆H + T∆S
_∆G = h + T∆S, così _∆G/T = h/T + ∆S
Ma h/T è uguale al cambiamento in entropia del mare (DSmare) e il
DS nell’equazione precedente è DSscatola. Perciò
_∆G/T = ∆S
mare +
∆Sscatola = ∆Suniverso
Concludiamo che il cambiamento in energia libera è una misura
diretta del cambiamento in entropia dell’universo. Una reazione
procederà nella direzione che provoca un cambiamento in
energia libera (DG) minore di zero, perché in questo caso ci sarà
un cambiamento positivo di entropia nell’universo quando la
reazione avviene.
Per una serie complessa di reazioni accoppiate che coinvolgono
molte molecole diverse, il cambiamento totale in energia libera
può essere calcolato semplicemente sommando le energie
libere di tutte le diverse specie molecolari dopo la reazione e
confrontando questo valore con la somma delle energie libere
prima della reazione; per sostanze comuni i valori necessari di
energia libera si possono trovare in tabelle pubblicate. In questo
modo si può prevedere la direzione di una reazione e controllare
così facilmente la fattibilità di un meccanismo proposto. Così,
per esempio, dai valori osservati per la grandezza del gradiente
protonico elettrochimico attraverso la membrana mitocondriale
interna e il DG per l’idrolisi di ATP all’interno del mitocondrio, si
può essere certi che l’ATP sintasi richiede il passaggio di più di un
protone per ciascuna molecola di ATP che sintetizza.
Il valore di DG per una reazione è una misura diretta di quanto la
reazione è lontana dall’equilibrio. Il grande valore negativo per
l’idrolisi dell’ATP in una cellula riflette semplicemente il fatto che
le cellule tengono la reazione di idrolisi dell’ATP fino a 10 ordini
di grandezza lontana dall’equilibrio. Se una reazione raggiunge
l’equilibrio, DG = 0, la reazione procede allora a velocità
esattamente uguali nella direzione in avanti e in quella
all’indietro. Per l’idrolisi dell’ATP l’equilibrio è raggiunto quando
gran parte dell’ATP è stata idrolizzata, come succede in una
cellula morta.
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
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QUADRO 2.8
Dettagli dei 10 passaggi della glicolisi
Per ciascun passaggio la parte della molecola che subisce un cambiamento è ombreggiata in azzurro
e il nome dell’enzima che catalizza la reazione è in un riquadro giallo.
Passaggio 1
CH2OH
Il glucosio è fosforilato da ATP per
formare uno zucchero fosfato. La
carica negativa del fosfato impedisce
il passaggio dello zucchero fosfato
attraverso la membrana plasmatica,
intrappolando il glucosio dentro la
cellula.
CH2O
O
+
OH
HO
P
O
esochinasi
ATP
OH
+
OH
HO
+
ADP
H+
OH
OH
OH
glucosio
glucosio 6-fosfato
Passaggio 2
Un riarrangiamento
C1
P
6 CH2O
rapidamente
5
O
H C
OH
reversibile della
fosfoglucosio
2
isomerasi
struttura chimica
HO
C
H
4
1
(isomerizzazione)
3
OH
muove l’ossigeno HO
2
OH
3
H C
OH
4
carbonilico dal
carbonio 1 al
H C
OH
OH
5
carbonio 2, formando
P
CH2O
(forma ad anello)
un chetosio da un
aldosio. (Vedi Quadro
(forma a catena aperta)
2.4 pp. 100-101.)
glucosio 6-fosfato
1 CH2OH
C
O
C
H
2
HO
H
H
4
OH2C
P
3
6
C
OH
C
OH
CH2O
1
HO
2
3
OH
4
5
CH2OH
O
5
OH
(forma ad anello)
P
(forma a catena aperta)
fruttosio 6-fosfato
Passaggio 3
Il nuovo gruppo ossidrilico sul
carbonio 1 è fosforilato da ATP, P
in preparazione per la
formazione di due zuccheri fosfati
a tre carboni. L’ingresso degli
zuccheri nella glicolisi è controllato
a livello di questo passaggio
attraverso la regolazione
dell’enzima fosfofruttochinasi.
OH2C
O
CH2OH
fosfofruttochinasi
+
HO
+
H
+
OH
fruttosio 1,6-bifosfato
C
CH2O
O
ADP
OH
fruttosio 6-fosfato
OH2C
P
+
OH
OH
P
HO
HO
OH
OH
(forma ad anello)
C
CH2O
P
O
aldolasi
H
H
C
OH
H
C
OH
CH2O
HO
C
CH2O
O
H
C
+
diidrossiacetone
fosfato
O
C
H
diidrossiacetone fosfato
H
C
OH
CH2O
H
P
C
P
triosio fosfato isomerasi
O
O
P
H
(forma a catena aperta)
fruttosio 1,6-bifosfato
CH2OH
C
H
Passaggio 5
L’altro prodotto
del passaggio 4,
il diidrossiacetone
fosfato, è isomerizzato
per formare
gliceraldeide 3-fosfato.
CH2O
O
HO
CH2O
P
OH2C
ATP
Passaggio 4
Lo zucchero a sei
carboni viene tagliato
per produrre due
molecole a tre carboni.
Soltanto la
gliceraldeide 3-fosfato
può procedere
immediatamente nella
glicolisi.
P
C
OH
CH2O
P
gliceraldeide 3-fosfato
gliceraldeide
3-fosfato
P
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
109
© 978-88-08-62126-9
Passaggio 6
gliceraldeide 3-fosfato
deidrogenasi
H
O
Le due molecole di gliceraldeide
3-fosfato sono ossidate. La fase
C
+
di generazione dell’energia della
H C
OH
glicolisi inizia nel momento in
cui si formano NADH e un
CH2O P
nuovo legame anidride ad alta
gliceraldeide 3-fosfato
energia (vedi Figura 2.46).
Passaggio 7
O
O
H
Pi
+
C
CH2O
P
H
CH2O
C
C
fosfoglicerato mutasi
C
OH
2
CH2O
H
O
O
O
C
P
CH2OH
C
P
H2O
+
ATP
C
piruvato chinasi
O
+
–
O
O
+
P
CH2
C
Il trasferimento ad ADP del
gruppo fosfato ad alta energia
che era stato generato nel
passaggio 9 forma ATP,
completando la glicolisi.
O
fosfoenolpiruvato
–
O
O
–
C
enolasi
2-fosfoglicerato
Passaggio 10
P
CH2OH
–
O
O
2-fosfoglicerato
C
C
C
P
3
3-fosfoglicerato
H
O–
O
1
La rimozione di acqua
dal 2-fosfoglicerato crea
un legame enol fosfato
ad alta energia.
P
3-fosfoglicerato
O–
O
ADP
+
H+
C
O
CH2
CH3
fosfoenolpiruvato
piruvato
RISULTATO NETTO DELLA GLICOLISI
O
O
–
C
CH2OH
C
O
NADH
OH
HO
ATP
O–
O
OH
ATP
O
CH3
ATP
OH
ATP
C
NADH
ATP
ATP
C
O
CH3
glucosio
ATP
OH
CH2O
O
Passaggio 9
+
C
P
H
O–
C
ADP
1,3-bifosfoglicerato
Il restante legame estere fosfato nel
3-fosfoglicerato, che ha un’energia
libera di idrolisi relativamente
bassa, viene spostato dal carbonio
3 al carbonio 2 per formare
2-fosfoglicerato.
P
O
fosfoglicerato chinasi
OH
Passaggio 8
+ H+
NADH
OH
1,3-bisfosfoglicerato
+
C
P
C
H
C
Il trasferimento ad ADP
del gruppo fosfato ad
alta energia che era
stato generato nel
passaggio 6 forma ATP.
+
NAD+
O
O
Oltre al piruvato, i prodotti netti sono due molecole
di ATP e due molecole di NADH
due molecole
di piruvato
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
110
© 978-88-08-62126-9
QUADRO 2.9
Il ciclo completo dellÕacido citrico
+
NAD+
NADH + H
coenzima A
O
CH3 C
Il ciclo completo dell’acido citrico. I due
carboni dell’acetil CoA che entrano in
questo giro del ciclo (ombreggiati in rosso)
verranno convertiti in CO2 nei giri
successivi del ciclo: sono i due carboni
ombreggiati in azzurro che sono
convertiti in CO2 in questo ciclo.
HS CoA
–
COO
CO2
piruvato
O
acetil CoA
(2C)
CH3 C S CoA
ciclo successivo
NADH + H
COO–
–
COO
Passaggio 8
H C OH
CH2 malato (4C)
COO–
H2O
C O
CH2
–
COO
+
NAD+
HS CoA
–
COO
COO–
CH2
Passaggio 1 HO
C
ossalacetato (4C)
COO–
Passaggio 2
CH2
COO–
C O
CH2
–
COO
COO
isocitrato (6C)
CH2
citrato (6C)
HC
ossalacetato (4C)
COO
–
HO CH
COO–
CICLO DELL’ACIDO CITRICO
NAD+
Passaggio 3
H2O
–
COO
fumarato (4C)
Passaggio 7
–
α-chetoglutarato (5C)
COO–
CH
CH
succinil CoA (4C)
succinato (4C)
COO–
Passaggio 6
COO–
CH2
CH2
FADH2
H 2O
Passaggio 5
Passaggio 4
CH2
CH2
GTP
HS CoA
GDP
+
Pi
CH2
+
CO2
CH2
C O
COO–
NAD+
C O
COO–
FAD
–
COO
NADH + H
HS CoA
S CoA
NADH + H
+
CO2
Dettagli degli otto passaggi sono mostrati sotto. Per ciascun passaggio la parte della molecola che subisce un cambiamento
è ombreggiata in azzurro e il nome dell’enzima che catalizza la reazione è in un riquadro giallo.
Passaggio 1
Dopo che l’enzima ha rimosso
–
O C S CoA
COO
un protone dal gruppo CH3
citrato
–
sintasi
CH2
dell’acetil CoA, il CH2
C O
O C S CoA
carico negativamente forma
+
–
HO
C
COO
un legame con un carbonio
CH2
CH3
carbonilico dell’ossalacetato.
CH2
–
COO
La successiva perdita per
–
COO
idrolisi del coenzima A (CoA)
spinge la reazione fortemente
acetil CoA
ossalacetato
intermedio S-citril-CoA
in avanti.
Passaggio 2
Una reazione di
isomerizzazione, in cui
viene prima rimossa
acqua e quindi aggiunta
di nuovo, sposta il
gruppo ossidrilico da un
atomo di carbonio a
quello vicino.
–
COO
C
H
HO
C
COO–
H
C
H
H
COO–
citrato
–
COO
H2O
H
aconitasi
H2O
–
COO
H2O
CH2
HO
C
– + HS CoA + H+
COO
CH2
–
COO
citrato
–
COO
H2O
C
H
H
C
H
C
COO–
H
C
COO–
C
H
HO
C
H
COO–
intermedio cis-aconitato
H2O
COO–
isocitrato
CAPITOLO
2 Chimica e bioenergetica della cellula
111
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Passaggio 3
Nel primo dei quattro
passaggi di ossidazione del
ciclo, il carbonio che porta il
gruppo ossidrilico è convertito
in gruppo carbonilico. Il
prodotto immediato è
instabile e perde CO2 mentre
è ancora attaccato all’enzima.
COO–
H
C
COO–
isocitrato
deidrogenasi
H
H
C
COO
HO
C
H
COO
H
NAD+
–
+
NADH + H
isocitrato
H
C
H
H
C
H
C
O
COO
C
O
H
–
COO
+
H
H
C
H
C
O
CO2
COO
complesso della α-chetoglutarato deidrogenasi
+ HS CoA
NAD+
NADH + H
C
H
H
C
H
C
O
succinil-CoA
–
COO
–
COO
H
C
H
H
C
H
C
O
succinil-CoA sintetasi
H
C
H
H
C
H
–
COO
H2O
S CoA
Pi
GTP
GDP
succinil-CoA
succinato
COO
–
C
H
H
C
H
COO
COO
COO
C
–
C
H
COO
–
COO
fumarasi
C
HO
C
H
H
C
H
COO–
H2O
fumarato
malato
COO–
HO
C
H
H
C
H
–
COO
malato
–
fumarato
–
–
H
C
FADH2
FAD
H
COO
–
succinato deidrogenasi
H
Passaggio 8
H
S CoA
CO2
H
–
+
α-chetoglutarato
Passaggio 7
Nell’ultimo dei quattro passaggi di
ossidazione del ciclo, il carbonio che porta
il gruppo ossidrilico è convertito in
gruppo carbonilico, rigenerando
l’ossalacetato necessario per il passaggio 1.
C
α-chetoglutarato
succinato
L’aggiunta di acqua al
fumarato pone un gruppo
ossidrilico vicino a un
carbonio carbonilico.
H
–
COO
COO–
Passaggio 6
Nel terzo passaggio di
ossidazione del ciclo, il FAD
riceve due atomi di
idrogeno dal succinato.
C
–
COO–
Passaggio 5
Una molecola di fosfato dalla
soluzione sposta il CoA, formando
un legame fosfato ad alta energia
con il succinato. Questo fosfato è
quindi trasferito al GDP per formare
GTP. (Nei batteri e nei vegetali si
forma invece ATP.)
H
intermedio ossalosuccinato
Passaggio 4
Il complesso dell’α-chetoglutarato
deidrogenasi assomiglia molto al grosso
complesso enzimatico che converte il
piruvato in acetil CoA, il complesso
piruvato deidrogenasi mostrato nella
Figura 3.54D, E. In modo analogo
catalizza un’ossidazione che produce
NADH, CO2, e un legame tioestere ad
alta energia con il coenzima A (CoA).
C
H
–
COO–
COO–
malato deidrogenasi
C
O
CH2
+
NAD
+
NADH + H
COO
–
ossalacetato
+ HS CoA
CAPITOLO
3
• La forma e la struttura
delle proteine
• Funzione delle proteine
Le proteine
Q
uando guardiamo una cellula al microscopio o ne analizziamo l’attività elettrica o biochimica stiamo essenzialmente osservando proteine. Le proteine costituiscono la maggior parte della massa secca
di una cellula. Esse non sono soltanto le unità di cui sono costituite le cellule,
ma svolgono anche quasi tutte le funzioni cellulari. Così gli enzimi forniscono a una cellula le intricate superfici molecolari che promuovono le sue numerose reazioni chimiche. Proteine immerse nella membrana plasmatica formano canali e pompe che controllano il passaggio di piccole molecole dentro
e fuori la cellula. Altre proteine conducono messaggi da una cellula all’altra o
agiscono come integratori di segnali che ritrasmettono serie di segnali dalla
membrana plasmatica all’interno della cellula fino al nucleo. Altre ancora servono da minuscole macchine molecolari con parti in movimento: la chinesina,
per esempio, muove organelli attraverso il citoplasma; la topoisomerasi può districare molecole annodate di DNA. Altre proteine specializzate agiscono da
anticorpi, tossine, ormoni, molecole anticongelanti, fibre elastiche, funi o fonti di luminescenza. Per poter sperare di comprendere come funzionano i geni,
come i muscoli si contraggono, come i nervi conducono elettricità, come si
sviluppa un embrione o come funzionano i nostri corpi, dobbiamo raggiungere una conoscenza profonda delle proteine.
La forma e la struttura delle proteine
Da un punto di vista chimico le proteine sono di gran lunga le molecole strutturalmente più complesse e funzionalmente più sofisticate. Ciò probabilmente
non è sorprendente, una volta che ci si rende conto che la struttura e la chimica di ciascuna proteina si sono sviluppate e raffinate in miliardi di anni di storia
evolutiva. I calcoli teorici dei genetisti di popolazione rivelano che, in un arco di tempo evolutivo, è sufficiente un vantaggio selettivo sorprendentemente
piccolo per causare la diffusione di una proteina, la cui sequenza è stata alterata
in maniera casuale, in una popolazione di organismi. Eppure, anche agli esperti, la notevole versatilità delle proteine può sembrare veramente stupefacente.
In questa sezione considereremo il modo in cui la posizione di ciascun amminoacido nella lunga sequenza che dà origine a una proteina ne determini
la forma tridimensionale. Useremo quindi questa conoscenza della struttura
delle proteine a livello atomico per spiegare come la forma precisa di ciascuna proteina ne determini la funzione in una cellula.
■ La forma di una proteina è specificata dalla sua sequenza
di amminoacidi
Nelle proteine esistono 20 tipi di amminoacidi, codificati direttamente dal
DNA dell’organismo, ciascuno con proprietà chimiche diverse. Una proteina è costituita da una lunga catena di questi amminoacidi, ciascuno legato al suo vicino da un legame peptidico covalente. Le proteine sono perciò note anche come polipeptidi. Ciascun tipo di proteina ha una sequenza
caratteristica di amminoacidi e ci sono parecchie migliaia di proteine diverse in una cellula.
La sequenza ripetuta di atomi lungo il nucleo della catena polipeptidica
viene chiamata ossatura polipeptidica. Attaccate a questa catena ripetitiva
vi sono quelle porzioni degli amminoacidi che non sono coinvolte nella formazione di un legame peptidico e conferiscono a ciascun amminoacido le
CAPITOLO
OH
O
O
C
catene laterali
ossatura polipeptidica
CH2
terminale
amminico
(N-terminale)
H
3 Le proteine
113
© 978-88-08-62126-9
+
H
H
O
N
C
C
H
CH2
N
C
C
H
H
O
H
H
O
N
C
C
CH2
O
N
C
H
H
C
O
terminale
carbossilico
(C-terminale)
CH2
legami
peptidici
CH2
legame peptidico
CH
H3C
S
CH3
catene laterali
CH3
Metionina
(Met)
Acido aspartico
(Asp)
Leucina
(Leu)
Tirosina
(Tyr)
sue proprietà peculiari: le 20 diverse catene laterali degli amminoacidi (Figura 3.1). Alcune di queste catene laterali sono non polari e idrofobiche (“che
temono l’acqua”), altre sono cariche negativamente o positivamente, alcune
formano velocemente legami covalenti, e così via. Le loro strutture atomiche
sono presentate nel Quadro 3.1 e un breve elenco con abbreviazioni è riportato nella Figura 3.2.
Come discusso nel Capitolo 2, gli atomi si comportano più o meno come
se fossero sfere solide con un raggio definito (il raggio di van der Waals). L’impossibilità di sovrapposizione fra due atomi limita di molto i possibili angoli di legame in una catena polipeptidica (Figura 3.3). Questa restrizione e altre interazioni steriche riducono drasticamente la varietà di disposizioni tridimensionali (o conformazioni) degli atomi possibili. Nonostante ciò, una lunga catena flessibile, come è una proteina, può ancora ripiegarsi in un numero enorme di modi.
Il ripiegamento di una catena proteica è tuttavia ulteriormente limitato da
molte serie differenti di deboli legami non covalenti che si formano fra parti diverse della catena. Questi coinvolgono atomi dell’ossatura polipeptidica, oltre
ad atomi delle catene laterali degli amminoacidi. I legami deboli sono di tre
tipi: legami idrogeno, attrazioni elettrostatiche e attrazioni di van der Waals, come
CATENA
LATERALE
AMMINOACIDO
Acido aspartico
Acido glutammico
Arginina
Lisina
Istidina
Asparagina
Glutammina
Serina
Treonina
Tirosina
Asp
Glu
Arg
Lys
His
Asn
Gln
Ser
Thr
Tyr
D
E
R
K
H
N
Q
S
T
Y
negativa
negativa
positiva
positiva
positiva
polare senza carica
polare senza carica
polare senza carica
polare senza carica
polare senza carica
AMMINOACIDI POLARI
CATENA
LATERALE
AMMINOACIDO
Alanina
Glicina
Valina
Leucina
Isoleucina
Prolina
Fenilalanina
Metionina
Triptofano
Cisteina
Ala
Gly
Val
Leu
Ile
Pro
Phe
Met
Trp
Cys
A
G
V
L
I
P
F
M
W
C
non polare
non polare
non polare
non polare
non polare
non polare
non polare
non polare
non polare
non polare
AMMINOACIDI NON POLARI
Figura 3.2 I 20 amminoacidi che si trovano nelle proteine. Ciascun amminoacido
ha un’abbreviazione a tre lettere e una a una lettera. Ci sono numeri uguali di catene
laterali polari e non polari, ma alcune catene laterali elencate qui come polari sono
abbastanza grandi da avere alcune proprietà non polari (per esempio, Tyr, Thr, Arg, Lys).
Per le strutture atomiche, vedi Quadro 3.1 (pp. 116-117).
Figura 3.1 I componenti di una
proteina. Una proteina consiste di
un’ossatura polipeptidica con catene
laterali attaccate. Ciascun tipo di
proteina differisce nella sequenza
e nel numero di amminoacidi;
perciò è la sequenza delle catene
laterali chimicamente diverse che
contraddistingue ciascuna proteina.
Le due estremità di una catena
polipeptidica sono chimicamente
diverse: l’estremità con il gruppo
amminico libero (NH3+, scritto anche
NH2) è il terminale amminico, o
N-terminale, mentre l’estremità con
il gruppo carbossilico libero (COO–,
scritto anche COOH) è il terminale
carbossilico, o C-terminale. La
sequenza degli amminoacidi di una
proteina è sempre presentata nella
direzione N-C e si legge da sinistra a
destra.
CAPITOLO
3 Le proteine
114
© 978-88-08-62126-9
(A)
(B)
amminoacido
+180
H
O
R2
H
C
Cα
N
Cα
N
R1
H
H
phi
H
C
Cα
O
R3
psi
psi 0
legami peptidici
–180
–180
0
phi
+180
alfa elica
(destrorsa)
foglietto beta
elica sinistrorsa
Figura 3.3 Limitazioni steriche agli angoli di legame
principale di una proteina è determinata da una coppia di
angoli y e f per ciascun amminoacido; a causa di collisioni
steriche fra atomi all’interno di ciascun amminoacido, la
maggior parte degli angoli y e f è esclusa. In questo grafico,
detto di Ramachandran, ciascun punto rappresenta una coppia
osservata di angoli in una proteina. I tre raggruppamenti
(cluster) di punti ombreggiati in colori diversi riflettono tre
differenti “strutture secondarie” che si trovano ripetutamente
nelle proteine, come descritto nel testo. (B, da J. Richardson,
Adv. Prot. Chem. 34:174-175, 1981. © Academic Press.)
in una catena polipeptidica. (A) Ciascun amminoacido
contribuisce con tre legami (rosso) all’ossatura della catena.
Il legame peptidico è planare (ombreggiatura grigia) e non
permette rotazione. Una rotazione può invece avvenire
intorno al legame Ca–C, il cui angolo di rotazione è chiamato
psi (y), e intorno al legame N–Ca, il cui angolo di rotazione
è chiamato phi (f). Per convenzione un gruppo R è spesso
usato per indicare una catena laterale di un amminoacido
(circoli viola). (B) La conformazione degli atomi della catena
spiegato nel Capitolo 2 (vedi p. 45). I singoli legami non covalenti sono 30300 volte più deboli dei tipici legami covalenti che creano le molecole biologiche. Ma molti legami deboli possono agire in parallelo per tenere due regioni di una catena polipeptidica strettamente legate. In questo modo la stabilità di ciascuna forma ripiegata è determinata dalla forza combinata di un
gran numero di questi legami non covalenti (Figura 3.4).
acido glutammico
N
H
H
O
C
C
attrazioni
elettrostatiche
CH2
+
R
CH2
C
O
C
legame idrogeno
H
H
H
N
+
O
C
CH2
C
O
H
lisina
CH3 CH3
H
N
H
N
H
CH3
C
C
H
valina
CH3 CH3
C
O
H
N
H
C
O
C
C
H
H N
C
C
O
H
alanina
C
R
C
R
CH2
C
H
H
C
attrazioni di van der Waals
CH2
N
O
H
N
CH2
H
C
H
O
valina
O
Figura 3.4 Tre tipi di legami non covalenti
aiutano le proteine a ripiegarsi. Sebbene
uno solo di questi legami sia molto debole,
molti di essi agiscono insieme per creare una
disposizione di legami forte, come nell’esempio
mostrato. Come nella figura precedente, R è
usata come designazione generale per una
catena laterale di un amminoacido.
CAPITOLO
3 Le proteine
115
© 978-88-08-62126-9
Figura 3.5 Il modo in cui una
polipeptide svolto
catene laterali
non polari
catene laterali
polari
la catena laterale polare
all’esterno della molecola
può formare legami
idrogeno con l’acqua
ossatura
polipeptidica
il nucleo idrofobico
contiene catene
laterali non polari
conformazione ripiegata in ambiente acquoso
Una quarta forza debole ha un ruolo centrale nel determinare la forma di
una proteina. Come descritto nel Capitolo 2, le molecole idrofobiche, comprese le catene laterali non polari di particolari amminoacidi, tendono a unirsi in un ambiente acquoso per ridurre al minimo i loro effetti che alterano la
rete di legami idrogeno delle molecole d’acqua (vedi Quadro 2.2, pp. 96-97).
Perciò, un fattore importante che governa il ripiegamento di qualunque proteina è la distribuzione dei suoi amminoacidi polari e non polari. Le catene
laterali non polari (idrofobiche) di una proteina – che appartengono ad amminoacidi quali fenilalanina, leucina, valina e triptofano – tendono a raggrupparsi nell’interno della molecola (proprio come goccioline d’olio idrofobiche
si uniscono nell’acqua formando una goccia più grande). Ciò permette loro
di evitare il contatto con l’acqua che le circonda all’interno di una cellula. Le
catene laterali polari – come quelle che appartengono ad arginina, glutammina e istidina – tendono invece a disporsi vicino all’esterno della molecola,
dove possono formare legami idrogeno con l’acqua e con altre molecole polari (Figura 3.5). Gli amminoacidi polari immersi all’interno della proteina in
genere sono legati da legami idrogeno ad altri amminoacidi polari o all’ossatura polipeptidica.
■ Le proteine si ripiegano nella conformazione con l’energia
più bassa
Come risultato di tutte queste interazioni la maggior parte delle proteine
ha una struttura tridimensionale particolare, che è determinata dall’ordine
degli amminoacidi nella sua catena. La struttura finale ripiegata, o conformazione, adottata da una catena polipeptidica è in genere quella che riduce al minimo l’energia libera. Il ripiegamento delle proteine è stato studiato in provetta usando proteine altamente purificate. Una proteina può essere svolta, o denaturata, mediante trattamento con certi solventi, che distruggono le interazioni non covalenti che tengono insieme la catena ripiegata.
Questo trattamento converte la proteina in una catena polipeptidica flessibile che ha perso la sua forma naturale. Quando il solvente denaturante viene rimosso la proteina spesso si ripiega spontaneamente, o rinatura, nella sua
conformazione originale, il che sta a indicare che tutte le informazioni necessarie per specificare la forma tridimensionale di una proteina sono contenute nella sua sequenza di amminoacidi e questo è un punto cruciale per
comprendere la biologia cellulare.
La maggior parte delle proteine si ripiega in un’unica conformazione stabile.Tuttavia la conformazione spesso cambia leggermente quando la proteina interagisce con altre molecole nella cellula. Questo cambiamento di forma è spesso cruciale per la funzione della proteina, come vedremo più avanti.
proteina si ripiega in una
conformazione compatta.
Le catene laterali di amminoacidi
polari tendono a raggrupparsi
all’esterno della proteina, dove
possono interagire con l’acqua; le
catene laterali di amminoacidi non
polari sono immerse all’interno
e formano un nucleo idrofobico
compatto di atomi non in contatto
con l’acqua. In questo disegno
schematico la proteina contiene
soltanto circa 17 amminoacidi.
CAPITOLO
3 Le proteine
116
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QUADRO 3.1
I 20 amminoacidi che si trovano nelle proteine
ISOMERI OTTICI
LÕAMMINOACIDO
L’atomo di carbonio α è asimmetrico,
il che permette la formazione di due
isomeri speculari (o stereo-), L e D.
La formula generale di un amminoacido è
atomo di carbonio α
H
gruppo
amminico H2N
C
gruppo
carbossilico
COOH
R
H
gruppo della catena
laterale
H
COO–
NH3+
L
R è comunemente una delle 20 diverse catene laterali.
A pH 7 sia il gruppo amminico che quello carbossilico
sono ionizzati.
H
COO–
NH3+
Cα
Cα
R
R
D
+
H3N
C
COO
R
Le proteine consistono esclusivamente di L-amminoacidi.
LEGAMI PEPTIDICI
Legame peptidico: i quattro atomi in ciascun riquadro grigio
formano un’unità planare rigida. Non c’è rotazione intorno
al legame C–N.
Gli amminoacidi sono comunemente uniti insieme da un legame
ammidico, chiamato legame peptidico.
H
H
N
H
C
R
O
C
N
OH
H
H2O
R
H
C
O
H
C
H
O
C
C
N
OH
H
H
R
R
N
C
H
H
O
C
OH
SH
Le proteine sono lunghi
polimeri di amminoacidi uniti
da legami peptidici e vengono
sempre scritte con
l’N-terminale verso sinistra. La
sequenza di questo tripeptide
è istidina-cisteina-valina.
N-terminale
o amminoterminale
+H N
3
H
O
C
C
Gli amminoacidi comuni
sono raggruppati a seconda
che le loro catene laterali
siano
acide
basiche
polari senza carica
non polari
A questi 20 amminoacidi
vengono date abbreviazioni
a tre e a una lettera.
Così: alanina = Ala = A
N
C
C
H
H
N
C
O
H
CH2
HN
C-terminale
o carbossiterminale
COO–
CH
CH3
C
CH
HC
FAMIGLIE
DI AMMINOACIDI
CH2
+
NH
CH3
Questi due legami singoli permettono rotazione, pertanto
le lunghe catene di amminoacidi sono molto flessibili.
CATENE LATERALI BASICHE
lisina
arginina
istidina
(Lys, o K)
(Arg, o R)
(His, o H)
H
O
H
O
H
O
N
C
C
N
C
C
N
C
C
H
CH2
H
CH2
H
CH2
CH2
CH2
CH2
NH3
C
CH2
+
Questo gruppo
è molto basico
perché la sua
carica positiva
è stabilizzata
da risonanza.
CH2
HC
NH
C
+H N
2
HN
NH2
CH
NH+
Questi azoti hanno un’affinità
relativamente debole per un H+
e sono soltanto parzialmente
positivi a pH neutro.
CAPITOLO
3 Le proteine
117
© 978-88-08-62126-9
CATENE LATERALI ACIDE
CATENE LATERALI NON POLARI
alanina
valina
(Val, o V)
acido aspartico
acido glutammico
(Ala, o A)
(Asp, o D)
(Glu, o E)
H
O
C
H
O
N
C
C
H
CH2
H
O
N
C
N
C
C
H
CH3
H
CH2
O
N
C
C
H
CH
CH3
CH3
CH2
C
O–
O
H
leucina
isoleucina
(Leu, o L)
(Ile, o I)
C
O–
O
H
O
N
C
C
H
CH2
CH3
O
N
C
C
H
CH
CH3
CH
CATENE LATERALI POLARI PRIVE DI CARICA
H
CH3
CH2
CH3
asparagina
glutammina
prolina
fenilalanina
(Asn, o N)
(Gln, o Q)
(Pro, o P)
(Phe, o F)
H
O
N
C
C
H
CH2
H
O
N
C
C
H
CH2
NH2
O
C
C
CH2
CH2
CH2
C
O
N
H
H
O
N
C
C
H
CH2
CH2
(in effetti un
amminoacido)
C
O
NH2
Sebbene l’ammide N non sia carica
a pH neutro, è polare.
metionina
triptofano
(Met, o M)
(Trp, o W)
H
O
N
C
C
H
CH2
H
O
N
C
C
H
CH2
CH2
S
serina
treonina
tirosina
(Ser, o S)
(Thr, o T)
(Tyr, o Y)
H
O
N
C
C
H
CH2
H
O
N
C
C
H
CH
OH
CH3
CH3
N
H
H
O
glicina
cisteina
N
C
C
(Gly, o G)
(Cys, o C)
H
CH2
OH
H
O
N
C
C
H
H
OH
Il gruppo –OH è polare.
H
O
N
C
C
H
CH2
SH
Legami disolfuro si possono formare fra due catene laterali
di cisteine nelle proteine.
CH2
S
S
CH2
CAPITOLO
3 Le proteine
118
Figura 3.6 Quattro tipi di
rappresentazione che descrivono
la struttura di un piccolo dominio
proteico. Formato da una sequenza
di 100 amminoacidi, il dominio SH2 fa
parte di molte proteine diverse (vedi
per esempio la Figura 3.63). In questa
figura la struttura del dominio SH2 è
rappresentata come (A) un modello
dell’ossatura polipeptidica, (B) un
modello a nastro, (C) un modello a
fil di ferro in cui sono comprese le
catene laterali e (D) un modello a
spazio pieno (Filmato 3.1 ). Queste
immagini sono colorate in maniera
tale che la catena polipeptidica
possa essere seguita dall’N-terminale
(viola) al C-terminale (rosso). (Codice
PDB:1SHA.)
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(A)
(B)
(C)
(D)
Sebbene una catena proteica si possa ripiegare nella sua conformazione
corretta senza aiuto esterno, il ripiegamento delle proteine in una cellula vivente è spesso assistito da proteine speciali chiamate chaperoni molecolari. Queste proteine si legano a catene polipeptidiche parzialmente ripiegate e le aiutano a progredire lungo la via di ripiegamento energeticamente più favorevole. Nelle condizioni affollate del citoplasma i chaperoni impediscono alle
regioni idrofobiche, temporaneamente esposte nelle proteine appena sintetizzate, di associarsi fra loro per formare aggregati proteici (vedi p. 374).Tuttavia la forma tridimensionale definitiva della proteina è ancora specificata dalla
sua sequenza di amminoacidi: i chaperoni semplicemente rendono il processo di ripiegamento più affidabile.
Le proteine hanno una grande varietà di forme e sono lunghe in genere da 50 a 2000 amminoacidi. Le proteine più grandi di solito consistono di
parecchi domini proteici distinti (unità strutturali che si ripiegano in modo più
o meno indipendente l’una dall’altra, come vedremo più avanti). La struttura
dettagliata anche di un piccolo dominio è complicata e per chiarezza vengono usati convenzionalmente diversi modi per rappresentarla, ciascuno dei quali mette in evidenza aspetti differenti della proteina. Come esempio, la Figura
3.6 mostra quattro possibili rappresentazioni di un dominio proteico chiamato
SH2, una struttura presente in molte proteine diverse delle cellule eucariotiche e coinvolta nella segnalazione cellulare (vedi Figura 15.46).
Le descrizioni delle strutture proteiche sono rese più semplici dal fatto che
le proteine sono costituite da combinazioni di parecchi motivi strutturali comuni, di cui ci occuperemo adesso.
■ L’a elica e il foglietto b sono schemi comuni di ripiegamento
Quando si confrontano le strutture tridimensionali di molte molecole proteiche diverse diventa chiaro che, sebbene la conformazione globale di ciascuna proteina sia unica, spesso si trovano in parti di esse due schemi regolari
di ripiegamento. Entrambi gli schemi sono stati scoperti più di sessant’anni fa
grazie a studi eseguiti sui peli e sulla seta. Il primo schema di ripiegamento a
CAPITOLO
carbonio
R
azoto
R
ossigeno
R
0,7 nm
carbonio
R
legame
idrogeno
0,54 nm
R
R
legame
peptidico
carbonio
R
R
R
R
R
catena laterale
dell’amminoacido
legame idrogeno
idrogeno
catena laterale
dell’amminoacido
R
idrogeno
R
R
R
R
ossigeno
R
carbonio
azoto
azoto
R
R
R
R
(A)
3 Le proteine
119
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R
(B)
R
R
(C)
Figura 3.7 La conformazione regolare dell’ossatura
polipeptidica osservata nell’a elica e nel foglietto b.
L’a elica è mostrata in (A) e (B). L’N–H di ogni legame peptidico
forma legami idrogeno con il C=O di un legame peptidico vicino
posto a quattro legami peptidici di distanza sulla stessa catena.
Si noti che tutti i gruppi N–H sono rivolti in alto in questo
disegno e che tutti i gruppi C=O sono rivolti in basso (verso il
C-terminale); ciò dà una polarità all’elica, in cui il C-terminale
ha una carica parziale negativa e l’N-terminale ha una carica
parziale positiva (Filmato 3.2 ). Il foglietto b è mostrato
(D)
in (C) e (D). In questo esempio catene peptidiche adiacenti
corrono in direzioni opposte (antiparallele). Le singole catene
polipeptidiche (filamenti) in un foglietto b sono tenute insieme
da legami idrogeno fra legami peptidici di filamenti diversi
e le catene laterali degli amminoacidi di ciascun filamento si
proiettano alternativamente sopra e sotto il piano del foglietto
(Filmato 3.3 ). (A) e (C) mostrano tutti gli atomi dell’ossatura
polipeptidica, ma le catene laterali degli amminoacidi sono
tronche e indicate con R. (B) e (D) invece mostrano soltanto gli
atomi di carbonio e di azoto dell’ossatura.
essere stato scoperto, chiamato a elica, è stato trovato nella proteina a-cheratina, che è abbondante nella pelle e nei suoi derivati, come peli, unghie e corna. Dopo meno di un anno dalla scoperta dell’a elica, una seconda struttura
ripiegata, chiamata foglietto b, fu trovata nella proteina fibroina, il costituente principale della seta. Questi due schemi sono particolarmente comuni perché derivano dalla formazione di legami idrogeno fra i gruppi NOH e CPO
dell’ossatura polipeptidica, senza coinvolgere le catene laterali degli amminoacidi. Quindi, sebbene incompatibili con alcune catene laterali di amminoacidi, questi schemi possono essere formati da molte sequenze diverse di amminoacidi. In ciascun caso la catena proteica adotta una conformazione ripetitiva regolare. La Figura 3.7 mostra la struttura dettagliata di queste due importanti conformazioni, che nei modelli a nastro delle proteine sono rappresentate rispettivamente da un nastro elicoidale e da un gruppo di frecce allineate.
Il nucleo di molte proteine contiene estese regioni a foglietto b. Come
mostrato nella Figura 3.8, questi foglietti b si possono formare da catene polipeptidiche adiacenti che corrono nella stessa direzione (catene parallele) o da
una catena polipeptidica che si ripiega avanti e indietro su se stessa, con ciascuna sezione della catena che corre nella direzione opposta a quella della catena più vicina (catene antiparallele). Entrambi i tipi di foglietto b producono
una struttura molto rigida, tenuta insieme da legami idrogeno che connettono i legami peptidici di catene adiacenti (vedi Figura 3.7C).
Un’a elica si genera quando una singola catena polipeptidica si avvolge
su se stessa per formare un cilindro rigido. Si forma un legame idrogeno fra
un legame peptidico e il quarto successivo, collegando il CPO di un legame
peptidico con l’NOH di un altro (vedi Figura 3.7A). Ciò dà origine a un’elica regolare con un giro completo ogni 3,6 amminoacidi. Il dominio proteico SH2 illustrato nella Figura 3.6 contiene due a eliche, oltre a strutture a foglietto b a tre filamenti antiparalleli.
(A)
(B)
Figura 3.8 Due tipi di strutture
a foglietto b. (A) Un foglietto b
antiparallelo (vedi Figura 3.7C). (B) Un
foglietto b parallelo. Entrambe queste
strutture sono comuni nelle proteine.
CAPITOLO
3 Le proteine
120
Figura 3.9 Un coiled coil. (A) Una
singola a elica, con catene laterali di
amminoacidi successivi contrassegnate
da una sequenza di sette, “abcdefg”
(dal basso in alto). Gli amminoacidi
“a” e “d” in questa sequenza si
trovano vicini sulla superficie del
cilindro, formando una “striscia”
(verde) che si avvolge lentamente
intorno all’a elica. Le proteine che
formano coiled coil di norma hanno
amminoacidi non polari nelle
posizioni “a” e “d”. Di conseguenza,
come mostrato in (B), le due a eliche
possono avvolgersi l’una intorno
all’altra con le catene laterali non
polari di un’a elica che interagiscono
con le catene laterali non polari
dell’altra. (C) La struttura atomica
di un coiled coil determinata
mediante cristallografia ai raggi X.
L’ossatura dell’a elica è mostrata in
rosso e le catene laterali non polari
sono rappresentate in verde, mentre
le catene amminoacidiche laterali più
idrofiliche, mostrate in grigio, sono
lasciate esposte all’ambiente acquoso
(Filmato 3.4 ). (Codice PDB: 3NMD.)
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NH2
a
e
d
a
NH2
NH2
e
d
a
g
striscia di
amminoacidi
idrofobici
“a” e “d”
d
a
g
11 nm
d
c
a
g
d
c
g
le eliche si avvolgono l’una intorno all’altra
per ridurre al minimo i contatti
delle catene laterali
idrofobiche degli amminoacidi
con l’ambiente acquoso
HOOC
COOH
0,5 nm
(A)
(B)
(C)
Regioni ad a elica sono abbondanti in proteine poste nelle membrane
cellulari, come proteine di trasporto e recettori. Come vedremo nel Capitolo
10, quelle porzioni di una proteina transmembrana che attraversano il doppio
strato lipidico in genere lo attraversano sotto forma di un’a elica composta
in gran parte da amminoacidi con catene laterali non polari. L’ossatura polipeptidica, che è idrofilica, forma legami idrogeno con se stessa nell’a elica ed
è schermata dall’ambiente lipidico idrofobico della membrana dalle catene laterali non polari (vedi anche Figura 10.19).
In altre proteine le a eliche si avvolgono l’una intorno all’altra per formare
una struttura particolarmente stabile, nota come coiled coil. Questa struttura
si può formare quando le due (o in qualche caso tre o quattro) a eliche hanno
la maggior parte delle loro catene laterali non polari (idrofobiche) su un lato,
così che possono avvolgersi l’una intorno all’altra, con queste catene laterali
rivolte all’interno (Figura 3.9). Lunghi coiled coil a bastoncino forniscono la
base strutturale di molte proteine allungate. Esempi di ciò sono l’a-cheratina, che forma le fibre intracellulari che rinforzano lo strato esterno della pelle
e delle sue appendici, e la miosina, responsabile della contrazione muscolare.
■ I domini proteici sono unità modulari che costituiscono
le proteine più grandi
Anche una piccola molecola proteica è costituita da migliaia di atomi uniti insieme da legami covalenti e non covalenti orientati precisamente. I biologi riescono a visualizzare queste strutture così complicate mediante diversi
sistemi grafici tridimensionali computerizzati. Le risorse dello studente presenti sul sito che accompagna questo libro contengono immagini generate
con il computer di proteine selezionate, mostrate e ruotate sullo schermo in
diversi formati diversi.
Gli scienziati distinguono quattro livelli di organizzazione nella struttura
di una proteina. La sequenza degli amminoacidi è nota come struttura primaria della proteina. Tratti di catena polipeptidica che formano a eliche e
CAPITOLO
Figura 3.10 Una proteina formata
dominio SH3
da domini multipli. Nella proteina
Src qui rappresentata un dominio
C-terminale con due lobi (giallo e
arancione) forma un enzima proteina
chinasi, mentre i domini SH2 e
SH3 svolgono funzioni regolatrici.
(A) Un modello a nastro, con l’ATP
substrato in rosso. (B) Un modello
a spazio pieno, con l’ATP substrato
in rosso. Si noti che il sito che lega
l’ATP è posizionato all’interfaccia dei
due lobi che formano la chinasi. La
struttura dettagliata del dominio SH2
è illustrata nella Figura 3.6. (Codice
PDB: 2SRC.)
ATP
(A)
dominio SH2
(B)
foglietti b costituiscono la struttura secondaria della proteina. L’organizzazione tridimensionale completa di una catena polipeptidica viene talvolta
chiamata struttura terziaria e, se una particolare proteina è composta da un
complesso di più di una catena polipeptidica, la struttura completa è definita
struttura quaternaria.
Lo studio della conformazione, della funzione e dell’evoluzione delle proteine ha anche rivelato l’importanza centrale di un’unità di organizzazione
distinta dalle quattro appena descritte. Questa è il dominio proteico, una
sottostruttura prodotta da qualunque parte di una catena polipeptidica che si
possa ripiegare indipendentemente in una struttura compatta stabile. Un dominio in genere contiene dai 40 ai 350 amminoacidi ed è l’unità modulare da
cui sono costituite molte proteine più grandi.
I diversi domini di una proteina spesso sono associati a differenti funzioni. La Figura 3.10 mostra un esempio, la proteina chinasi Src, che agisce nelle vie di segnalazione all’interno delle cellule dei vertebrati (Src si pronuncia
“sarc”). Questa proteina ha tre domini: i domini SH2 e SH3 hanno ruoli regolatori, mentre il dominio C-terminale è responsabile dell’attività catalitica della chinasi. Più avanti in questo capitolo ritorneremo su questa proteina,
per spiegare il modo in cui le proteine possono formare interruttori molecolari che trasmettono l’informazione attraverso le cellule.
La Figura 3.11 presenta modelli a nastro di tre domini proteici organizzati
diversamente. Come illustrano questi esempi, il nucleo centrale di un dominio può essere costituito da a eliche, da foglietti b o da varie combinazioni di
questi due fondamentali elementi ripiegati.
(A)
3 Le proteine
121
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(B)
(C)
Figura 3.11 Modelli a nastro di
tre diversi domini proteici. (A) Il
citocromo b562, una proteina a singolo
dominio coinvolta nel trasporto
degli elettroni nei mitocondri.
Questa proteina è composta quasi
completamente da a eliche. (B) Il
dominio che lega NAD dell’enzima
lattico deidrogenasi, composto
da una miscela di a eliche e di
foglietti b paralleli. (C) Il dominio
variabile di una catena leggera di
una immunoglobulina (anticorpo),
composta da un sandwich di due
foglietti b antiparalleli. In questi
esempi le a eliche sono mostrate in
verde, mentre i filamenti organizzati
come foglietti b sono riportati come
frecce rosse. Si noti che la catena
polipeptidica in genere attraversa
l’intero dominio avanti e indietro,
facendo curve strette soltanto in
corrispondenza della superficie della
proteina (Filmato 3.5 ). Sono le
regioni sporgenti ad ansa (giallo)
che spesso formano i siti di legame
per altre molecole. (Adattata da
disegni gentilmente concessi da Jane
Richardson.)
CAPITOLO
3 Le proteine
122
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Le molecole proteiche più piccole contengono soltanto un singolo dominio, mentre le proteine più grandi possono contenere anche parecchie decine di domini, in genere connessi fra loro da brevi tratti relativamente non
strutturati di catena polipeptidica che può agire come una cerniera flessibile tra i domini.
■ Poche delle molte catene polipeptidiche possibili sono utili
per le cellule
Poiché ciascuno dei 20 amminoacidi è chimicamente distinto e ciascuno può,
in linea di principio, trovarsi in qualunque posizione di una catena proteica,
vi sono 20 3 20 3 20 3 20 5 160 000 catene polipeptidiche possibili lunghe quattro amminoacidi, o 20n catene polipeptidiche possibili lunghe n amminoacidi. Per una lunghezza tipica di una proteina di circa 300 amminoacidi si potrebbero teoricamente costruire più di 10390 (20300) diverse catene polipeptidiche. Questo è un numero talmente enorme che produrre anche una
sola molecola di ciascun tipo richiederebbe molti più atomi di quanti ne esistano nell’universo.
Soltanto una frazione piccolissima di questa enorme serie di catene polipeptidiche concepibili adotterebbe una conformazione tridimensionale singola stabile (secondo alcune stime, meno di una su un miliardo). Eppure, la maggior parte delle proteine presenti nelle cellule adotta conformazioni uniche e
stabili. Com’è possibile? La risposta si trova nella selezione naturale. È improbabile che una proteina con una struttura e un’attività biochimica variabile in
modo non prevedibile aiuti la sopravvivenza della cellula che la contiene. Queste proteine sarebbero quindi state eliminate dalla selezione naturale nel lunghissimo processo di prova ed errore che è alla base dell’evoluzione biologica.
Poiché l’evoluzione ha selezionato la funzione delle proteine negli organismi viventi, la sequenza degli amminoacidi di una proteina odierna è tale
da produrre una singola conformazione estremamente stabile. Inoltre questa
conformazione ha proprietà chimiche finemente regolate per permettere alla proteina di svolgere una particolare funzione catalitica o strutturale nella
cellula. Le proteine sono costruite in modo così preciso che il cambiamento anche di pochi atomi in un amminoacido può talvolta alterare la struttura dell’intera molecola in modo così grave da farle perdere completamente la
funzione e, come vedremo più avanti nel capitolo, quando accadono certi rari eventi di ripiegamento errato della proteina, le conseguenze possono essere disastrose per l’organismo in cui essi si verificano.
■ Le proteine possono essere classificate in molte famiglie
Una volta che una proteina che si ripiega in una conformazione stabile con
proprietà utili si è evoluta, la sua struttura può essere modificata nel corso
dell’evoluzione per permetterle di svolgere nuove funzioni. Questo processo è stato enormemente accelerato da meccanismi genetici che occasionalmente producono copie duplicate di geni, permettendo a una copia del gene di evolvere in modo indipendente per svolgere una nuova funzione (vedi Capitolo 4). Questo tipo di evento si è verificato molto spesso nel passato; come risultato, molte proteine odierne possono essere raggruppate in famiglie proteiche, i cui membri hanno una sequenza di amminoacidi e una
conformazione tridimensionale che assomiglia a quella degli altri membri
della famiglia.
Consideriamo, per esempio, le serina proteasi, una grande famiglia di enzimi
che tagliano proteine (proteolitici) che comprende gli enzimi digestivi chimotripsina, tripsina ed elastasi, e parecchie proteasi coinvolte nella coagulazione
del sangue. Quando si confrontano le porzioni proteasiche di due di questi
enzimi, si trova che parti delle loro sequenze di amminoacidi corrispondono. La somiglianza delle loro conformazioni tridimensionali è ancora più sorprendente: la maggior parte degli avvolgimenti e dei giri dettagliati delle loro
catene polipeptidiche, che sono lunghe parecchie centinaia di amminoacidi,
è praticamente identica (Figura 3.12). Le molte serina proteasi diverse hanno
nonostante ciò attività enzimatiche distinte, e ciascuna taglia proteine diverse
CAPITOLO
3 Le proteine
123
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Figura 3.12 Le conformazioni di
HOOC
HOOC
NH 2
elastasi
NH 2
chimotripsina
due serina proteasi a confronto.
Le conformazioni dell’ossatura di
elastasi e chimotripsina. Sebbene
soltanto gli amminoacidi ombreggiati
in verde siano gli stessi nelle due
proteine, le due conformazioni sono
molto simili quasi dappertutto. Il sito
attivo di ciascun enzima è cerchiato in
rosso; questo è il punto in cui i legami
peptidici delle proteine che servono
da substrato sono legati e tagliati per
idrolisi. Le serina proteasi derivano il
loro nome dall’amminoacido serina,
la cui catena laterale è parte del sito
attivo di ciascun enzima e partecipa
direttamente alla reazione di taglio.
I due punti sul lato destro della
molecola di chimotripsina segnano
le due nuove terminazioni create
quando l’enzima taglia la sua stessa
ossatura.
o legami peptidici fra tipi diversi di amminoacidi. Ciascuna perciò svolge una
funzione differente in un organismo.
Quanto detto per le serina proteasi potrebbe essere ripetuto per centinaia
di altre famiglie proteiche. In generale, la struttura dei diversi membri di una
famiglia si è conservata di più della sequenza degli amminoacidi. In molti casi
le sequenze degli amminoacidi si sono talmente diversificate che non si può
essere sicuri della relazione familiare fra due proteine senza determinare le loro strutture tridimensionali. La proteina a2 del lievito e la proteina engrailed
di Drosophila, per esempio, sono entrambe proteine regolatrici della famiglia
a omeodominio (vedi Capitolo 7). Poiché sono identiche soltanto in 17 dei
60 residui amminoacidici dei loro omeodomini, la loro relazione è diventata certa soltanto quando sono state confrontate le loro strutture tridimensionali (Figura 3.13). Molti esempi simili mostrano che due proteine con più del
25% di identità nella loro sequenza amminoacidica di solito hanno la stessa
struttura generale.
(A)
(B)
elica 2
elica 3
elica 1
COOH
NH2
(C)
H2N
lievito
G H R F T K E N V R I L E S W F A K N I E N P Y L D T K G L E N L MK N T S L S R I Q I K NWV S N R R R K E K T I
R T A F S S E O L A R L K R E F N E N - - - R Y L T E R R R QQ L S S E L G L N E AQ I K I WF QN K R A K I K K S
Drosophila
Figura 3.13 Un confronto di una classe di domini che
legano DNA, chiamati omeodomini, in una coppia di
proteine di due organismi separati da più di un miliardo
di anni di evoluzione. (A) Un modello a nastro della struttura
comune a entrambe le proteine. (B) Una traccia delle posizioni
dei carboni a. Le strutture tridimensionali qui rappresentate
sono state determinate mediante cristallografia ai raggi X per
COOH
la proteina a2 del lievito (verde) e per la proteina engrailed
di Drosophila (rossa). (C) Un confronto delle sequenze di
amminoacidi della regione delle proteine mostrata in (A) e in
(B). I pallini neri marcano siti con amminoacidi identici. I pallini
arancione indicano la posizione di un inserto di tre amminoacidi
nella proteina a2. (Adattata da C. Wolberger et al., Cell 67:517528, 1991. Con il permesso di Elsevier.)
CAPITOLO
3 Le proteine
124
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Figura 3.14 Rimescolamento dei
domini. Durante l’evoluzione delle
proteine si è verificato un esteso
rimescolamento di blocchi di sequenze
proteiche (domini proteici). Quelle
porzioni di una proteina indicate dalla
stessa forma e dallo stesso colore
in questo disegno schematico sono
correlate evolutivamente. Le serina
proteasi come la chimotripsina sono
formate da due domini (marrone).
Nelle altre tre proteasi mostrate,
che sono altamente regolate e più
specializzate, questi due domini
proteasici sono connessi a uno o più
domini omologhi a domini presenti
nel fattore di crescita dell’epidermide
(EGF; verde), a una proteina che
lega il calcio (giallo) o a un dominio
“kringle” (blu). La chimotripsina è
illustrata nella Figura 3.12.
EGF
H2N
COOH
CHIMOTRIPSINA
H2N
COOH
UROCHINASI
H2N
COOH
FATTORE IX
H2N
COOH
PLASMINOGENO
H2N
COOH
I vari membri di una grande famiglia proteica hanno spesso funzioni distinte. Alcuni dei cambiamenti di amminoacidi che rendono diversi i membri della famiglia sono stati senza dubbio selezionati nel corso dell’evoluzione
perché hanno portato a modificazioni utili nell’attività biologica, conferendo
ai singoli membri della famiglia le diverse proprietà funzionali che hanno oggi. Ma molti altri cambiamenti di amminoacidi sono effettivamente “neutri”,
non avendo né un effetto benefico né uno dannoso sulla struttura e sulla funzione base della proteina. Inoltre, poiché la mutazione è un processo casuale,
devono esserci stati anche molti cambiamenti deleteri che hanno alterato la
struttura tridimensionale di queste proteine in modo sufficiente da danneggiarle. Queste proteine difettose sarebbero state perdute tutte le volte che i
singoli organismi che le producevano avevano uno svantaggio tale da essere
eliminati dalla selezione naturale.
Le famiglie proteiche si riconoscono facilmente quando si sequenzia il
genoma di un organismo; per esempio, la determinazione della sequenza del
DNA dell’intero genoma umano ha rivelato che noi possediamo circa 21 000
geni che codificano proteine. (Si noti tuttavia che, come risultato dello splicing
alternativo, le cellule umane possono produrre più di 21 000 proteine diverse,
come spiegheremo nel Capitolo 6).Tramite confronti di sequenze, si possono
assegnare i prodotti di circa il 40% di questi geni a strutture proteiche note,
appartenenti a più di 500 famiglie proteiche diverse. La maggior parte delle
proteine di ciascuna famiglia si è evoluta per svolgere funzioni un po’ differenti, come per gli enzimi elastasi e chimotripsina illustrati in precedenza nella Figura 3.12. Come spiegato nel Capitolo 1 (vedi Figura 1.21), questi geni
sono talvolta chiamati paraloghi per distinguerli dalle proteine corrispondenti
in organismi diversi (ortologhi, come l’elastasi umana e di topo).
Come vedremo nel Capitolo 8, grazie alle tecniche potenti di cristallografia ai raggi X e di risonanza magnetica nucleare (NMR) oggi conosciamo
la forma tridimensionale, o conformazione, di più di 100 000 proteine. Confrontando attentamente le conformazioni di queste proteine, i biologi strutturali (cioè gli esperti della struttura delle molecole biologiche) hanno concluso che esiste un numero limitato di modi in cui i domini proteici si ripiegano in natura, forse meno di 2000, se consideriamo tutti gli organismi. Per
la maggior parte di queste strutture, chiamate ripiegamenti proteici, è stato possibile determinare le strutture rappresentative.
Il database attuale di sequenze proteiche note contiene più di venti milioni
di voci e sta crescendo molto rapidamente man mano che vengono sequenziati
altri genomi, rivelando un enorme numero di nuovi geni che codificano proteine. L’intervallo di dimensione dei polipeptidi codificati è molto ampio, da
polipeptidi di 6 amminoacidi a proteine gigantesche di 33 000 amminoacidi.
Confronti fra proteine sono importanti perché strutture correlate spesso implicano funzioni correlate. Si possono risparmiare anni di esperimenti scoprendo che una nuova proteina ha un’omologia nella sequenza amminoacidica con una proteina di cui è nota la funzione. Queste relazioni di sequenza,
per esempio, hanno indicato per la prima volta che certi geni che provocano
la trasformazione cancerosa delle cellule dei mammiferi codificano proteina
chinasi (vedi Capitolo 20).
■ Alcuni domini proteici formano parti di molte proteine
diverse
Come abbiamo detto in precedenza, la maggior parte delle proteine è composta da una serie di domini proteici, in cui regioni diverse della catena polipeptidica si sono ripiegate in modo indipendente formando strutture compatte. Si pensa che queste proteine multidominio si siano originate quando
le sequenze di DNA che codificano ciascun dominio si sono unite accidentalmente, creando un nuovo gene. Molte grandi proteine si sono evolute per
unione di domini preesistenti in nuove combinazioni, un processo evolutivo chiamato rimescolamento dei domini (Figura 3.14). Nuove superfici di legame si sono spesso create in corrispondenza della giustapposizione dei domini e molti dei siti funzionali in cui le proteine legano piccole molecole si
trovano in quei punti.
CAPITOLO
3 Le proteine
125
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Figura 3.15 Le strutture
tridimensionali di tre domini
proteici usati comunemente. In
questi disegni schematici a nastro i
foglietti b sono mostrati come frecce
e gli N- e i C-terminali sono indicati da
sfere rosse. In natura esistono molti
altri tipi di questi “moduli”. (Adattata
da M. Baron, D.G. Norman e I.D.
Campbell, Trends Biochem. Sci. 16:1317, 1991, con il permesso di Elsevier,
e D.J. Leahy et al., Science 258:987991, 1992, con il permesso di AAAS.)
1 nm
modulo
immunoglobulinico
modulo tipo 3
della fibronectina
modulo
kringle
Una sottoserie di domini proteici è stata particolarmente mobile durante
l’evoluzione; sembra che questi domini abbiano strutture molto versatili e sono talvolta chiamati moduli proteici. La struttura di uno di questi moduli, il dominio SH2, è stata illustrata nella Figura 3.6.Tre altri domini proteici abbondanti sono illustrati nella Figura 3.15.
Ciascuno dei domini mostrati ha una struttura centrale stabile, formata da
filamenti di foglietti b, da cui sporgono anse meno ordinate di catene polipeptidiche. Le anse sono situate in modo ideale per formare siti di legame per
altre molecole, come dimostrato nel modo più evidente per il ripiegamento
immunoglobulinico, che forma la base delle molecole anticorpali. Il successo evolutivo di questi moduli di foglietti b è probabilmente dovuto al fatto
che forniscono una struttura appropriata per la generazione di nuovi siti di
legami per ligandi tramite piccoli cambiamenti di queste anse sporgenti (vedi Figura 3.42).
Un secondo aspetto dei domini proteici che ne spiega l’utilità è la facilità con cui possono essere integrati in altre proteine. Due dei tre domini illustrati nella Figura 3.15 hanno i loro N- e C-terminali su poli opposti del
dominio. Quando il DNA che codifica un dominio di questo tipo subisce
una duplicazione in tandem, che non è insolita nell’evoluzione dei genomi
(vedi Capitolo 4), i moduli duplicati con questa disposizione “in linea” possono essere facilmente collegati in serie per formare strutture estese, sia con
se stessi che con altri domini in linea (Figura 3.16). Rigide strutture estese
composte da una serie di domini sono comuni specialmente nelle molecole
della matrice extracellulare e nelle porzioni extracellulari di recettori proteici della superficie cellulare. Altri domini, compresi il dominio SH2 e il dominio kringle illustrato nella Figura 3.15, sono di un tipo “a spina”, con gli
N- e i C-terminali vicini fra loro. Dopo riarrangiamenti genomici, questi
moduli sono in genere disposti come un’inserzione in una regione ad ansa
di una seconda proteina.
Un confronto della frequenza relativa dell’utilizzo dei domini in eucarioti
diversi ha rivelato che per molti domini comuni, come le proteina chinasi, la
frequenza è simile in organismi così diversi come il lievito, i vegetali, i vermi,
le mosche e gli esseri umani. Ma ci sono eccezioni notevoli, come il dominio
di riconoscimento dell’antigene del complesso maggiore di istocompatibilità (MHC) (vedi Figura 24.36) che si trova in 57 copie negli esseri umani, ma
è assente negli altri quattro organismi appena menzionati. Presumibilmente
Figura 3.16 Una struttura estesa formata da una serie di domini proteici.
Quattro domini di fibronectina tipo 3 (vedi Figura 3.15) della molecola della matrice
extracellulare fibronectina sono illustrati in (A) come modello a nastro e in (B) come
modello a spazio pieno. (Adattata da D.J. Leahy, I. Aukhil e H.P. Erickson, Cell 84:155164, 1996. Con il permesso di Elsevier.)
(A)
(B)
CAPITOLO
3 Le proteine
126
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questi domini hanno funzioni specializzate che non sono condivise da altri
eucarioti, avendo subito una forte selezione durante l’evoluzione per poter dare origine alle copie multiple osservate. In modo simile si potrebbe supporre
che un dominio come SH2, che mostra un insolito aumento di numero negli
eucarioti superiori, sia particolarmente utile per la pluricellularità.
■ Certe coppie di domini si trovano insieme in molte proteine
Possiamo costruire una grande tavola che mostra l’utilizzo dei domini in ciascun organismo di cui conosciamo la sequenza del genoma. Per esempio, si
stima che il genoma umano contenga circa 1000 domini immunoglobulinici, 500 domini di proteina chinasi, 250 omeodomini che legano il DNA, 300
domini SH3 e 120 domini SH2. Inoltre, emerge che più dei due terzi delle
proteine consistono di due o più domini e che le stesse coppie di domini si
trovano ripetutamente nella stessa disposizione relativa in una proteina. Sebbene metà di tutte le famiglie di domini sia comune ad archei, batteri ed eucarioti, soltanto il 5% delle combinazioni di due domini è ugualmente condiviso. Questo schema suggerisce che la maggior parte delle proteine che contengono combinazioni particolarmente utili di due domini sia comparsa relativamente tardi nel corso dell’evoluzione.
■ Il genoma umano codifica una serie complessa di proteine,
la funzione di molte delle quali è sconosciuta
lievito
Ep1 PHD
PHD
Ep2
verme
Ep1 PHD
PHD
Ep2
Br
Ep2
Br
uomo
Znf
Ep1
PHD
PHD
BMB
Figura 3.17 Struttura a domini di
un gruppo di proteine correlate
evolutivamente che si pensa
abbiano una funzione simile.
In generale c’è una tendenza per
le proteine degli organismi più
complessi, come gli esseri umani, a
contenere ulteriori domini, come nel
caso delle proteine che legano il DNA
confrontate qui.
Il risultato del sequenziamento del genoma umano è stato sorprendente, perché rivela che i nostri cromosomi contengono soltanto circa 21 000 geni codificanti proteine. In base al numero dei geni sembriamo non essere più complessi della minuscola erba Arabidopsis e soltanto circa 1,3 volte più complessi di un nematode. Le sequenze del genoma rivelano anche che i vertebrati
hanno ereditato quasi tutti i loro domini proteici dagli invertebrati; soltanto il
7% dei domini umani identificati è specifico dei vertebrati.
Tuttavia ciascuna proteina umana è in media più complicata (Figura 3.17).
Un processo di rimescolamento di domini durante l’evoluzione dei vertebrati
ha dato origine a molte nuove combinazioni di domini proteici, con il risultato che nelle proteine umane vi è quasi il doppio delle combinazioni di domini che si trovano in un verme o in una mosca. Così, per esempio, il dominio serina proteasi simile a tripsina è collegato ad almeno altri 18 tipi di domini proteici nelle proteine umane, mentre si trova unito covalentemente a
5 soli domini diversi nel verme. Questa varietà extra nelle nostre proteine aumenta di molto la gamma di possibili interazioni proteina-proteina (vedi Figura 3.79), ma come contribuisca a renderci umani non è noto.
La complessità degli organismi viventi è impressionante e sapere che al
momento non abbiamo il minimo indizio su quale potrebbe essere la funzione di più di 10 000 delle proteine che abbiamo identificato finora nel genoma umano smorza alquanto l’entusiasmo. La prossima generazione di biologi
cellulari dovrà affrontare certamente enormi sfide e non mancheranno affascinanti misteri da risolvere.
■ Le molecole proteiche più grandi spesso contengono
più di una catena polipeptidica
Gli stessi deboli legami non covalenti che rendono una catena proteica capace di ripiegarsi in una conformazione specifica permettono anche alle proteine di legarsi fra loro per produrre strutture più grandi nella cellula. Qualunque regione della superficie di una proteina che può interagire con un’altra
molecola attraverso serie di legami non covalenti è chiamata sito di legame.
Una proteina può contenere siti di legame per varie molecole, sia grandi che
piccole. Se un sito di legame riconosce la superficie di una seconda proteina,
lo stretto legame di due catene polipeptidiche ripiegate in corrispondenza di
questo sito crea una molecola proteica più grande con una geometria precisamente definita. Ciascuna catena polipeptidica in una proteina di questo tipo è detta subunità proteica.
CAPITOLO
3 Le proteine
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Figura 3.18 Due subunità proteiche identiche che si legano insieme per formare
un dimero simmetrico. La proteina repressore Cro del batteriofago lambda si lega al
DNA per spegnere specifici sottogruppi di geni virali. Le sue due subunità identiche si
legano testa-testa, tenute insieme da una combinazione di forze idrofobiche (blu) e da
una serie di legami idrogeno (regione gialla). (Adattata da D.H. Ohlendorf, D.E. Tronrud e
B.W. Matthews, J. Mol. Biol. 280:129-136, 1998. Con il permesso di Academic Press.)
Nel caso più semplice due identiche catene polipeptidiche ripiegate si
legano fra loro in una disposizione “testa-testa”, formando un complesso
simmetrico di due subunità proteiche (un dimero) tenuto insieme da interazioni fra due siti di legame identici. La proteina repressore Cro – una proteina virale regolatrice dei geni che si lega al DNA per spegnere geni virali in
una cellula batterica infettata – fornisce un esempio (Figura 3.18). Nelle cellule si trovano comunemente molti altri tipi di complessi proteici simmetrici, formati da copie multiple di una singola catena polipeptidica (per esempio, vedi Figura 3.20).
Molte proteine cellulari contengono due o più tipi di catene polipeptidiche. L’emoglobina, la proteina che trasporta ossigeno nei globuli rossi, contiene
due subunità identiche di a-globina e due subunità identiche di b-globina,
disposte simmetricamente (Figura 3.19). Queste proteine con molte subunità
sono molto comuni nelle cellule e possono essere molto grandi (Filmato 3.6 ).
■ Alcune proteine globulari formano lunghi filamenti elicoidali
Le proteine che abbiamo discusso finora sono per la maggior parte proteine
globulari, in cui la catena polipeptidica si ripiega in una forma compatta come
una palla con una superficie irregolare. Alcune di queste molecole proteiche
possono assemblarsi formando filamenti che possono attraversare l’intera lunghezza di una cellula. Nel modo più semplice, una lunga catena di molecole
proteiche identiche può essere costruita se ciascuna molecola ha un sito di legame complementare a un’altra regione della superficie della stessa molecola (Figura 3.20). Un filamento di actina, per esempio, è una lunga struttura elicoidale prodotta da molte molecole della proteina actina (Figura 3.21). L’actina
è molto abbondante nelle cellule eucariotiche, dove costituisce uno dei principali sistemi di filamenti del citoscheletro (vedi Capitolo 16).
Incontreremo molte strutture elicoidali in questo libro. Perché l’elica è una
struttura così comune in biologia? Come abbiamo visto, le strutture biologiche spesso sono formate collegando subunità molto simili fra loro in lunghe
catene ripetitive. Se tutte le subunità sono identiche, le subunità vicine nella
catena spesso possono adattarsi l’una all’altra soltanto in un modo, aggiustando le loro posizioni relative per ridurre al minimo l’energia libera del contatto.
β
β
α
α
Figura 3.19 Una proteina formata
come complesso simmetrico di
due subunità diverse. L’emoglobina
è una proteina abbondante nei
globuli rossi che contiene due copie
di a-globina (verde) e due copie di
b-globina (blu). Ciascuna delle quattro
catene polipeptidiche contiene una
molecola di eme (rosso), che è il sito
a cui si lega l’ossigeno (O2). Così
ciascuna molecola di emoglobina nel
sangue porta quattro molecole di
ossigeno. (Codice PDB: 2DHB.)
(A)
subunità
libere
strutture
assemblate
dimero
sito
di legame
(B)
elica
siti
di legame
Figura 3.20 Complessi proteici. (A) Una proteina con un solo sito di legame può
formare un dimero con un’altra proteina identica. (B) Proteine identiche con due siti di
legame diversi spesso formano un lungo filamento elicoidale. (C) Se i due siti di legame
sono disposti in modo appropriato l’uno rispetto all’altro, le subunità proteiche possono
formare un anello chiuso invece di un’elica. (Per un esempio di A vedi Figura 3.18; per un
esempio di B vedi Figura 3.21; per esempi di C vedi Figure 5.14 e 14.31.)
(C)
anello
siti
di legame
CAPITOLO
3 Le proteine
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molecola di actina
estremità
meno
37 nm
estremità più
(A)
50 nm
(B)
Figura 3.21 Filamenti di actina. (A) Micrografie elettroniche a trasmissione di filamenti
di actina colorati negativamente. (B) La disposizione a elica di molecole di actina in un
filamento di actina. (A, per gentile concessione di Roger Craig.)
Come risultato ciascuna subunità è posizionata esattamente nello stesso modo della successiva, così che la subunità 3 si adatta alla subunità 2 nello stesso
modo in cui la subunità 2 si adatta alla subunità 1, e così via. Poiché è molto
raro che le subunità si uniscano in una linea retta, questa disposizione generalmente dà luogo a un’elica, una struttura regolare che assomiglia a una scala a
chiocciola, come illustrato nella Figura 3.22. Secondo la direzione di avvolgimento della scala, si dice che un’elica è destrorsa o sinistrorsa (Figura 3.22E).
Questa direzione non cambia se si capovolge l’elica, ma viene invertita se l’elica si riflette in uno specchio.
Le eliche si ritrovano comunemente nelle strutture biologiche, sia che le
subunità siano piccole molecole unite da legami covalenti (per esempio, gli
amminoacidi in un’a elica) sia che si tratti di grandi molecole proteiche unite da forze non covalenti (per esempio, le molecole di actina nei filamenti di
actina). Ciò non è sorprendente. Un’elica non è una struttura eccezionale e
si genera semplicemente ponendo molte subunità simili l’una vicina all’altra,
ciascuna nella stessa relazione rigidamente ripetuta con la precedente, cioè
con una rotazione fissa seguita da uno spostamento fisso lungo l’asse dell’elica, proprio come in una scala a chiocciola.
■ Molte molecole proteiche hanno una forma allungata
fibrosa
Gli enzimi tendono a essere proteine globulari: anche se molti sono grandi e
complicati, con subunità multiple, la maggior parte ha una struttura nel complesso rotonda. Nella Figura 3.21 abbiamo visto che le proteine globulari si
possono associare per formare lunghi filamenti. Ma ci sono anche funzioni
che richiedono che ciascuna singola molecola proteica attraversi una grande
distanza. Queste proteine generalmente hanno una struttura allungata relativamente semplice e sono comunemente chiamate proteine fibrose.
Una grande famiglia di proteine fibrose intracellulari comprende l’a-cheratina, presentata in precedenza quando abbiamo introdotto l’a elica, e molecole correlate. I filamenti di cheratina sono estremamente stabili e sono il
componente principale di strutture a lunga vita come capelli, corna e unghie.
Una molecola di a-cheratina è un dimero di due subunità identiche, con le
lunghe a eliche di ciascuna subunità disposte in modo da formare un coiled
coil (vedi Figura 3.9). Le regioni coiled coil sono incappucciate a ciascuna
estremità da domini globulari che contengono siti di legame. Ciò rende que-
Figura 3.22 Alcune proprietà di
un’elica. (A-D) Un’elica si forma
quando una serie di subunità si
legano fra loro in un modo regolare.
In basso, ognuna di queste eliche
è vista dall’alto: si vede che hanno
due (A), tre (B) e sei (C e D) subunità
per giro dell’elica. Si noti che l’elica
in (D) ha un percorso più ampio di
quello in (C), ma lo stesso numero di
subunità per giro. (E) Come discusso
nel testo, un’elica può essere destrorsa
o sinistrorsa. Come riferimento è
utile ricordare che le viti metalliche
standard, che si inseriscono girandole
in senso orario, sono destrorse. Si
noti che un’elica mantiene la stessa
direzione quando viene capovolta.
(Codice PDB:2DHB.)
elica
sinistrorsa
(E)
(A)
(B)
(C)
(D)
elica
destrorsa
CAPITOLO
3 Le proteine
129
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sta classe di proteine capace di assemblarsi in filamenti intermedi a forma di corda, un componente importante del citoscheletro che crea l’impalcatura strutturale interna di una cellula (vedi Figura 16.67).
Le proteine fibrose sono particolarmente abbondanti fuori dalle cellule,
dove costituiscono uno dei componenti principali della matrice extracellulare simile a un gel che aiuta a legare insiemi di cellule per formare tessuti. Le
proteine della matrice extracellulare sono secrete dalle cellule nell’ambiente circostante, dove spesso si assemblano in fogli o lunghe fibrille. Il collagene
è la più abbondante di queste proteine nei tessuti animali. Una molecola di
collagene consiste di tre lunghe catene polipeptidiche, ciascuna contenente l’amminoacido non polare glicina ogni tre residui. Questa struttura regolare permette alle catene di avvolgersi l’una intorno all’altra per generare una lunga tripla elica regolare (Figura 3.23A). Molte molecole di collagene si legano quindi l’una all’altra, fianco a fianco, per creare lunghe schiere
sovrapposte, generando così fibrille di collagene estremamente robuste che
conferiscono ai tessuti connettivi la loro resistenza alla tensione, come vedremo nel Capitolo 19.
■ Molte proteine contengono quantità sorprendentemente
grandi di catene polipeptidiche non strutturate
Da lungo tempo è noto che, a differenza del collagene, un’altra proteina abbondante della matrice extracellulare, l’elastina, è formata da un polipeptide
altamente disordinato. Questo disordine è essenziale per la funzione dell’elastina. Le sue catene polipeptidiche relativamente sciolte e non strutturate sono legate covalentemente in un reticolo elastico simile a gomma che
può essere tirato in modo reversibile da una conformazione all’altra, come
illustrato nella Figura 3.23B. Le fibre elastiche che ne risultano rendono la
pelle e altri tessuti, come arterie e polmoni, capaci di stirarsi e di distendersi senza strapparsi.
Le regioni intrinsecamente non strutturate delle proteine sono molto frequenti in natura e hanno funzioni importanti all’interno delle cellule. Co-
fibra elastica
50 nm
breve sezione
di fibrilla di collagene
molecola
di collagene
300 x 1,5 nm
STIRAMENTO
1,5 nm
tripla elica
del collagene
RILASSAMENTO
singola molecola di elastina
legame crociato
(A)
(B)
Figura 3.23 Collagene ed elastina. (A) Il collagene è
una tripla elica formata da tre catene proteiche estese che si
avvolgono l’una intorno all’altra (in basso). Molte molecole
di collagene a bastoncino sono legate fra loro nello spazio
extracellulare e formano fibrille non estensibili di collagene
(in alto), che hanno la resistenza alla tensione dell’acciaio. Le
strisce delle fibrille di collagene sono dovute alla disposizione
regolarmente ripetuta delle molecole di collagene nella
fibrilla. (B) Catene polipeptidiche di elastina sono unite
insieme da legami crociati, formando fibre elastiche simili
a gomma. Ciascuna molecola di elastina si svolge in una
conformazione più estesa quando la fibra è stirata e si riavvolge
spontaneamente non appena viene rilasciata la forza stirante. I
legami crociati che si formano nello spazio extracellulare, come
menzionato, creano legami covalenti tra catene laterali di lisina,
ma la chimica per il collagene e per l’elastina è diversa.
CAPITOLO
3 Le proteine
130
Figura 3.24 Alcune funzioni
importanti svolte da proteine
con sequenza intrinsecamente
non strutturata. (A) Spesso le
regioni non strutturate di catene
polipeptidiche formano siti di legame
per altre proteine. Sebbene questi
legami siano altamente specifici,
spesso sono a bassa affinità, a causa
del costo di energia libera necessario
per il ripiegamento del partner
normalmente non strutturato (e sono
quindi prontamente reversibili).
(B) Le regioni non strutturate
possono essere facilmente modificate
covalentemente in modo da far
cambiare le loro preferenze di legame;
per questo spesso sono coinvolte in
processi di segnalazione cellulare.
In questo disegno schematico sono
indicati siti multipli di fosforilazione
proteica. (C) Le regioni non strutturate
creano di frequente “guinzagli” che
tengono vicini domini proteici che
interagiscono tra di loro.
(D) Una densa rete di proteine non
strutturate può formare una barriera
di diffusione, come nel caso delle
nucleoporine per il poro nucleare.
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me abbiamo già visto, le proteine usano le brevi anse di catena polipeptidica che generalmente sporgono dal nucleo dei domini proteici per legare altre molecole. Alcune di queste anse rimangono ampiamente non strutturate
finché non si legano a una molecola bersaglio, adottando una specifica conformazione ripiegata solamente quando questa molecola è legata. Si sa anche che molte proteine hanno code intrinsecamente non strutturate a una
o all’altra estremità di un dominio strutturato (vedi, per esempio, gli istoni
nella Figura 4.24). La quantità di tali regioni non strutturate è apparsa chiara solamente dopo che interi genomi sono stati sequenziati. Questo ha permesso di usare metodologie bioinformatiche per analizzare la sequenza amminoacidica codificata dai geni, cercando le regioni non strutturate in base
alla loro idrofobicità insolitamente bassa e alla carica netta relativamente alta.
Combinando questi risultati con altri dati, si è giunti ora a pensare che forse un quarto di tutte le proteine eucariotiche possa adottare conformazioni che sono in larga parte non strutturate, fluttuando rapidamente tra molte conformazioni differenti. Molte di queste regioni intrinsecamente non
strutturate contengono sequenze ripetute di amminoacidi. A che cosa servono queste regioni non strutturate?
Alcune funzioni note sono illustrate nella Figura 3.24. Una delle funzioni
predominanti è quella di formare siti di legame specifici per altre molecole
proteiche che siano ad alta specificità ma facilmente modificati dalla fosforilazione o dalla defosforilazione delle proteine, o da qualunque altra modifica
covalente innescata dagli eventi di segnalazione cellulare (Figure 3.24A e B).
Vedremo, per esempio, che l’enzima RNA polimerasi eucariotica che produce mRNA contiene una lunga coda al C-terminale non strutturata che è covalentemente modificata mentre procede la sua sintesi di RNA, attraendo in
questo modo altre proteine specifiche nel complesso di trascrizione in tempi differenti (vedi Figura 6.22); inoltre questa coda non strutturata interagisce
con un tipo diverso di dominio a bassa complessità quando la RNA polimerasi è reclutata nei siti specifici sul DNA dove inizia la sintesi.
Come illustrato nella Figura 3.24C, una regione non strutturata può anche
servire da “guinzaglio” per tenere due domini proteici vicini allo scopo di favorire la loro interazione. Per esempio, è questa funzione di guinzaglio che permette ai substrati di muoversi attraverso i siti attivi nei grandi complessi multienzimatici (vedi Figura 3.54). Una funzione guinzaglio simile permette a grandi
proteine impalcatura (scaffold) con molteplici siti di legame proteici di concentrare
serie di proteine interagenti, sia aumentando le velocità di reazione che confinando le loro reazioni in siti particolari della cellula (vedi Figura 3.78).
Altre proteine sembra che assomiglino all’elastina, in quanto la loro funzione richiede che restino in gran parte non strutturate. Quindi, numerose
catene proteiche non strutturate le une vicino alle altre possono creare all’interno della cellula microregioni con consistenza simile a gel che limitano la
diffusione. Per esempio, le abbondanti nucleoporine che rivestono la superficie interna del complesso del poro nucleare formano un reticolo a gomitolo
casuale (Figura 3.24) di importanza cruciale nel trasporto selettivo attraverso
il nucleo (vedi Figura 12.8).
P
+
P
P
P
P
P
(A)
LEGAME
(B) SEGNALAZIONE
(C)
GUINZAGLIO
(D)
BARRIERA DI DIFFUSIONE
CAPITOLO
■ Le proteine extracellulari spesso sono stabilizzate da legami
crociati covalenti
Molte proteine sono attaccate all’esterno della membrana plasmatica di una
cellula o secrete per formare parte della matrice extracellulare. Tutte queste
proteine sono direttamente esposte alle condizioni extracellulari. Per aiutare a
mantenere le loro strutture, le catene polipeptidiche di queste proteine spesso sono stabilizzate da legami covalenti crociati. Questi legami possono unire due amminoacidi della stessa proteina o connettere catene polipeptidiche
diverse in una proteina multisubunità. Sebbene ne esistano molti altri tipi, i
legami crociati più comuni nelle proteine sono legami covalenti zolfo-zolfo.
Questi legami disolfuro (chiamati anche legami SOS) si formano quando le proteine vengono preparate per l’esportazione dalle cellule. Come vedremo nel
Capitolo 12, la loro formazione è catalizzata nel reticolo endoplasmatico da
un enzima che collega insieme due coppie di gruppi OSH di catene laterali di cisteine che sono adiacenti nella proteina ripiegata (Figura 3.25). I legami
disolfuro non cambiano la conformazione di una proteina, ma agiscono invece come “graffette” atomiche che ne rinforzano la conformazione più favorita. Per esempio, il lisozima – un enzima presente nelle lacrime che dissolve le
pareti cellulari dei batteri – mantiene la sua attività antibatterica per un lungo
periodo perché è stabilizzato da legami crociati di questo tipo.
I legami disolfuro in genere non riescono a formarsi nel citosol della cellula, dove un’alta concentrazione di agenti riducenti converte di nuovo i legami SOS in gruppi OSH di cisteine. A quanto pare le proteine non richiedono questo tipo di rinforzo nell’ambiente relativamente mite all’interno
della cellula.
■ Le molecole proteiche spesso servono da subunità
per l’assemblaggio di grandi strutture
Gli stessi principi che rendono una molecola proteica capace di configurarsi in
modo tale da formare anelli o filamenti operano per generare strutture molto più grandi formate da serie di macromolecole differenti, come complessi
enzimatici, ribosomi, filamenti proteici, virus e membrane. Questi grandi elementi non sono costruiti come singole molecole giganti legate covalentemente, ma sono invece formati dall’assemblaggio non covalente di molte molecole prodotte separatamente, che rappresentano subunità della struttura finale.
cisteina
C
C
CH2
CH2
SH
S
SH
C
CH2
SH
S
CH2
C
OSSIDAZIONE
RIDUZIONE
CH2
C
CH2
C
C
legame
disolfuro
intercatena
CH2
S
SH
3 Le proteine
131
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S
legame
disolfuro
intracatena
CH2
C
Figura 3.25 Legami disolfuro. Legami covalenti disolfuro si formano tra catene laterali
di cisteine adiacenti. Questi legami crociati possono unire due parti della stessa catena
polipeptidica o due catene polipeptidiche diverse. Poiché l’energia richiesta per rompere
un legame covalente è molto maggiore dell’energia richiesta per rompere persino
un’intera serie di legami non covalenti (vedi Tabella 2.1, p. 46), un legame disolfuro può
avere un importante effetto stabilizzante su una proteina (Filmato 3.7 ).
CAPITOLO
3 Le proteine
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Figura 3.26 Assemblaggio di
una singola subunità proteica
che richiede contatti multipli
proteina-proteina. Viene mostrato
come subunità globulari compattate
esagonalmente possano formare
fogli piatti o tubi. Generalmente
queste grandi strutture non sono
considerate come singole “molecole”
ma, come i filamenti di actina descritti
precedentemente, sono viste come
complessi formati da molte molecole
diverse.
foglio con
compattamento
esagonale
subunità
tubo
L’uso di subunità più piccole per costruire strutture più grandi ha diversi vantaggi.
1. Una grande struttura costituita da una o più subunità più piccole ripetute
richiede soltanto una piccola quantità di informazione genetica.
2. Sia l’assemblaggio che il disassemblaggio possono essere processi facilmente controllati e reversibili, poiché le subunità si associano tramite legami
multipli a energia relativamente bassa.
3. Gli errori nella sintesi della struttura possono essere evitati più facilmente,
poiché meccanismi di correzione possono operare durante l’assemblaggio
per escludere subunità malformate.
20 nm
Figura 3.27 Il capside proteico
di un virus. La struttura del capside
del virus SV40 della scimmia è stata
determinata mediante cristallografia ai
raggi X e, come per i capsidi di molti
altri virus, è conosciuta nei dettagli
atomici. (Per gentile concessione di
Robert Grant, Stephan Crainic e James
M. Hogle.)
Alcune subunità proteiche si assemblano in fogli piatti in cui le subunità sono
disposte in schemi esagonali. Proteine specializzate di membrana sono talvolta disposte in questo modo nei doppi strati lipidici. Con un leggero cambiamento nella geometria delle singole subunità un foglio esagonale può essere
convertito in un tubo (Figura 3.26) o, con più cambiamenti, in una sfera cava.
Tubi e sfere proteici che legano specifiche molecole di RNA e di DNA formano il rivestimento dei virus.
La formazione di strutture chiuse, come anelli, tubi o sfere, fornisce ulteriore stabilità perché aumenta il numero di legami fra le subunità proteiche.
Inoltre, poiché una struttura di questo tipo è creata da interazioni reciprocamente dipendenti e cooperative fra le subunità, può essere spinta ad assemblarsi
o a disassemblarsi da un cambiamento relativamente piccolo che influenza individualmente ciascuna subunità. Questi principi sono illustrati in modo evidente nel rivestimento proteico, o capside, di molti virus semplici, che prende
la forma di una sfera cava basata su un icosaedro (Figura 3.27). I capsidi spesso
sono formati da centinaia di subunità proteiche identiche che racchiudono e
proteggono l’acido nucleico virale (Figura 3.28). La proteina in questo capside deve avere una struttura particolarmente adattabile: deve non solo stabilire parecchie specie diverse di contatti per creare la sfera, ma anche cambiare
questa disposizione per lasciare uscire l’acido nucleico in modo da iniziare la
replicazione virale una volta che il virus è entrato in una cellula.
■ Molte strutture nelle cellule sono capaci di autoassemblaggio
L’informazione necessaria per formare molti dei grandi complessi di macromolecole nelle cellule deve essere contenuta nelle subunità stesse, poiché subunità purificate possono assemblarsi spontaneamente nella struttura finale in
condizioni appropriate. Il primo grande aggregato macromolecolare di cui è
stata dimostrata la capacità di autoassemblaggio dei suoi componenti è stato il
virus del mosaico del tabacco (TMV). Questo virus è un lungo bastoncino in cui
un cilindro di proteine è disposto a elica intorno a un nucleo di RNA (Figura
3.29). Se l’RNA e le subunità proteiche dissociate sono mescolati insieme in
soluzione, si ricombinano formando particelle virali completamente attive. Il
processo di assemblaggio è inaspettatamente complesso e comprende la formazione di doppi anelli di proteine, che servono da intermedi che si aggiungono al rivestimento virale in crescita.
CAPITOLO
3 Le proteine
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Figura 3.28 La struttura di un
virus sferico. Nei virus spesso
molte subunità proteiche identiche
si compattano insieme creando
un guscio sferico (un capside) che
racchiude il genoma virale, composto
da RNA o da DNA (vedi anche Figura
3.27). Per ragioni geometriche non
più di 60 subunità identiche possono
unirsi insieme in modo esattamente
simmetrico. Se sono permesse piccole
irregolarità, però, si possono usare più
subunità per produrre un capside più
grande che mantiene una simmetria
icosaedrica. Il virus del nanismo a
cespuglio del pomodoro (TBSV)
mostrato qui, per esempio, è un virus
sferico con un diametro di circa 33
nm formato da 180 copie identiche
di una proteina del capside di 386
amminoacidi più un genoma
a RNA di 4500 nucleotidi. Per costruire
un capside così grande la proteina
deve essere capace di adattarsi in
tre ambienti leggermente diversi.
Questo richiede tre conformazioni
lievemente diverse, ciascuna delle
quali è colorata in modo differente
nella particella virale mostrata qui. È
rappresentata la via di assemblaggio
ipotizzata; la struttura tridimensionale
precisa è stata determinata mediante
diffrazione ai raggi X. (Per gentile
concessione di Steve Harrison.)
tre dimeri
dimeri liberi
dimero
particella
incompleta
RNA virale
dominio sporgente
dominio del guscio
braccio di connessione
dominio che lega l’RNA
dimeri
liberi
monomero
della proteina
del capside mostrato
come modello
a nastro
particella
virale
intatta
(90 dimeri)
10 nm
Un altro complesso aggregato macromolecolare che si può riassemblare
dai suoi componenti è il ribosoma batterico. Questa struttura è composta da
circa 55 diverse proteine e da 3 diverse molecole di rRNA. Se i singoli componenti sono incubati in condizioni appropriate in una provetta, riformano
spontaneamente la struttura originale. Cosa più importante, questi ribosomi
ricostituiti sono capaci di catalizzare la sintesi proteica. Come ci si potrebbe
aspettare, il riassemblaggio dei ribosomi segue una via specifica: dopo che cer-
(A)
(B)
50 nm
Figura 3.29 La struttura del virus del mosaico del tabacco
(TMV). (A) Una micrografia elettronica della particella virale,
che consiste di una singola lunga molecola di RNA racchiusa
in un rivestimento proteico cilindrico composto da subunità
identiche. (B) Un modello che mostra parte della struttura
del TMV. Una molecola di RNA a singolo filamento di 6395
nucleotidi è impacchettata in un rivestimento elicoidale
costituito da 2130 copie di una proteina di rivestimento di
158 amminoacidi. Particelle virali completamente infettive si
possono autoassemblare in provetta a partire da RNA e molecole
proteiche purificate. (A, per gentile concessione di Robley
Williams; B, per gentile concessione di Richard J. Feldmann.)
3 Le proteine
CAPITOLO
134
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te proteine si sono attaccate all’RNA, questo complesso è quindi riconosciuto
da altre proteine, e così via, fino a che la struttura è completa.
Non è ancora chiaro come alcuni dei processi più elaborati di autoassemblaggio siano regolati. Molte strutture della cellula, per esempio, sembrano
avere una lunghezza precisamente definita che è molte volte più grande di
quella delle macromolecole che le compongono. In che modo si raggiunga la
determinazione di questa lunghezza in molti casi è un mistero. Nel caso più
semplice una lunga proteina che funge da nucleo di assemblaggio, o un’altra
macromolecola, fornisce un’impalcatura che determina l’estensione del complesso finale. Questo è il meccanismo che determina la lunghezza della particella di TMV, in cui la catena di RNA rappresenta il nucleo. In modo simile
si pensa che una proteina centrale interagisca con l’actina per determinare la
lunghezza dei filamenti sottili nel muscolo.
■ La formazione di complesse strutture biologiche è spesso
aiutata da fattori di assemblaggio
Non tutte le strutture cellulari tenute insieme da legami non covalenti sono
capaci di autoassemblaggio. Un ciglio, o una miofibrilla di una cellula muscolare, per esempio, non si possono formare spontaneamente da una soluzione
delle macromolecole che li compongono. In questi casi parte dell’informazione di assemblaggio è fornita da enzimi speciali e da altre proteine cellulari
che svolgono la funzione di stampo, fungendo da fattori di assemblaggio che guidano la costruzione, senza però prendere parte alla struttura finale assemblata.
Anche strutture relativamente semplici possono essere prive di alcuni degli ingredienti necessari per il loro assemblaggio. Nella formazione di certi virus batterici, per esempio, la testa, che è costituita da molte copie di una singola subunità proteica, è assemblata su un’impalcatura provvisoria composta
da una seconda proteina prodotta dal virus. Poiché la seconda proteina è assente nella particella virale finale, la struttura della testa non può riassemblarsi spontaneamente una volta che è stata demolita. Sono noti altri esempi in
cui un taglio proteolitico è un passaggio essenziale e irreversibile del processo
normale di assemblaggio. Questo è il caso anche di piccoli complessi proteici,
tra cui la proteina strutturale collagene e l’ormone insulina (Figura 3.30). Da
questi esempi relativamente semplici sembra certo che l’assemblaggio di una
struttura complessa come un ciglio richiederà un ordine temporale e spaziale
conferito da numerosi altri componenti.
proinsulina
SH
■ Molte proteine possono formare fibrille amiloidi
SH
SH
SH
SH
SH
ripiegamento specifico
stabilizzato da legami
disolfuro
S
S
S
S
S
S
rimozione del peptide
di connessione, che lascia
la molecola completa
a due catene dell’insulina
S
insulina
S
S
S
S
S
la riduzione separa
irreversibilmente
le due catene
SH SH
+
SH
SH
Una classe speciale di strutture proteiche, utilizzate per alcune funzioni cellulari normali, può anche contribuire a patologie umane quando non è controllata. Queste strutture sono aggregati di foglietti b stabili e autopropaganti chiamati fibrille amiloidi.Tali fibrille sono costituite da una serie di catene polipeptidiche identiche disposte le une sopra le altre per creare una pila
continua di foglietti b, con i filamenti b orientati perpendicolarmente all’asse
della fibrilla allo scopo di formare un filamento crociato b (Figura 3.31). Di norma centinaia di monomeri si aggregheranno, formando una struttura fibrosa non ramificata lunga diversi micrometri e larga da 5 a15 nm. Una frazione
sorprendentemente ampia di proteine è potenzialmente in grado di formare
tali strutture, perché il breve segmento di catena polipeptidica che costituisce l’ossatura della fibrilla può avere varie sequenze diverse e seguire una tra
SH
SH
Figura 3.30 Taglio proteolitico nell’assemblaggio dell’insulina. L’ormone
polipeptidico insulina non può riformarsi spontaneamente in modo efficiente se i suoi
legami disolfuro sono stati rotti. Esso è sintetizzato come una proteina più grande
(proinsulina), che viene tagliata da un enzima proteolitico dopo che la catena proteica
si è ripiegata in una forma specifica. L’escissione di parte della catena polipeptidica della
proinsulina rimuove una parte dell’informazione necessaria perché la proteina si ripieghi
spontaneamente nella sua conformazione normale. Una volta che l’insulina è stata
denaturata e le sue due catene polipeptidiche sono state separate, la sua capacità di
riassemblarsi va perduta.
CAPITOLO
3 Le proteine
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Figura 3.31 Struttura dettagliata del nucleo di una fibrilla amiloide. In questa
figura è illustrata la struttura centrale beta-crociata della fibrilla amiloide, formata da un
peptide di sette amminoacidi della proteina Sup35, un prione di lievito molto studiato.
La sua struttura, determinata mediante cristallografia ai raggi X, è costituita dalla
sequenza glicina-asparagina-asparagina-glutammina-glutammina-asparagina-tirosina
(GNNQQNY). Sebbene le strutture centrali beta-crociate di altre fibrille amiloidi siano
simili, essendo formate da due lunghi foglietti b tenuti insieme da una “cerniera a zip
sterica” (zipper sterico), si possono osservare diverse strutture in dettaglio a seconda
della breve sequenza peptidica coinvolta. (A) È illustrata metà della struttura centrale. Qui
una struttura standard a foglietti b paralleli (vedi p. 119) è tenuta insieme da una serie di
legami idrogeno tra due catene laterali e da legami idrogeno tra due atomi dell’ossatura,
come illustrato nella figura (gli atomi di ossigeno sono in rosso, quelli di azoto in blu). Si
noti che in questo esempio i peptidi adiacenti sono perfettamente a registro. Sebbene
siano mostrati solo cinque strati (ogni strato rappresentato da una freccia), la struttura
reale si estende per molte decine di migliaia di strati nel piano del foglio. (B) La struttura
centrale beta-crociata completa. Un secondo foglietto b identico è appaiato al primo per
formare un motivo a due foglietti che corre lungo tutta la lunghezza della fibrilla. (C) Vista
della struttura centrale completa raffigurata in (B) dall’alto. Le catene laterali fittamente
interdigitate formano una giunzione stretta priva d’acqua nota come zipper sterico. (Per
gentile concessione di David Eisenberg e Michael Sawaya, UCLA; sulla base di R. Nelson et
al., Nature 435:773-778, 2005. Con il permesso di Macmillan Publishers Ltd.)
le numerose differenti vie (Figura 3.32). Tuttavia, sono davvero poche le proteine che in realtà formano questo tipo di strutture all’interno della cellula.
Negli esseri umani sani, i meccanismi di controllo di qualità delle proteine
diminuiscono gradualmente con l’età, permettendo occasionalmente a proteine normali di formare aggregati patologici. Gli aggregati proteici possono
essere rilasciati dalle cellule morte e accumularsi come sostanza amiloide nella matrice extracellulare. In casi estremi l’accumulo di queste fibrille amiloidi
all’interno della cellula può uccidere le cellule e danneggiare i tessuti. Poiché
il cervello è composto da un insieme di cellule nervose altamente organizzate
che non possono rigenerarsi, è particolarmente vulnerabile a questo tipo di
danno da accumulo. Perciò, sebbene le fibrille amiloidi si possano formare in
tessuti differenti e siano ritenute responsabili dell’insorgenza di patologie in
diversi distretti corporei, le più gravi malattie causate da deposito di amiloide
sono quelle neurodegenerative. Per esempio, si pensa che l’anomala formazione di fibrille amiloidi molto stabili svolga un ruolo centrale nella patogenesi sia del morbo di Alzheimer che di quello di Parkinson.
Le malattie da prioni sono un tipo particolare di queste patologie. Esse hanno raggiunto una certa notorietà perché, diversamente dal morbo di
Alzheimer e da quello di Parkinson, possono diffondersi da un organismo
all’altro, quando il secondo organismo mangia un tessuto che contiene l’aggregato di proteine. Un gruppo di malattie strettamente correlate – la scra-
struttura centrale
beta-crociata
struttura centrale
beta-crociata
(A)
domini periferici relativamente indefiniti
2 nm
(B)
100 nm
(C)
(A)
legame
legame
idrogeno
idrogeno
della catena dell’ossatura
laterale
(B)
(C)
Figura 3.32 La struttura di una
fibrilla amiloide. (A) Disegno
schematico della struttura di
una fibrilla amiloide formata
dall’aggregazione di una proteina.
Solamente la struttura centrale
beta-crociata di una fibrilla amiloide
assomiglia alla struttura mostrata
nella Figura 3.31. (B) Vista in sezione
di una possibile struttura della fibrilla
amiloide che può essere formata in
provetta dall’enzima ribonucleasi A
e che mostra come il nucleo della
fibrilla, costituito da un breve
segmento, si metta in relazione con il
resto della struttura. (C) Micrografia
elettronica di fibrille amiloidi. (A, da
L. Esposito, C. Pedone e L. Vitagliano,
Proc. Natl Acad. Sci. USA 103:1153311538, 2006; B, da S. Sambashivan
et al., Nature 437:266-269, 2005;
C, per gentile concessione di David
Eisenberg.)
CAPITOLO
3 Le proteine
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(A) la proteina prionica può assumere
una forma anomala mal ripiegata
cambiamento
conformazionale
molto raro
proteina PrP
normale
forma prionica
anomala
della proteina PrP
(PrP*)
(B) la proteina mal ripiegata può indurre
la formazione di aggregati proteici
Prp
Prp*
eterodimero
la proteina mal ripiegata
converte la PrP normale
nella conformazione
anomala
omodimero
la conversione
di più proteine PrP
nella conformazione
mal ripiegata
crea una fibrilla
amiloide stabile
aggregati proteici
in forma di fibrilla amiloide
Figura 3.33 Gli aggregati proteici
che provocano le malattie da
prioni. (A) Illustrazione schematica del
tipo di cambiamento conformazionale
nella proteina PrP (proteina prionica)
che produce materiale per una fibrilla
amiloide. (B) La natura autoinfettiva
dell’aggregazione proteica è centrale
per le malattie prioniche. PrP è una
proteina molto insolita perché la
versione mal ripiegata, chiamata PrP*,
induce nella proteina PrP normale con
cui viene in contatto un cambiamento
conformazionale, come mostrato.
pie nelle pecore, la malattia di Creutzfeldt-Jacob (CJD) e il kuru negli esseri
umani, e l’encefalopatia spongiforme bovina (BSE) nel bestiame – è causato
da una forma male ripiegata e aggregata di una proteina particolare chiamata PrP (da proteina prionica). PrP si trova normalmente sulla faccia esterna
della membrana plasmatica, prevalentemente nei neuroni, e ha la sfortunata
proprietà di formare fibrille amiloidi che sono “infettive” perché convertono molecole di PrP con ripiegamento normale nella forma patologica (Figura 3.33). Questa proprietà determina un circuito a feedback positivo che propaga la forma anomala di PrP, chiamata PrP*, e permette alla conformazione
patologica di diffondere rapidamente da cellula a cellula nel cervello, causando
alla fine la morte. Può essere pericoloso mangiare tessuti di animali che contengono PrP*, come testimoniato dalla diffusione della BSE (comunemente
chiamata “malattia della mucca pazza”) dal bestiame agli esseri umani. Fortunatamente, in assenza di PrP*, è estremamente difficile che PrP si converta
nella forma patologica.
Un’“eredità su sola base proteica” strettamente correlata è stata osservata
nelle cellule di lievito. La possibilità di studiare proteine infettive nei lieviti ha
chiarito un’altra interessante caratteristica dei prioni. Queste molecole proteiche possono formare tipi distintamente diversi di fibrille di amiloide dalla stessa catena polipeptidica. Inoltre ogni tipo di aggregato può essere infettivo, costringendo le molecole proteiche normali ad assumere lo stesso tipo
anormale di struttura. Dalla stessa catena polipeptidica possono pertanto essere creati “ceppi” di particelle infettive differenti.
■ Le strutture amiloidi possono svolgere funzioni utili
nelle cellule
Inizialmente le fibrille amiloidi sono state studiate perché causavano malattie,
ma adesso si sa che lo stesso tipo di strutture sono utilizzate dalle cellule per
scopi utili. Le cellule eucariotiche, per esempio, depositano molti ormoni peptidici e proteici diversi che saranno secreti in “granuli secretori” specializzati,
che immagazzinano una grande quantità di contenuto concentrato in densi
nuclei con struttura regolare (vedi Figura 13.65). Oggi sappiamo che questi
nuclei strutturati consistono di fibrille amiloidi, che in questo caso hanno una
struttura che permette loro di dissolversi per rilasciare il contenuto solubile
dopo essere state esocitate all’esterno della cellula (Figura 3.34A). Molti batteri usano la struttura amiloide in un modo molto diverso, secernendo proteine che formano lunghe fibrille amiloidi che si proiettano all’esterno della
cellula. Queste lunghe fibrille amiloidi aiutano a legare i batteri circostanti in
biofilm (Figura 3.34B). Poiché questi biofilm aiutano i batteri a sopravvivere in ambienti ostili (come nel caso degli esseri umani trattati con antibiotici),
nuovi farmaci che distruggono specificamente la rete fibrosa formata dall’amiloide batterico potrebbero essere efficaci nel trattare infezioni nell’uomo.
■ Molte proteine contengono domini a bassa complessità che
possono formare strutture amiloidi reversibili
Fino a poco tempo fa si pensava che quelle strutture amiloidi con funzioni
utili fossero confinate all’interno di vescicole specializzate o espresse all’esterno della cellula, come mostrato nella Figura 3.34.Tuttavia, nuovi esperimenti rivelano che un grande gruppo di domini a bassa complessità può formare fibre amiloidi che hanno ruoli funzionali sia nel nucleo che nel citoplasma della cellula. Questi domini normalmente non sono strutturati e sono costituiti
da tratti di sequenza amminoacidica che può essere lunga centinaia di amminoacidi, ma che contiene solo una piccola parte dei 20 diversi amminoacidi.
Diversamente dalle strutture amiloidi associate a malattie mostrate nella Figura 3.33, queste strutture scoperte di recente sono tenute assieme da legami
non covalenti più deboli e si dissociano prontamente in risposta a segnali; per
questo vengono definite strutture amiloidi reversibili.
Molte proteine con tali domini contengono anche una serie differente di
domini che legano altre specifiche proteine o molecole di RNA. Quindi, la loro aggregazione controllata all’interno della cellula può formare un idrogel che
CAPITOLO
3 Le proteine
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Figura 3.34 Due funzioni
normali delle fibrille amiloidi.
(A) Nelle cellule eucariotiche, il cargo
di proteine può essere stoccato
nelle vescicole secretorie in forma
molto compatta e immagazzinato
finché alcuni segnali provocano
il rilascio del cargo per esocitosi.
Per esempio, gli ormoni proteici e
peptidici dell’apparato endocrino,
come il glucagone e la calcitonina,
sono immagazzinati efficientemente
in forma di brevi fibrille amiloidi, che
si dissociano quando raggiungono
l’esterno della cellula. (B) I batteri
producono sulla loro superficie fibrille
amiloidi secernendo le proteine
precursore; queste fibrille formano
quindi biofilm che legano insieme,
e aiutano a proteggere, un elevato
numero di batteri singoli.
la fibrilla amiloide secreta
rilascia peptidi ormonali
solubili
MEMBRANA PLASMATICA
fibrilla amiloide
sulla superficie
batterica
fusione
granulo
di secrezione
ormone
peptidico
processato
(A)
cisterna
del Golgi
strato di
peptidoglicani
gemmazione
membrana
batterica
fibrilla
amiloide
(B)
subunità
stampo
subunità
della fibrilla
raggruppa queste e altre molecole in strutture puntiformi dette corpi intracellulari
o granuli. mRNA specifici possono essere sequestrati in questi granuli, dove
sono immagazzinati finché non vengono resi disponibili mediante un disassemblaggio controllato della struttura amiloide centrale che li tiene insieme.
Si consideri la proteina FUS, una proteina nucleare essenziale con funzioni
legate alla trascrizione, al processamento e al trasporto di molecole di mRNA
specifiche. Più dell’80% del suo dominio C-terminale di 200 amminoacidi è
composto da soli quattro amminoacidi: glicina, serina, glutammina e tirosina.
Questo dominio a bassa complessità è attaccato ad altri domini che legano
molecole di RNA; se viene posto all’interno di una provetta a concentrazioni
sufficientemente elevate, esso forma un idrogel che si associerà sia con se stesso sia con domini a bassa complessità di altre proteine. Come illustrato dall’esperimento nella Figura 3.35, sebbene differenti domini a bassa complessità si
proteina solubile con etichetta fluorescente verde
LA PROTEINA SOLUBILE È STATA
SOSTITUITA DA UN TAMPONE
(A)
la dissociazione della proteina
con fluorescenza verde dal gel
è misurata con un microscopio
a fluorescenza in funzione del tempo
t/2 nessuna
dissociazione
FUS
gel preformato
dalla proteina FUS
hnRNPA2
t/2 = 10,1 min
hnRNPA1
t/2 = 3,6 min
0,5
1
2
3
5
10
15
20
30
45
60
tempo dopo il lavaggio
(B)
Figura 3.35 Misurazione dell’associazione tra
“amiloidi reversibili”. (A) Condizioni sperimentali. I domini
che formano fibrille sono stati prodotti in grande quantità a
partire da proteine contenenti un dominio a bassa complessità
clonando le sequenze che li codificano in un plasmide
adatto all’espressione in E. coli, in modo da permettere la
sovrapproduzione dei domini (vedi p. 512). Dopo che questi
domini sono stati purificati mediante cromatografia per
affinità, una piccola goccia di soluzione concentrata di uno
dei domini (qui il dominio a bassa complessità FUS) è stata
depositata su un piatto per microscopio e lasciata gelificare. Il
gel è stato poi bagnato in una soluzione diluita di un dominio
a bassa complessità della stessa proteina, o di una diversa,
marcato con un composto fluorescente, che ha reso quindi il
gel fluorescente. Dopo aver sostituito la soluzione di proteina
diluita con un tampone, la forza di legame relativa tra vari
domini può essere misurata mediante il decadimento della
fluorescenza, come indicato. (B) Risultati. Il dominio a bassa
complessità della proteina FUS si lega più strettamente con
se stesso che con i domini a bassa complessità delle proteine
hnRNPA1 o hnRNPA2. Un esperimento separato rivela che
queste tre diverse proteine che legano RNA si associano
formando fibrille amiloidi miste. (Adattata da M. Kato et al.,
Cell 149:753-767, 2012.)
CAPITOLO
3 Le proteine
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Figura 3.36 Un tipo di complesso
formato da amiloidi reversibili. La
struttura mostrata si basa su quanto
osservato riguardo l’interazione della
RNA polimerasi con un dominio a
bassa complessità di una proteina
che regola la trascrizione del DNA.
(Adattata da I. Kwon et al., Cell
155:1049-1060, 2013.)
struttura centrale
beta-crociata debole
proteina
con dominio
a bassa
complessità
proteina legata
sito di legame
per altre proteine
con sequenze
ripetute
o per molecole
di RNA
leghino tra loro, le interazioni omotipiche sembrano avere la maggiore affinità (perciò il dominio a bassa complessità di FUS si lega più strettamente a se
stesso). Ulteriori esperimenti hanno dimostrato che sia i legami omotipici sia
quelli eterotipici sono mediati da un nucleo strutturale a foglietto b che forma le fibrille amiloidi e che queste strutture si legano ad altri tipi di sequenze
ripetute nel modo indicato nella Figura 3.36. Molte di queste interazioni sembrano essere controllate dalla fosforilazione delle catene laterali della serina in
uno o entrambi i partner che interagiscono.Tuttavia, molto rimane da capire
su queste strutture recentemente scoperte e sul ruolo che svolgono nella biologia delle cellule eucariotiche.
SOMMARIO La conformazione tridimensionale di una molecola proteica è
determinata dalla sua sequenza di amminoacidi. La struttura ripiegata è stabilizzata
da interazioni non covalenti fra parti diverse della catena polipeptidica. Gli
amminoacidi con catene laterali idrofobiche tendono a raggrupparsi all’interno della
molecola e interazioni a idrogeno locali fra legami peptidici vicini danno origine ad
a eliche e a foglietti b.
Regioni di sequenza amminoacidica note come domini sono le unità modulari da
cui sono costituite molte proteine; questi domini generalmente contengono 40-350
amminoacidi, spesso ripiegati in una struttura globulare. Le proteine piccole sono
costituite di norma da un solo dominio, mentre le proteine più grandi sono formate
da parecchi domini uniti da tratti di diversa lunghezza di catena polipeptidica, alcuni
dei quali possono essere relativamente disordinati. Quando le proteine si sono evolute,
i domini si sono modificati e si sono combinati con altri domini per formare nuove
proteine.
Le proteine sono aggregate in strutture più grandi dalle stesse forze non covalenti
che determinano il ripiegamento proteico. Proteine con siti di legame per la loro
stessa superficie possono assemblarsi in dimeri, anelli chiusi, gusci sferici o polimeri
elicoidali. La fibrilla amiloide è una lunga struttura non ramificata formata da un
assemblamento di aggregati ripetuti di foglietti b. Sebbene alcune combinazioni di
proteine e acidi nucleici possano assemblarsi spontaneamente in strutture complesse
in una provetta, non tutte le strutture in una cellula sono capaci di riassemblarsi
spontaneamente dopo essere state dissociate nelle loro parti costituenti, perché molti
processi di assemblaggio biologici coinvolgono fattori di assemblaggio che non sono
presenti nella struttura finale. ●
Funzione delle proteine
Abbiamo visto che ciascun tipo di proteina è caratterizzato da una sequenza
precisa di amminoacidi, grazie alla quale può ripiegarsi in una particolare forma tridimensionale, o conformazione. Ma le proteine non sono blocchi rigidi di materiale. Esse possono avere parti in movimento progettate con precisione, le cui azioni meccaniche sono accoppiate a eventi chimici. È questo
abbinamento di chimica e movimento che conferisce alle proteine le straor-
CAPITOLO
3 Le proteine
139
© 978-88-08-62126-9
dinarie capacità che sono alla base dei processi dinamici nelle cellule viventi.
In questa sezione vedremo in che modo le proteine si legano ad altre molecole selezionate e come la loro attività dipenda da questo legame. Mostreremo che la capacità di legarsi ad altre molecole permette alle proteine di agire
da catalizzatori, da recettori di segnali, da interruttori, da motori o da minuscole pompe. Gli esempi che esamineremo in questo capitolo non esauriscono assolutamente il vasto repertorio funzionale delle proteine. Altrove in questo libro incontreremo le funzioni specializzate di molte altre proteine, basate sugli stessi principi.
■ Tutte le proteine si legano ad altre molecole
Le proprietà biologiche di una molecola proteica dipendono dalle sue interazioni fisiche con altre molecole. Così gli anticorpi si attaccano a virus e batteri per marcarli per la distruzione, l’enzima esochinasi lega glucosio e ATP in
modo da catalizzare una reazione fra di loro, molecole di actina si legano fra
loro per assemblarsi in filamenti di actina e così via. In effetti tutte le proteine
si attaccano ad altre molecole, o le legano. In alcuni casi questo legame è molto forte; in altri è debole e di breve durata. Ma il legame mostra sempre grande specificità, nel senso che ciascuna proteina può di solito legare poche molecole o anche una soltanto fra le molte migliaia di diversi tipi che incontra. La
sostanza che è legata dalla proteina – che sia uno ione, una piccola molecola
o una macromolecola – viene detta ligando di quella proteina.
La capacità di una proteina di legare selettivamente e con alta affinità un
ligando dipende dalla formazione di una serie di legami deboli non covalenti – legami idrogeno, attrazioni elettrostatiche e attrazioni di van der Waals –
oltre a interazioni idrofobiche favorevoli (vedi Quadro 2.3, pp. 98-99). Poiché
ciascun singolo legame è debole, un legame efficace si verifica soltanto quando si formano simultaneamente molti legami deboli. Ciò è possibile soltanto
se il contorno della superficie del ligando si adatta molto bene alla proteina,
come una mano in un guanto (Figura 3.37).
La regione di una proteina che si associa a un ligando, nota come sito di
legame del ligando, di solito è costituita da una cavità nella superficie della proteina formata da una particolare disposizione di amminoacidi. Questi
amminoacidi possono appartenere a porzioni diverse della catena polipeptidica che si avvicinano quando la proteina si ripiega (Figura 3.38). Regioni separate della superficie della proteina forniscono in genere siti di legame per ligandi diversi, permettendo di regolare l’attività della proteina, come vedremo più avanti. E altre parti della proteina possono servire da maniglie per posizionare la proteina nella cellula; un esempio è il dominio SH2
esaminato in precedenza, che è spesso usato per spostare una proteina che lo
contiene in siti intracellulari, in risposta a segnali particolari.
Sebbene non abbiano un contatto diretto con il ligando, gli atomi immersi
all’interno della proteina forniscono un’impalcatura essenziale che conferisce
alla superficie il suo profilo e le sue proprietà chimiche e meccaniche. Anche
piccoli cambiamenti negli amminoacidi all’interno di una molecola proteica possono modificare la sua forma tridimensionale in modo sufficiente a distruggere un sito di legame sulla superficie.
legami non covalenti
ligando
sito
di legame
(B)
(A)
proteina
Figura 3.37 Il legame selettivo di
una proteina a un’altra molecola.
Molti legami deboli sono necessari
per rendere una proteina capace di
legare strettamente un’altra molecola,
chiamata ligando. Un ligando deve
perciò adattarsi precisamente nel sito
di legame di una proteina, come una
mano in un guanto, così che si possa
formare un numero elevato di legami
non covalenti fra la proteina e il
ligando. (A) Disegno schematico.
(B) Modello a spazio pieno.
(Codice PDB: 1G6N.)
CAPITOLO
3 Le proteine
140
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catene laterali
di amminoacidi
H
C
N
O
C
H
H
C
(CH2)3
NH
C
proteina non ripiegata
RIPIEGAMENTO
arginina
sito di legame
serina
CH2
legame idrogeno
O
H
O
O
5′
AMP ciclico
P
+
NH2
NH2
O
O
O
serina
3′
N
O
N
H
N
O
O
_
N
C
CH2
proteina ripiegata
(B)
O
CH2
C
H
N
H
H
treonina
O
CH
H3C
CH2
(A)
H
H
H
attrazione
elettrostatica
N
C
acido
glutammico
H
C
H
Figura 3.38 Il sito di legame di
una proteina. (A) Il ripiegamento
della catena polipeptidica crea di
norma una fessura o una cavità sulla
superficie della proteina. Questa
fessura contiene una serie di catene
laterali di amminoacidi disposte in
modo da poter formare legami non
covalenti soltanto con certi ligandi.
(B) Un primo piano di un sito
di legame reale che mostra i
legami idrogeno e le interazioni
elettrostatiche fra una proteina e il suo
ligando. In questo esempio il ligando
legato è l’AMP ciclico.
■ La conformazione della superficie di una proteina
ne determina la chimica
Le proteine hanno capacità chimiche impressionanti perché i gruppi chimici
vicini sulla loro superficie spesso interagiscono con modalità che aumentano
la reattività chimica delle catene laterali degli amminoacidi. Queste interazioni rientrano in due categorie principali.
Per prima cosa, parti confinanti della catena polipeptidica possono interagire in un modo che limita l’accesso di molecole d’acqua ai siti di legame
dei ligandi. Ciò è importante perché le molecole d’acqua formano facilmente legami idrogeno che possono competere con i ligandi per siti sulla superficie della proteina. La forza dei legami idrogeno (e delle interazioni elettrostatiche) fra le proteine e i loro ligandi aumenta quindi di molto se la proteina
può escludere le molecole d’acqua dai suoi siti di legame. Potrebbe sembrare
difficile immaginare un meccanismo che possa escludere una molecola piccola
come l’acqua da una superficie proteica senza influenzare l’accesso del ligando
stesso. Tuttavia, a causa della forte tendenza delle molecole d’acqua a formare legami idrogeno acqua-acqua, le molecole d’acqua esistono sotto forma di
una grande rete unita da legami idrogeno (vedi Quadro 2.2, pp. 96-97). In effetti il sito di legame di un ligando può essere mantenuto asciutto, aumentando la reattività di quel sito, perché per singole molecole d’acqua è sfavorevole
dal punto di vista energetico separarsi da questa rete, cosa che dovrebbero fare per introdursi in una fessura sulla superficie di una proteina.
In secondo luogo, il raggruppamento di catene laterali vicine di amminoacidi polari può alterare la loro reattività. Se alcune catene laterali cariche
negativamente vengono forzatamente avvicinate, nonostante la loro reciproca repulsione, a causa dei ripiegamenti della proteina, per esempio, l’affinità
del sito per uno ione carico positivamente aumenta di molto. Inoltre, quando le catene laterali degli amminoacidi interagiscono fra loro tramite legami
idrogeno, gruppi laterali normalmente non reattivi (come il –CH2OH sulla
serina mostrata nella Figura 3.39) possono diventare reattivi e quindi capaci di
formare o rompere legami covalenti selezionati.
La superficie di ciascuna molecola proteica ha perciò una reattività chimica unica che dipende non solo da quali catene laterali di amminoacidi sono esposte, ma anche dal loro esatto orientamento l’una rispetto all’altra. Per
questa ragione anche due conformazioni leggermente diverse della stessa proteina possono differire di molto nella loro chimica.
CAPITOLO
3 Le proteine
141
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H
Asp
O
C
His
O
H
C
N
C
serina reattiva
H
O
Ser
N
H
O
C
CH2
O
H
C
H
C
N
C
riarrangiamento
di legami
idrogeno
■ Il confronto delle sequenze fra membri di una famiglia
proteica evidenzia siti di legame cruciali
Come abbiamo detto in precedenza, grazie alle sequenze del genoma molti
domini proteici possono essere raggruppati in famiglie che mostrano chiari
segni della loro evoluzione da un antenato comune. Le strutture tridimensionali dei membri della stessa famiglia di domini sono notevolmente simili. Per
esempio, anche quando l’identità della sequenza degli amminoacidi scende al
25% gli atomi dell’ossatura in un dominio seguono un ripiegamento proteico comune con una tolleranza di 0,2 nanometri (2 Å).
Possiamo perciò usare un metodo chiamato tracciamento evolutivo per identificare quei siti in un dominio proteico che sono i più cruciali per la funzione
del dominio stesso. Quei siti che legano altre molecole sono quelli mantenuti, con più probabilità, inalterati durante l’evoluzione di un organismo. Quindi, in questo metodo, quegli amminoacidi che non sono cambiati, o quasi, in
tutti i membri noti della famiglia di proteine vengono mappati su un modello
strutturale tridimensionale di un membro della famiglia. Quando ciò avviene
le posizioni più invarianti spesso formano uno o più gruppi sulla superficie
della proteina, come illustrato nella Figura 3.40A per il dominio SH2 descritto
in precedenza (vedi Figura 3.6). Questi raggruppamenti generalmente corrispondono a siti di legame per ligandi.
Il dominio SH2 è un modulo che funziona in interazioni proteina-proteina, legando la proteina che lo contiene a una seconda proteina che contiene
una tirosina fosforilata nel contesto di una sequenza specifica di amminoacidi,
come mostrato nella Figura 3.40B. Gli amminoacidi posti nel sito di legame
N
H
O
CH2
C
H
Figura 3.39 Un amminoacido
insolitamente reattivo nel sito
attivo di un enzima. Questo
esempio è la “triade catalitica” AspHis-Ser presente nella chimotripsina,
nell’elastasi e in altre serina proteasi
(vedi Figura 3.12). La catena laterale
dell’acido aspartico (Asp) induce
l’istidina (His) a rimuovere il protone
di una particolare serina (Ser).
Ciò attiva la serina a formare un
legame covalente con il substrato
dell’enzima, idrolizzando un legame
peptidico. Nella figura sono omesse
le molte convoluzioni della catena
polipeptidica.
ligando polipeptidico
fosfotirosina
(A)
FRONTE
Figura 3.40 Il metodo di tracciamento evolutivo
applicato al dominio SH2. (A) Immagini frontali e posteriori
di un modello a spazio pieno del dominio SH2, con gli
amminoacidi conservati durante l’evoluzione sulla superficie
della proteina colorati in giallo e quelli più verso l’interno della
proteina colorati in rosso. (B) La struttura di uno specifico
RETRO
(B)
FRONTE
dominio SH2 con il suo polipeptide legato. Qui gli amminoacidi
posti entro 0,4 nm dal ligando attaccato sono colorati in azzurro.
I due amminoacidi chiave del ligando sono gialli e gli altri viola.
Si noti l’alto grado di corrispondenza fra (A) e (B). (Adattata da
O. Lichtarge, H.R. Bourne e F.E. Cohen, J. Mol. Biol. 257:342358, 1996. Con il permesso di Elsevier. Codici PDB: 1SPR, 1SPS.)
CAPITOLO
3 Le proteine
142
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per il polipeptide fosforilato sono stati i più lenti a cambiare durante il lungo
processo evolutivo che ha prodotto la grande famiglia SH2 di domini che riconoscono un peptide. Il processo di mutazione è casuale, sopravvivere non
lo è. Quindi la selezione naturale (mutazione casuale seguita da sopravvivenza non casuale) produce la conservazione della sequenza eliminando preferibilmente quegli organismi i cui domini SH2 hanno subito alterazioni tali da
inattivarne il sito di legame, portando alla perdita di funzione del dominio.
Il sequenziamento dei genomi ha portato alla scoperta di molte nuove famiglie di proteine le cui funzioni sono sconosciute. Una volta determinata la
struttura tridimensionale di un membro della famiglia di proteine, il metodo
di tracciamento evolutivo permette ai biologi di determinare i siti di legame
dei membri della famiglia, fornendo un utile indizio per scoprire la funzione della proteina.
■ Le proteine si legano ad altre proteine tramite diversi tipi
di interfaccia
stringa
superficie
Le proteine si possono legare ad altre proteine in molteplici modi. In molti casi una porzione della superficie di una proteina entra in contatto con un’ansa
estesa di catena polipeptidica (una “stringa”) di una seconda proteina (Figura
3.41A). Questa interazione superficie-stringa, per esempio, permette al dominio SH2 di riconoscere un’ansa polipeptidica fosforilata su una seconda proteina, come abbiamo appena descritto, e rende anche capace una proteina chinasi di riconoscere le proteine che fosforilerà (vedi oltre).
Un secondo tipo di interfaccia proteina-proteina si forma quando due
a eliche, una di ciascuna proteina, si accoppiano per formare un coiled coil
(Figura 3.41B). Questo tipo di interfaccia proteica si trova in parecchie famiglie di proteine regolatrici di geni, come vedremo nel Capitolo 7.
Il tipo più comune di interazione fra proteine avviene però tramite preciso adattamento di una superficie rigida a un’altra (Figura 3.41C). Queste interazioni possono essere molto forti, poiché si può formare un numero elevato di legami deboli fra due superfici che si adattano bene. Per la stessa ragione
queste interazioni superficie-superficie possono essere estremamente specifiche, rendendo una proteina capace di selezionare un unico partner fra le molte migliaia di proteine diverse che si trovano in una cellula.
■ I siti di legame degli anticorpi sono particolarmente versatili
(A) SUPERFICIE-STRINGA
elica 2
(B)
elica 1
ELICA-ELICA
Tutte le proteine devono legarsi a ligandi particolari per svolgere le loro varie
funzioni. Questa capacità di legame forte e selettivo è considerevole nella famiglia degli anticorpi (come vedremo in dettaglio nel Capitolo 24).
Gli anticorpi, o immunoglobuline, sono proteine prodotte dal sistema immunitario in risposta a molecole estranee, come quelle sulla superficie di un
microrganismo invasore. Ciascun anticorpo si lega a una molecola bersaglio
particolare con estrema forza, inattivando così direttamente il suo bersaglio o
marcandolo per la distruzione. Un anticorpo riconosce il suo bersaglio (chiamato antigene) con notevole specificità. Poiché vi sono potenzialmente miliardi di antigeni diversi che potremmo incontrare, dobbiamo essere capaci di
produrre miliardi di anticorpi diversi.
Gli anticorpi sono molecole a forma di Y con due siti di legame identici che sono complementari a una piccola porzione della superficie della molecola antigenica. Un esame dettagliato dei siti di legame per l’antigene degli
anticorpi rivela che essi sono formati da diverse anse di catena polipeptidica
superficie 1
superficie 2
Figura 3.41 Tre modi in cui due proteine possono legarsi fra loro.
(C) SUPERFICIE-SUPERFICIE
Sono mostrate soltanto le parti interagenti delle due proteine. (A) Una superficie
rigida su una proteina può legarsi a un’ansa estesa di catena polipeptidica (una
“stringa”) su una seconda proteina. (B) Due a eliche possono legarsi insieme formando
un coiled coil. (C) Due superfici rigide complementari spesso uniscono due proteine.
Le interazioni di legame possono anche coinvolgere l’appaiamento di filamenti b
(vedi per esempio Figura 3.18).
CAPITOLO
3 Le proteine
143
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catena pesante
VH
VH
anse ipervariabili
NH2
S
S
S
S
CH1 CH1
S
S
S
S
S
S
VL
S
S
S
S
S
S S
S S
S
S
S
S
S
VL
CL
CL
CH2
S
S
S
S
CH2
CH3
S
S
S
S
dominio variabile
della catena leggera (VL)
legame disolfuro
CH3
(A)
dominio costante
della catena leggera (CL)
COOH
(B)
che sporgono dalle estremità di una coppia di domini proteici strettamente
giustapposti (Figura 3.42). L’enorme diversità dei siti di legame per l’antigene
che caratterizza anticorpi diversi è generata cambiando soltanto la lunghezza e la sequenza degli amminoacidi di queste anse, senza alterare la struttura
di base della proteina.
Anse di questo tipo sono ideali per afferrare altre molecole. Esse permettono a numerosi gruppi chimici di circondare un ligando in modo che la proteina possa legarlo con molti legami deboli. Per questa ragione spesso è tramite anse che si formano i siti di legame nelle proteine.
■ La forza di legame è misurata dalla costante di equilibrio
Le molecole nelle cellule si incontrano molto frequentemente a causa dei loro continui movimenti termici casuali. Quando le molecole che si scontrano
hanno superfici che si adattano poco fra loro, si formano pochi legami non
covalenti e le due molecole si dissociano con la stessa rapidità con cui si sono
unite. All’altro estremo, quando si formano molti legami non covalenti, l’associazione può persistere per un tempo molto lungo (Figura 3.43). Forti interazioni si verificano nelle cellule tutte le volte che una funzione biologica richiede che le molecole restino associate per un lungo periodo (per esempio,
quando un gruppo di molecole di RNA e un gruppo di proteine si uniscono
per formare una struttura subcellulare come un ribosoma).
La forza con cui due molecole qualsiasi si legano fra loro può essere misurata. Come esempio, consideriamo una popolazione di molecole anticorpali identiche che incontra una popolazione di ligandi che diffondono nel
fluido che li circonda. A intervalli frequenti una delle molecole di ligando si
scontrerà con il sito di legame di un anticorpo e formerà un complesso anticorpo-ligando. La popolazione di complessi anticorpo-ligando perciò aumenterà, ma non senza un limite: con il passare del tempo un secondo processo, in cui i singoli complessi si rompono a causa di movimenti termici
indotti, diventerà sempre più importante. Alla fine qualunque popolazione
di molecole di anticorpi e di ligandi raggiungerà uno stato stabile, o equilibrio, in cui il numero di eventi di legame (associazione) al secondo è precisamente uguale al numero di eventi “di rottura” del legame (dissociazione) (vedi Figura 2.30).
Figura 3.42 Una molecola
anticorpale. Una tipica molecola
anticorpale ha la forma di una Y e
ha due identici siti di legame per
l’antigene, uno su ciascun braccio
della Y. Come vedremo nel Capitolo
24, la proteina è composta da quattro
catene polipeptidiche (due catene
pesanti identiche e due catene
leggere identiche più piccole) tenute
insieme da legami disolfuro. Ciascuna
catena è composta da parecchi
domini immunoglobulinici diversi, qui
ombreggiati in azzurro o in grigio. Il
sito di legame per l’antigene si forma
dove un dominio variabile di una
catena pesante (VH) e un dominio
variabile di una catena leggera (VL) si
avvicinano. Questi sono i domini che
differiscono di più per sequenza e
struttura in anticorpi diversi. Ciascun
dominio all’estremità dei due bracci
della molecola anticorpale forma anse
che si legano all’antigene (vedi Filmato
24.5).
CAPITOLO
3 Le proteine
144
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B
B
A
le superfici delle molecole A e B,
nonché di A e C, non si adattano
bene e sono capaci di formare solo
pochi legami deboli; il movimento
termico le separa rapidamente
A
A
C
A
A
C
la molecola A
incontra casualmente
altre molecole (B, C e D)
le superfici delle molecole A e D
si adattano bene e perciò possono
formare abbastanza legami deboli
da sopportare lo scuotimento
termico; esse perciò restano
attaccate l’una all’altra
D
A
A
D
Figura 3.43 Il modo in cui i
legami non covalenti mediano le
interazioni fra macromolecole
(vedi Filmato 2.1).
1
Dalle concentrazioni all’equilibrio del ligando, dell’anticorpo e del complesso anticorpo-ligando si può calcolare una misura utile – la costante di
equilibrio (K) – della forza di legame (Figura 3.44A). Questa costante è stata
descritta in dettaglio nel Capitolo 2, dove è stata ottenuta la sua relazione con
le differenze di energia libera (vedi p. 63). La costante di equilibrio per una
reazione in cui due molecole (A e B) si legano fra loro per formare un complesso (AB) ha unità di litri/mole e metà dei siti di legame sarà occupata dal
ligando quando la concentrazione del ligando (in moli/litro) raggiunge un
valore uguale a 1/K. Questa costante di equilibrio è maggiore se è maggiore la forza di legame ed è una misura diretta della differenza di energia libera
fra gli stati legati e liberi (Figura 3.44B). Anche un cambiamento di pochi legami non covalenti può avere un effetto notevole su un’interazione di lega-
dissociazione
La relazione fra differenze in
energia libera standard (ΔG°)
e costanti di equilibrio (37 oC)
A + B
costante
velocità di
concentrazione
5 di velocità
3
dissociazione
di AB
di dissociazione
velocità di dissociazione = koff [AB]
A
B
2
A
+
B
velocità di
5
associazione
costante di
equilibrio
associazione
A B
costante
concentrazione
concentrazione
di velocità
3
3
di A
di B
di associazione
[AB]
[A][B]
(litri/mole)
velocità di associazione = kon [A] [B]
3
ALL’EQUILIBRIO:
velocità di associazione = velocità di dissociazione
kon [A] [B] = koff [AB]
[AB]
[A][B]
=
kon
koff
= K = costante di equilibrio
(A)
Figura 3.44 Relazione fra differenze di energia
libera standard (G°) e la costante di equilibrio (K).
(A) L’equilibrio fra le molecole A e B e il complesso AB è
mantenuto da un bilanciamento fra le due reazioni opposte
mostrate nei riquadri 1 e 2. Le molecole A e B devono collidere
se devono reagire e la velocità di associazione è perciò
proporzionale al prodotto delle singole concentrazioni [A] 3 [B].
(Le parentesi quadre indicano concentrazione.) Come mostrato
nel riquadro 3, il rapporto fra le costanti di velocità per le
reazioni di associazione e di dissociazione è uguale alla costante
=K
(B)
1
10
102
103
104
105
106
107
108
109
1010
differenza in
energia libera
standard
di AB meno
energia libera
di A + B
(kJ/mole)
0
–5,9
–11,9
–17,8
–23,7
–29,7
–35,6
–41,5
–47,4
–53,4
–59,4
di equilibrio (K) della reazione (vedi anche p. 64).
(B) La costante di equilibrio nel riquadro 3 è quella della
reazione di associazione A + B mn AB; maggiore è il suo
valore e più forte è il legame fra A e B. Si noti che ogni
5,91 kJ/mole di diminuzione di energia libera la costante di
equilibrio aumenta di un fattore 10 a 37 °C. La costante di
equilibrio qui ha unità di litro/mole; per semplici interazioni
di legame è chiamata anche costante di affinità o costante
di associazione, indicata con Ka. Il reciproco di Ka è chiamato
costante di dissociazione, Kd (in unità di moli/litro).
CAPITOLO
3 Le proteine
145
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me, come dimostrato nell’esempio della Figura 3.45. (Si noti che la costante di
equilibrio, come viene definita qui, è indicata anche come costante di associazione o di affinità, Ka.)
Abbiamo usato il caso di un anticorpo che si lega al suo ligando per illustrare l’effetto della forza di legame sullo stato di equilibrio, ma gli stessi principi si applicano a qualunque molecola e al suo ligando. Molte proteine sono
enzimi che, come vedremo adesso, prima si legano al loro ligando e quindi
catalizzano la rottura o la formazione di legami covalenti in queste molecole.
Consideriamo 1000 molecole di A
e 1000 molecole di B in una cellula
eucariotica. La concentrazione di
entrambe sarà circa 10–9 M.
Se la costante di equilibrio (K) per
A + B 34 AB è 1010, allora all’equilibrio
ci saranno
■ Gli enzimi sono catalizzatori potenti e altamente specifici
Molte proteine possono svolgere la loro funzione semplicemente legandosi
a un’altra molecola. Una molecola di actina, per esempio, deve soltanto associarsi ad altre molecole di actina per formare un filamento. Esistono però altre proteine per le quali legare il ligando è soltanto un primo passo necessario per la loro funzione. Questo è il caso della grande e importantissima classe
di proteine chiamate enzimi. Come abbiamo visto nel Capitolo 2, gli enzimi sono molecole notevoli che determinano tutte le trasformazioni chimiche
che formano e rompono legami covalenti nelle cellule. Essi si legano a uno o
più ligandi, chiamati substrati, e li convertono in uno o più prodotti modificati chimicamente; ciò avviene in continuazione con stupefacente rapidità. Gli
enzimi accelerano le reazioni, spesso di un fattore di un milione o più, senza subire alcun cambiamento, cioè agiscono da catalizzatori che permettono alle cellule di formare o rompere legami covalenti in modo controllato. È
la catalisi di serie organizzate di reazioni chimiche da parte degli enzimi che
crea e mantiene la cellula, rendendo possibile la vita.
Gli enzimi possono essere raggruppati in classi funzionali che svolgono
reazioni chimiche simili (Tabella 3.1). Ciascun tipo di enzima all’interno di
una classe è altamente specifico e catalizza soltanto un tipo di reazione. Così
l’esochinasi aggiunge un gruppo fosfato a d-glucosio ma ignora il suo isomero ottico l-glucosio; l’enzima della coagulazione del sangue trombina taglia un
tipo di proteina del sangue fra una particolare arginina e la glicina adiacente
270
270
730
molecole
di A
molecole
di B
molecole
di AB
Se la costante di equilibrio è un po’
più debole a 108, che rappresenta una
perdita di 11,9 kilojoule/mole di
energia di legame rispetto all’esempio
precedente, o 2-3 legami idrogeno in
meno, allora ci saranno
915
915
85
molecole
di A
molecole
di B
molecole
di AB
Figura 3.45 Piccoli cambiamenti
nel numero di legami deboli
possono avere effetti drastici su
un’interazione di legame. Questo
esempio illustra l’effetto drastico
della presenza o dell’assenza di pochi
legami deboli non covalenti in un
contesto biologico.
TABELLA 3.1 Alcuni tipi comuni di enzimi
Enzimi
Reazione catalizzata
Idrolasi
Termine generale per enzimi che catalizzano una reazione di taglio idrolitico; nucleasi e proteasi sono nomi
più specifici per sottoclassi di questi enzimi
Nucleasi
Demoliscono acidi nucleici idrolizzando legami fra nucleotidi. Le endo- e le esonucleasi tagliano gli acidi
nucleici rispettivamente all’interno e a partire dalle estremità delle catene polinucleotidiche
Proteasi
Demoliscono proteine idrolizzando legami fra amminoacidi
Sintasi
Sintetizzano molecole in reazioni anaboliche condensando insieme due molecole più piccole
Ligasi
Mettono insieme (legano) due molecole in un processo dipendente da energia. La DNA ligasi, per esempio,
unisce le estremità di due molecole di DNA mediante legami fosfodiesterici
Isomerasi
Catalizzano il riarrangiamento di legami all’interno di una singola molecola
Polimerasi
Catalizzano reazioni di polimerizzazione come la sintesi di RNA e di DNA
Chinasi
Catalizzano l’aggiunta di gruppi fosfato a molecole. Le proteina chinasi sono un gruppo importante di
chinasi che attaccano gruppi fosfato alle proteine
Fosfatasi
Catalizzano la rimozione idrolitica di un gruppo fosfato da una molecola
Ossido-reduttasi
Nome generale per enzimi che catalizzano reazioni in cui una molecola è ossidata, mentre l’altra è ridotta.
Gli enzimi di questo tipo spesso sono chiamati più specificamente ossidasi, reduttasi o deidrogenasi
ATPasi
Idrolizzano ATP. Molte proteine con una vasta gamma di ruoli hanno un’attività ATPasica che imbriglia
energia come parte della loro funzione, per esempio motori proteici come miosina e proteine di trasporto
di membrana come la pompa sodio-potassio
GTPasi
Idrolizzano GTP. Una grande famiglia di proteine che legano GTP è, ad esempio, quella delle GTPasi che
svolgono un ruolo centrale nella regolazione dei processi cellulari
I nomi degli enzimi di norma terminano in “-asi”, con l’eccezione di alcuni enzimi, come pepsina, tripsina, trombina e lisozima, che erano stati scoperti e
definiti prima che la convenzione divenisse accettata a livello generale alla fine del XIX secolo. Il nome comune di un enzima di solito indica il substrato e
la natura della reazione catalizzata. Per esempio, la citrato sintasi catalizza la sintesi di citrato in una reazione fra acetil CoA e ossalacetato.
CAPITOLO
3 Le proteine
146
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e in nessun altro punto, e così via. Come abbiamo osservato in dettaglio nel
Capitolo 2, gli enzimi lavorano in squadra e il prodotto di un enzima diventa
il substrato del successivo. Il risultato è una rete elaborata di vie metaboliche
che fornisce alla cellula energia e genera le molte molecole grandi e piccole
di cui la cellula ha bisogno (vedi Figura 2.63).
■ Il legame del substrato è il primo passaggio della catalisi
enzimatica
Per una proteina che catalizza una reazione chimica (un enzima) l’attacco di ciascuna molecola di substrato alla proteina è un preliminare essenziale. Nel caso
più semplice, se noi indichiamo l’enzima con E, il substrato con S e il prodotto con P, il percorso della reazione base è E + S n ES n EP n E + P. C’è un
limite alla quantità di substrato che una singola molecola enzimatica può processare in un dato tempo. Se la concentrazione del substrato viene aumentata,
la velocità a cui si forma il prodotto aumenta a sua volta, fino a un valore massimo (Figura 3.46). A quel punto la molecola dell’enzima è saturata di substrato e
la velocità di reazione (Vmax) dipende soltanto da quanto rapidamente l’enzima
può processare la molecola di substrato. Questa velocità massima divisa per la
concentrazione dell’enzima è chiamata numero di turnover. Il numero di turnover
è spesso di circa 1000 molecole di substrato processate per secondo per molecola di enzima, anche se sono noti numeri di turnover compresi fra 1 e 10 000.
L’altro parametro cinetico frequentemente usato per caratterizzare un enzima è la sua Km, la concentrazione di substrato che permette alla reazione di
procedere a metà della velocità massima (0,5 Vmax) (vedi Figura 3.46). Un basso
valore di Km significa che l’enzima raggiunge la sua massima velocità catalitica a una bassa concentrazione di substrato e generalmente indica che l’enzima
lega il substrato con molta forza, mentre un alto valore di Km corrisponde a
un legame debole. I metodi usati per caratterizzare gli enzimi in questo modo sono spiegati nel Quadro 3.2 (pp. 148-149).
■ Gli enzimi accelerano le reazioni stabilizzando
selettivamente gli stati di transizione
Vmax
velocità di reazione
Figura 3.46 Cinetica enzimatica.
La velocità di una reazione enzimatica
(V) aumenta con la concentrazione del
substrato fino a un valore massimo
(Vmax). A questo punto tutti i siti per il
substrato sulle molecole enzimatiche
sono completamente occupati e la
velocità della reazione è limitata dalla
velocità del processo catalitico sulla
superficie dell’enzima. Per la maggior
parte degli enzimi la concentrazione
del substrato (Km) alla quale la velocità
di reazione è metà di quella massima è
una misura della forza con cui è legato
il substrato, con un elevato valore
di Km corrispondente a un legame
debole.
Gli enzimi raggiungono velocità estremamente alte di reazioni chimiche, molto più alte di qualunque catalizzatore sintetico. Questa efficienza è attribuibile a parecchi fattori. Per prima cosa, l’enzima fa aumentare la concentrazione
locale di molecole di substrato a livello del sito catalitico e mantiene tutti gli
atomi appropriati nel corretto orientamento per la reazione che deve seguire.
Cosa più importante, però, una parte dell’energia di legame contribuisce direttamente alla catalisi. Le molecole di substrato devono passare attraverso una
serie di stati intermedi con una geometria e una distribuzione elettronica alterate prima di formare i prodotti finali della reazione. L’energia libera richiesta per raggiungere lo stato di transizione più instabile è detta energia di attivazione della reazione ed è il fattore determinante principale della velocità di
reazione. Gli enzimi hanno un’affinità molto più alta per lo stato di transizione del substrato che per la forma stabile. Poiché questo forte legame abbassa
di molto le energie dello stato di transizione, l’enzima accelera di molto una
particolare reazione abbassando l’energia di attivazione richiesta (Figura 3.47).
0,5Vmax
Km
concentrazione del substrato
CAPITOLO
3 Le proteine
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Figura 3.47 Accelerazione enzimatica di reazioni chimiche per diminuzione
dell’energia di attivazione. In questo esempio c’è un unico stato di transizione.
Tuttavia, spesso sia la reazione non catalizzata (A) che la reazione catalizzata dall’enzima
(B) possono passare attraverso una serie di stati di transizione. In quel caso è lo stato di
transizione con l’energia più alta (ST ed EST) che determina l’energia di attivazione e limita
la velocità della reazione. (S = substrato; P = prodotto della reazione; ES = complesso
enzima-substrato; EP = complesso enzima-prodotto.)
energia di attivazione
della reazione non catalizzata
ST
A
energia
EST
■ Gli enzimi possono usare simultaneamente catalisi acida
S
B
ES
e basica
P
EP
progresso
della reazione
energia di attivazione
della reazione catalizzata
La Figura 3.48 mette a confronto per cinque enzimi le velocità delle reazioni
spontanee e le corrispondenti velocità catalizzate da enzimi. Si osservano accelerazioni della velocità di 109-1023 volte. Gli enzimi non solo si legano con
forza a uno stato di transizione, ma contengono anche atomi posizionati precisamente che alterano le distribuzioni elettroniche in quegli atomi che partecipano direttamente alla formazione e alla rottura di legami covalenti. I legami peptidici, per esempio, possono essere idrolizzati in assenza di un enzima esponendo un polipeptide a un acido o a una base forte. Gli enzimi sono
unici, tuttavia, per la loro capacità di usare catalisi acida e basica simultaneamente, in quanto i residui acidi e basici richiesti non si possono combinare
fra loro (come farebbero in soluzione) perché sono legati alla struttura rigida
della proteina stessa (Figura 3.49).
metà tempo della reazione
6
10 anni
1 anno
1
msec
1 min
1
µsec
OMP decarbossilasi
nucleasi stafilococcica
adenosina deaminasi
triosofosfato
isomerasi
anidrasi
carbonica
NON CATALIZZATA
CATALIZZATA
Figura 3.48 L’accelerazione della velocità causata da cinque enzimi diversi.
(Adattata da A. Radzicka e R. Wolfenden, Science 267:90-93, 1995.)
+
N
H
O
O
LENTA
C
N
H
H
O
VELOCE
O
N
H
H
H
MOLTO
VELOCE
VELOCE
C
H
C
H
O
C
H
C
H
N
H
H
H
C
H
C
H
O
N
H
O
(B)
catalisi acida
Figura 3.49 Catalisi acida e catalisi basica. (A) La partenza
della reazione non catalizzata che idrolizza un legame peptidico;
in azzurro la distribuzione degli elettroni nell’acqua e nei legami
carbonilici. (B) Un acido è solito donare un protone (H+) ad altri
atomi. Accoppiandosi con l’ossigeno del carbonile, un acido fa
allontanare elettroni dal carbonio carbonilico, rendendo questo
atomo molto più capace di attrarre l’ossigeno elettronegativo
(C)
catalisi basica
H
O
C
H
C
H
O
H
H
O
(A) senza catalisi
+
N
H
O
O
C
(D)
catalisi sia acida
che basica
di una molecola d’acqua che attacca. (C) Una base tende ad
assumere H+. Accoppiandosi con un idrogeno della molecola
d’acqua che attacca, una base fa spostare elettroni verso
l’ossigeno dell’acqua, rendendolo un gruppo attaccante
più favorevole per il carbonio carbonilico. (D) Avendo atomi
posizionati in modo appropriato sulla sua superficie, un enzima
può svolgere catalisi acida e basica contemporaneamente.
CAPITOLO
3 Le proteine
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QUADRO 3.2
Alcuni dei metodi usati per studiare gli enzimi
PERCHÉ ANALIZZARE LA CINETICA DEGLI ENZIMI?
Gli enzimi sono i catalizzatori noti più selettivi e potenti.
Una comprensione dei loro meccanismi dettagliati fornisce
uno strumento critico per la scoperta di nuovi farmaci, per
la sintesi industriale su larga scala di composti chimici utili
e per apprezzare la chimica di cellule e organismi. Uno
studio dettagliato della velocità delle reazioni chimiche che
sono catalizzate da un enzima purificato – più
specificamente il modo in cui queste velocità cambiano con
variazioni di condizioni come le concentrazioni dei
substrati, dei prodotti, degli inibitori e dei ligandi regolatori
– permette ai biochimici di comprendere esattamente il
modo in cui funziona ciascun enzima. Per esempio, questo
è il modo in cui sono state decifrate le reazioni della
glicolisi che producono ATP, mostrate in precedenza nella
Figura 2.48, permettendoci di apprezzare la logica di
questa via enzimatica cruciale.
In questo quadro introduciamo l’importante campo della
cinetica enzimatica, che è stato indispensabile per
acquisire molte delle conoscenze dettagliate che abbiamo
oggi della chimica cellulare.
CINETICA ENZIMATICA ALL’EQUILIBRIO
Molti enzimi hanno soltanto un substrato, che legano
e quindi processano per creare prodotti secondo lo schema
raffigurato nella Figura 3.50A. In questo caso la reazione
è scritta come
k1
E+S
ES
kcat
E+P
k –1
Qui abbiamo considerato che la reazione inversa, in cui E + P
si ricombinano per formare EP e quindi ES, avvenga così
raramente da poterla ignorare. In questo caso si può omettere
di rappresentare EP e possiamo esprimere la velocità della
reazione, V, come
V = kcat [ES]
in cui [ES] è la concentrazione del complesso enzima-substrato
e kcat è il numero di turnover: una costante di velocità che è
uguale al numero di molecole di substrato processate per
molecole di enzima ogni secondo.
Ma in che modo il valore di [ES] è correlato alle concentrazioni
che conosciamo direttamente, che sono la concentrazione
totale dell’enzima [Eo] e la concentrazione del substrato [S]?
Quando si mescolano all’inizio enzima e substrato, la
concentrazione [ES] aumenterà rapidamente da zero a un
cosiddetto valore all’equilibrio, come illustrato sotto.
A questo stato [ES] è quasi costante, così che
velocità
di demolizione di ES
k–1 [ES] + kcat [ES]
velocità
di formazione di ES
k1 [E][S]
=
o, poiché la concentrazione dell’enzima libero, [E], è uguale
a [Eo] – [ES]
k1
[ES] =
k1
[E][S] =
k–1 + kcat
k–1 + kcat
[Eo] – [ES] [S]
Riordinando, e definendo la costante Km come
k–1 + kcat
k1
otteniamo
[ES] =
[Eo][S]
Km + [S]
o, ricordando che V = kcat [ES], otteniamo la famosa equazione
di Michaelis-Menten
concentrazioni
[S]
V =
[P]
kcat [Eo][S]
Km + [S]
[Eo]
[ES]
Poiché [S] aumenta a livelli sempre più alti, essenzialmente tutto
l’enzima sarà legato al substrato all’equilibrio; a questo punto
verrà raggiunta una velocità massima di reazione, Vmax, a cui
V = Vmax = kcat [Eo]. Così è utile riscrivere l’equazione di
Michaelis-Menten come
[E]
0
stato pre-equilibrio:
si sta formando ES
tempo
equilibrio: ES
quasi costante
V =
Vmax [S]
Km + [S]
CAPITOLO
3 Le proteine
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IL GRAFICO DEI DOPPI RECIPROCI
IL SIGNIFICATO DI Km, kcat e kcat /Km
Sotto è rappresentato un tipico grafico di V contro [S] per un
enzima che segue la cinetica di Michaelis-Menten. Da questo
grafico non è immediatamente chiaro né il valore di Vmax né
quello di Km.
Come spiegato nel testo, Km è una misura approssimativa
dell’affinità di un enzima per il substrato: è numericamente
uguale alla concentrazione di [S] a V = 0,5 Vmax. In generale
un valore più basso di Km significa un legame più forte del
substrato. In effetti, in quei casi in cui kcat è molto più
piccola di k–1, Km sarà uguale a Kd, la costante di
dissociazione per il legame del substrato all’enzima
(Kd = 1/Ka; vedi Figura 3.44).
Abbiamo visto che kcat è il numero di turnover dell’enzima.
A concentrazioni molto basse di substrato, in cui [S] << Km,
la maggior parte dell’enzima è libero. Così possiamo pensare
che [E] = [Eo], così che l’equazione di Michaelis-Menten
diventa V = kcat/Km[E][S]. Quindi il rapporto kcat/Km è
equivalente alla costante di velocità per la reazione fra
enzima libero e substrato libero.
V = velocità all’equilibrio di formazione
del prodotto (µmoli/secondo)
[S] =
1
2
3
4
5
6
7
8
80
60
Un confronto di kcat/Km per lo stesso enzima con substrati
diversi, o per due enzimi con i loro diversi substrati, è molto
usato come misura dell’efficienza degli enzimi.
40
20
0
0
4
2
[S]
6
8
mmoli/litro
Per ottenere Vmax e Km da questi dati si usa spesso un grafico
dei doppi reciproci, in cui l’equazione di Michelis-Menten è
stata semplicemente riordinata, in modo che 1/V può essere
messo in grafico in relazione a 1/[S].
1/V
Km
=
1
[S]
Vmax
Per semplicità in questo quadro abbiamo esaminato enzimi
che hanno soltanto un substrato, come il lisozima descritto
nel testo (vedi p. 150). La maggior parte degli enzimi ha due
substrati, uno dei quali è spesso una molecola trasportatrice
attiva, come NADH o ATP.
Un’analisi simile, ma più complessa, viene usata per
determinare la cinetica di questi enzimi, permettendo di
rivelare l’ordine di attacco del substrato e la presenza di
intermedi covalenti lungo la via.
+ 1/ Vmax
ALCUNI ENZIMI SONO LIMITATI
DALLA DIFFUSIONE
[S] =
8
6
4
3
2
1
I valori di kcat, Km e kcat /Km per alcuni enzimi scelti sono
riportati sotto:
enzima
substrato
kcat
(sec–1)
Km
(M)
kcat/Km
(sec–1M–1)
acetilcolinesterasi
acetilcolina
1,43104
9310–5
1,63108
1
43107
5310–6
1,63108
1/V (secondo/µmoli)
0,04
– 0,5
–
1
[S]
– 0,25
=
1
Km
catalasi
0,03
fumarasi
0,02
1
0,01
Vmax
0
0,25
1
[S]
0,5
0,75
litri/mmoli
1,0
H2O2
fumarato
7
4310
83102
Poiché un enzima e il suo substrato devono collidere prima di
poter reagire, kcat /Km ha un valore massimo possibile che è
limitato dalla frequenza di collisione. Se ogni collisione forma
un complesso enzima-substrato, si può calcolare dalla teoria
della diffusione che kcat /Km sarà fra 108 e 109 sec–1M–1, nel
caso in cui tutti i passaggi successivi procedano
immediatamente. Perciò si dice che enzimi come
acetilcolinesterasi e fumarasi sono “enzimi perfetti”, in quanto
ciascun enzima si è evoluto al punto che quasi ogni collisione
con il suo substrato converte il substrato in prodotto.
CAPITOLO
3 Le proteine
150
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La corrispondenza fra un enzima e il suo substrato deve essere precisa. Un
piccolo cambiamento introdotto mediante ingegneria genetica nel sito attivo di un enzima può avere un effetto profondo. La sostituzione di un acido
glutammico con un acido aspartico in un enzima, per esempio, sposta la posizione dello ione carbossilato catalitico soltanto di un Å (circa il raggio di un
atomo di idrogeno); eppure ciò è sufficiente a diminuire l’attività dell’enzima di mille volte.
■ Il lisozima illustra il modo in cui funziona un enzima
Figura 3.50 La reazione
catalizzata dal lisozima.
(A) L’enzima lisozima (indicato con
E) catalizza il taglio di una catena
polisaccaridica, che è il suo substrato
(S). L’enzima prima si lega alla catena
per formare un complesso enzimasubstrato (ES), quindi catalizza il taglio
di un legame covalente specifico
nell’ossatura del polisaccaride,
dando origine a un complesso
enzima-prodotto (EP) che si dissocia
rapidamente. Il rilascio della catena
tagliata (i prodotti P) lascia l’enzima
libero di agire su un’altra molecola
di substrato. (B) Un modello a spazio
pieno della molecola del lisozima
legata a un breve tratto di catena
polisaccaridica prima del taglio
(Filmato 3.8 ). (B, per gentile
concessione di Richard J. Feldmann.
Codice PDB: 3AB6.)
Per dimostrare il modo in cui gli enzimi catalizzano reazioni chimiche esaminiamo un enzima che agisce da antibiotico naturale nel bianco d’uovo, nella
saliva, nelle lacrime e in altre secrezioni. Il lisozima è un enzima che catalizza il taglio di catene polisaccaridiche nelle pareti cellulari dei batteri. Poiché
la cellula batterica è sotto pressione per forze osmotiche, il taglio anche di un
ridotto numero di catene polisaccaridiche provoca la rottura della parete cellulare e lo scoppio della cellula. Il lisozima è una proteina relativamente piccola e stabile che può essere facilmente isolata in grandi quantità: per queste
ragioni è stato il primo enzima di cui la cristallografia ai raggi X ha rivelato i
dettagli della struttura atomica (circa a metà degli anni ’60).
La reazione catalizzata dal lisozima è un’idrolisi: una molecola d’acqua viene aggiunta a un legame singolo fra due gruppi di zuccheri adiacenti nella catena polisaccaridica, causando così la rottura del legame (vedi Figura 2.9). La
reazione è energeticamente favorevole perché l’energia libera della catena polisaccaridica spezzata è minore dell’energia libera della catena intatta.Tuttavia,
c’è una barriera energetica alla reazione e una molecola d’acqua che entra in
collisione può rompere un legame che lega due zuccheri soltanto se la molecola di polisaccaride è distorta in una forma particolare – lo stato di transizione –
in cui gli atomi intorno al legame hanno una geometria e una distribuzione
di elettroni alterate. A causa di questa distorsione le collisioni casuali devono
fornire una grande quantità di energia di attivazione perché la reazione possa
avvenire. In una soluzione acquosa a temperatura ambiente l’energia delle collisioni non supera quasi mai l’energia di attivazione. Quindi il polisaccaride puro può rimanere anni in acqua senza essere idrolizzato in quantità apprezzabili.
Questa situazione cambia drasticamente quando il polisaccaride si lega al
lisozima. Il sito attivo del lisozima, poiché il suo substrato è un polimero, è una
lunga scanalatura che tiene sei zuccheri uniti fra loro contemporaneamente.
Non appena il polisaccaride si lega formando un complesso enzima-substrato, l’enzima taglia il polisaccaride aggiungendo una molecola d’acqua a uno
dei suoi legami zucchero-zucchero. Le catene prodotte sono quindi rilasciate
rapidamente, liberando l’enzima per ulteriori cicli di reazione (Figura 3.50).
È possibile un impressionante aumento della velocità di idrolisi perché
vengono create condizioni nel microambiente del sito attivo del lisozima che
riducono molto l’energia di attivazione necessaria affinché avvenga l’idrolisi.
In particolare, il lisozima distorce uno dei due zuccheri uniti dal legame che
deve essere rotto rispetto alla sua conformazione normale, più stabile. Inoltre
il legame che deve essere rotto è mantenuto vicino a due amminoacidi con
catena laterale acida (un acido glutammico e un acido aspartico) che parteci-
(B)
(A)
+
+
S
+
E
ES
EP
E+P
CAPITOLO
3 Le proteine
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SUBSTRATO
PRODOTTI
Questo substrato è un oligosaccaride di sei zuccheri, marcati A-F.
Sono mostrati in dettaglio soltanto gli zuccheri D ed E.
R
A B C
O
D
R
CH2OH
E
O
O
CH2OH
ES
I prodotti finali sono un oligosaccaride di quattro zuccheri (sinistra)
e un disaccaride (destra), prodotti per idrolisi.
O
O
R
A B C
F
C
D
catena laterale
sullo zucchero E
C
Glu35
O
O
D
H
H
C
F
C
EP
O
O
O
O
D
H
O
O
carbonio C1
CH2OH
O
HOCH2
EO
O
O
D
C
R
R
H H
O
O
Nel complesso enzima-substrato (ES) l’enzima forza
lo zucchero D in una conformazione allungata, con
la Glu 35 posizionata per servire da acido che
attacca il legame adiacente zucchero-zucchero
donando un protone (H+) allo zucchero E e la Asp 52
pronta ad attaccare l’atomo di carbonio C1.
Asp52
L’Asp 52 ha formato un legame covalente fra
l’enzima e l’atomo di carbonio C1 dello zucchero D.
La Glu 35 polarizza quindi una molecola d’acqua
(rosso), in modo che il suo ossigeno possa
attaccare prontamente l’atomo di carbonio C1 e
spostare Asp 52.
Figura 3.51 Gli eventi in corrispondenza del sito attivo
del lisozima. I disegni in alto a sinistra e in alto a destra
rappresentano rispettivamente il substrato libero e i prodotti
liberi, mentre gli altri tre disegni rappresentano gli eventi
sequenziali in corrispondenza del sito attivo dell’enzima. Si
noti il cambiamento nella conformazione dello zucchero D nel
complesso enzima-substrato; questo cambiamento di forma
O
O
O
C
Asp52
E
R
H
C
C
O O
CH2OH
C
R
R
O
O
O
O
C
O
O
HOCH2
EO
O
C
O
H
CH2OH
R
E
R
H
HOCH2
O
CH2OH
Glu35
C
O
O
C
O
H
H
CH2OH
Glu35
O
O
H
O
C
Asp52
C
La reazione di una molecola d’acqua (rosso)
completa l’idrolisi e riporta l’enzima al suo stato
originale, formando il complesso enzima-prodotto
(EP).
stabilizza gli stati di transizione simili a uno ione ossocarbenio
necessari per la formazione e l’idrolisi dell’intermedio covalente
mostrato nel riquadro centrale. È anche possibile che uno
ione carbonio intermedio si formi nel passaggio 2, in quanto
l’intermedio covalente mostrato nel riquadro centrale è stato
rilevato soltanto con un substrato sintetico (Filmato 3.9 ).
(Vedi D.J. Vocadlo et al., Nature 412:835-838, 2001.)
pano direttamente alla reazione. La Figura 3.51 mostra i tre passaggi centrali di
questa reazione catalizzata enzimaticamente, che avviene milioni di volte più
velocemente rispetto all’idrolisi non catalizzata.
Meccanismi simili vengono usati da altri enzimi per abbassare le energie
di attivazione e accelerare le reazioni che catalizzano. Nelle reazioni che coinvolgono due o più reagenti il sito attivo agisce anche da stampo, o forma, che
tiene vicini i substrati nel corretto orientamento affinché fra di essi avvenga
una reazione (Figura 3.52A). Come abbiamo visto per il lisozima, il sito attivo
di un enzima contiene atomi esattamente posizionati che accelerano una rea-
+
–
–
+
(A) l’enzima si lega a due
molecole di substrato
e le orienta precisamente
per favorire una
reazione fra di loro
(B) l’attacco del substrato
all’enzima riarrangia
elettroni nel substrato,
creando parziali cariche
negative e positive che
favoriscono una reazione
(C) l’enzima impone uno
stress alla molecola di
substrato legata, forzandola
verso uno stato di transizione
per favorire una reazione
Figura 3.52 Alcune strategie
generali della catalisi enzimatica.
(A) I substrati vengono mantenuti
vicini in un allineamento preciso.
(B) Stabilizzazione di cariche
degli intermedi della reazione.
(C) Applicazione di forze che alterano
gli angoli di legame nel substrato per
aumentare la velocità di una reazione
particolare.
CAPITOLO
3 Le proteine
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zione usando gruppi carichi per alterare la distribuzione di elettroni del substrato (Figura 3.52B). Inoltre, quando un substrato si lega a un enzima, alcuni
legami del substrato spesso si piegano, cambiandone la forma. Questi cambiamenti, insieme a forze meccaniche, spingono un substrato verso un particolare stato di transizione (Figura 3.52C). Infine, come il lisozima, molti enzimi
partecipano direttamente alla reazione formando brevemente un legame covalente fra il substrato e una catena laterale dell’enzima. I passaggi successivi
della reazione riportano la catena laterale al suo stato originale, per cui l’enzima resta immutato dopo la reazione (vedi anche Figura 2.48).
■ Piccole molecole strettamente legate aggiungono ulteriori
funzioni alle proteine
Anche se abbiamo sottolineato la versatilità degli enzimi (e delle proteine in
genere) come catene di amminoacidi che svolgono differenti funzioni, esistono molti esempi in cui gli amminoacidi da soli non bastano. Proprio come gli esseri umani impiegano strumenti per aumentare ed estendere le capacità delle loro mani, gli enzimi spesso usano piccole molecole non proteiche per svolgere funzioni che sarebbe difficile o impossibile svolgere soltanto con gli amminoacidi.
Gli enzimi hanno spesso una piccola molecola o un atomo di un metallo
strettamente associati al loro sito attivo che coadiuvano la loro funzione catalitica. La carbossipeptidasi, per esempio, un enzima che taglia catene polipeptidiche, ha un atomo di zinco strettamente legato al sito attivo. Durante il taglio
di un legame peptidico da parte della carbossipeptidasi lo zinco forma un legame transitorio con uno degli atomi del substrato, fornendo così assistenza
alla reazione di idrolisi. In altri enzimi una piccola molecola organica serve a
uno scopo simile. Queste molecole organiche sono spesso chiamate coenzimi. Un esempio è la biotina, che si trova in enzimi che trasferiscono un gruppo carbossilato (–COO–) da una molecola a un’altra (vedi Figura 2.40). La
biotina partecipa a queste reazioni formando un legame covalente transitorio
con il gruppo –COO– da trasferire, essendo più adatta a questa funzione di
qualunque amminoacido usato per costruire proteine. Poiché non può essere
sintetizzata dagli esseri umani, e deve perciò essere fornita in piccole quantità
con la dieta, la biotina è una vitamina. Molti altri coenzimi sono sia vitamine
che derivati di vitamine (Tabella 3.2).
Anche altre proteine necessitano spesso di piccole molecole specifiche aggiuntive per funzionare in maniera appropriata. Così il recettore proteico del
segnale rodopsina, che è prodotto dalle cellule fotorecettrici della retina, rivela la luce per mezzo di una piccola molecola, il retinale, immersa nella proteina (Figura 3.53A). Il retinale, che deriva dalla vitamina A, cambia la sua forma
quando assorbe un fotone di luce e questo cambiamento innesca nella proteina una cascata di reazioni enzimatiche che alla fine porta alla trasmissione di
un segnale elettrico al cervello.
Un altro esempio di una proteina che contiene una porzione non proteica
è l’emoglobina (vedi Figura 3.19). Ogni molecola di emoglobina ha quattro
TABELLA 3.2 Molte vitamine forniscono coenzimi cruciali per le cellule umane
Vitamina
Coenzima
Reazioni catalizzate da enzimi che richiedono questi coenzimi
Tiamina (vitamina B1)
Tiamina pirofosfato
Attivazione e trasferimento di aldeidi
Riboflavina (vitamina B2)
FADH
Ossidazione-riduzione
Niacina
NADH, NADPH
Ossidazione-riduzione
Acido pantotenico
Coenzima A
Attivazione e trasferimento di un gruppo acilico
Piridossina
Piridossal fosfato
Attivazione di amminoacidi; anche glicogeno fosforilasi
Biotina
Biotina
Attivazione e trasferimento di CO2
Acido lipoico
Lipoammide
Attivazione di gruppi acilico; ossidazione-riduzione
Acido folico
Tetraidrofolato
Attivazione e trasferimento di gruppi a singolo carbonio
Vitamina B12
Coenzimi cobalaminici
Isomerizzazione e trasferimento di gruppi metilici
CAPITOLO
3 Le proteine
153
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H3C CH3
CH3
H3C
COOH
COOH
CH2
CH2
CH2
CH2
CH3
+N
N
Fe
CH3
H2C
H3C
CHO
(A)
H
C
N+
CH3
(B)
N
CH3
HC
CH2
gruppi eme, molecole a forma di anello con un singolo atomo centrale di ferro (Figura 3.53B). L’eme conferisce all’emoglobina (e al sangue) il suo colore rosso. Legandosi reversibilmente a ossigeno gassoso tramite l’atomo di ferro, l’eme rende l’emoglobina capace di assumere ossigeno nei polmoni e di
rilasciarlo nei tessuti.
Talvolta queste piccole molecole sono legate covalentemente e permanentemente alla proteina, diventando così parte integrante della proteina stessa.
Vedremo nel Capitolo 10 che le proteine sono spesso ancorate alle membrane cellulari tramite molecole lipidiche legate covalentemente. E proteine di
membrana esposte sulla superficie della cellula, oltre a proteine secrete al di
fuori della cellula, sono spesso modificate dall’aggiunta covalente di zuccheri e di oligosaccaridi.
■ Complessi multienzimatici aiutano ad aumentare la velocità
del metabolismo cellulare
L’efficienza degli enzimi nell’accelerare le reazioni chimiche è cruciale per
il mantenimento della vita. Le cellule, in effetti, devono opporsi agli inevitabili processi di decadimento, che – se non controllati – provocano il precipitare delle macromolecole verso un disordine sempre più grande. Se le
velocità delle reazioni desiderabili non fossero maggiori delle velocità delle reazioni collaterali competitive, una cellula morirebbe presto. Si può avere un’idea della velocità con cui procede il metabolismo cellulare misurando la velocità di utilizzo dell’ATP. Una tipica cellula di mammifero “ricicla”
(cioè idrolizza e ripristina per fosforilazione) il suo intero pool di ATP ogni
minuto o due. Per ciascuna cellula questo turnover rappresenta l’utilizzo di
più di 107 molecole di ATP al secondo (o, per il corpo umano, di circa 30
grammi di ATP al minuto).
Le velocità delle reazioni nelle cellule sono rapide a causa dell’efficacia della
catalisi enzimatica. Alcuni enzimi sono diventati così efficienti che non esiste
possibilità di ulteriori miglioramenti utili. Il fattore che limita la velocità della
reazione non è più l’intrinseca velocità di azione dell’enzima, ma piuttosto la
frequenza con cui l’enzima collide con il suo substrato. Queste reazioni sono
dette limitate dalla diffusione (vedi Quadro 3.2, pp. 148-149).
La quantità di prodotto ottenuto da un enzima dipenderà dalla concentrazione dell’enzima e del suo substrato. Se una sequenza di reazioni deve avvenire con estrema rapidità, ciascun intermedio metabolico e ciascun enzima
coinvolto devono essere presenti in alta concentrazione. Tuttavia, dato il numero enorme di reazioni diverse svolte da una cellula, ci sono dei limiti alle
concentrazioni dei substrati che si possono effettivamente raggiungere. Infatti la maggior parte dei metaboliti è presente in concentrazioni micromolari
(10–6 M) e la maggior parte degli enzimi ha concentrazioni molto più basse.
Com’è possibile, allora, mantenere velocità metaboliche molto alte?
La risposta si trova nell’organizzazione spaziale dei componenti cellulari.
La cellula può aumentare le velocità delle reazioni senza aumentare le concentrazioni dei substrati combinando i vari enzimi coinvolti in una sequen-
Figura 3.53 Retinale ed eme.
(A) La struttura del retinale, la
molecola sensibile alla luce attaccata
alla rodopsina nell’occhio. La struttura
mostrata isomerizza quando assorbe
luce. (B) La struttura di un gruppo
eme. L’anello che contiene carbonio
dell’eme è rosso e l’atomo di ferro
al centro è arancione. Un gruppo
eme è saldamente legato a ciascuna
delle quattro catene polipeptidiche
dell’emoglobina, la proteina che
trasporta ossigeno la cui struttura è
mostrata nella Figura 3.19.
CAPITOLO
3 Le proteine
154
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SINTETASI DEGLI ACIDI GRASSI
dominio trasportatore
del gruppo acilico
C
N
2
1
4
5
3
dominio di
terminazione
(TE)
domini dell’enzima
(A)
1
TE
20 nm
(D)
COMPLESSO DELLA PIRUVATO DEIDROGENASI
1
3
4
2
5
2
3
2
1
4
3
(B)
5 nm
(C)
Figura 3.54 Come regioni non strutturate di catene
polipeptidiche con funzione di guinzagli fanno sì
che gli intermedi di reazione passino da un sito attivo
all’altro in grandi complessi multienzimatici.
(A-C) La sintetasi degli acidi grassi nei mammiferi. (A) La
posizione di sette domini proteici con attività differenti
in questa proteina di 270 kilodalton. Il numero si riferisce
all’ordine in cui ogni dominio enzimatico deve funzionare
per completare ciascuno dei passaggi di aggiunta di due
carboni. Dopo cicli multipli di addizione di due carboni,
il dominio di terminazione rilascia il prodotto finale dopo
che è stata raggiunta la lunghezza desiderata dell’acido
grasso. (B) La struttura dell’enzima dimerico, con indicata la
posizione dei cinque siti attivi in un monomero. (C) Come
un guinzaglio flessibile permette al substrato che rimane
legato al dominio acilico trasportatore (rosso) di passare da
un sito attivo all’altro in ciascun monomero, allungando e
modificando sequenzialmente l’intermedio di acido grasso
legato (giallo). I cinque passaggi sono ripetuti finché non
è stata raggiunta la lunghezza finale dell’acido grasso.
ecc.
(E)
(Qui sono mostrati solo i passaggi da 1 a 4.) (D) Subunità
multiple collegate da guinzagli nel complesso gigante della
piruvato deidrogenasi (9500 kilodalton, più grande di un
ribosoma) che catalizza la conversione del piruvato in acetil
CoA. (E) Come in (C), un substrato legato covalentemente
tenuto da un guinzaglio flessibile (palle rosse con substrato
giallo) è passato sequenzialmente attraverso i siti attivi sulle
subunità (qui classificati da 1 a 3) per generare i prodotti
finali. Qui la subunità 1 catalizza la decarbossilazione del
piruvato accompagnata da un’acetilazione riduttiva di un
gruppo lipoilico legato a una delle palle rosse. La subunità 2
trasferisce questo gruppo acetilico al CoA, formando l’acetil
CoA, e la subunità 3 ossida nuovamente il gruppo lipoilico
per prepararlo al ciclo successivo. Solamente un decimo delle
subunità 1 e 3, attaccate al nucleo formato dalle subunità 2,
è mostrato qui. Questa importante reazione avviene nel
mitocondrio dei mammiferi, come parte della via che ossida gli
zuccheri a CO2 e H2O (vedi p. 84). (A-C, adattate da T. Maier
et al., Quart. Rev. Biophys. 43:373-422, 2010; D, da J.L.S.
Milne et al., J. Biol. Chem. 281:4364-4370, 2006.)
za di reazioni per formare un grande complesso proteico noto come complesso multienzimatico (Figura 3.54). Poiché ciò permette al prodotto dell’enzima A
di passare direttamente all’enzima B e così via, le velocità di diffusione non
sono più limitanti, anche quando le concentrazioni dei substrati nella cellula nel suo insieme sono molto basse. Non è quindi sorprendente che questi
complessi enzimatici siano molto comuni e che siano coinvolti in quasi tutti gli aspetti del metabolismo, compresi i processi genetici centrali della sintesi di DNA, di RNA e di proteine. In effetti pochi enzimi nelle cellule eucariotiche diffondono liberamente in soluzione; invece sembra che la maggior
parte abbia evoluto siti di legame che li concentrano con altre proteine con
CAPITOLO
3 Le proteine
155
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funzione correlata in regioni particolari della cellula, aumentando così la velocità e l’efficienza delle reazioni che catalizzano (vedi p. 348).
Le cellule eucariotiche hanno un altro modo ancora per aumentare la velocità delle reazioni metaboliche, usando i loro sistemi di membrane intracellulari. Queste membrane possono segregare substrati particolari e gli enzimi che agiscono su di essi nello stesso compartimento racchiuso da membrana, come il reticolo endoplasmatico o il nucleo cellulare. Se, per esempio,
un compartimento occupa un totale del 10% del volume della cellula, la concentrazione dei reagenti nel compartimento può aumentare fino a 10 volte in
confronto a una cellula con lo stesso numero di molecole di enzimi e substrati ma senza compartimentazione. Reazioni che altrimenti sarebbero limitate
dalla velocità di diffusione possono così essere accelerate fino a un fattore 10.
■ La cellula regola le attività catalitiche dei suoi enzimi
Una cellula vivente contiene migliaia di enzimi, molti dei quali operano contemporaneamente e nello stesso piccolo volume del citosol. Con la loro attività catalitica questi enzimi generano una complessa rete di vie metaboliche,
ciascuna composta da catene di reazioni chimiche in cui il prodotto di un enzima diventa il substrato del successivo. In questo labirinto di vie sono presenti molti punti di ramificazione (nodi) in cui enzimi diversi competono per
lo stesso substrato. Il sistema è così complesso (vedi Figura 2.63) che sono necessari controlli elaborati per regolare quando e quanto rapidamente ciascuna reazione deve verificarsi.
La regolazione avviene a molti livelli. A un livello la cellula controlla quante molecole di enzima produce regolando l’espressione del gene che codifica quell’enzima (vedi Capitolo 7). La cellula controlla anche le attività enzimatiche confinando serie di enzimi in compartimenti subcellulari particolari, racchiusi da membrane distinte (vedi i Capitoli 12 e 14) o concentrandoli mediante un’impalcatura proteica (vedi Figura 3.77). Come vedremo più
avanti in questo capitolo, gli enzimi sono spesso modificati covalentemente
per controllarne l’attività. La velocità della distruzione delle proteine mediante
proteolisi mirata rappresenta un altro importante meccanismo di regolazione
(vedi Figura 6.86). Ma il processo più rapido e generale che regola le velocità
delle reazioni opera tramite un cambiamento diretto e reversibile dell’attività
di un enzima in risposta alle molecole specifiche che lega.
Il tipo più comune di controllo è quello che si ha quando una molecola
diversa da uno dei substrati si lega a un enzima in un sito regolatore speciale fuori dal sito attivo, alterando così la velocità alla quale l’enzima converte i substrati in prodotti. Per esempio, nell’inibizione a feedback un enzima che agisce all’inizio di una via di reazioni viene inibito da un prodotto
tardivo di quella via. Quindi, tutte le volte che cominciano ad accumularsi
grandi quantità del prodotto finale, questo prodotto si lega al primo enzima
e ne rallenta l’azione catalitica, limitando così l’ulteriore ingresso di substrati in quella via di reazioni (Figura 3.55). Dove le vie si ramificano o si incrociano esistono di solito punti di controllo multipli da parte di prodotti finali
diversi, ciascuno dei quali regola la propria sintesi (Figura 3.56). L’inibizione
a feedback può essere quasi istantanea ed è rapidamente rilasciata quando il
livello del prodotto scende.
L’inibizione a feedback è una regolazione negativa, che impedisce a un enzima di agire. Gli enzimi possono anche essere soggetti a una regolazione positiva, in cui l’attività enzimatica è stimolata da una molecola regolatrice, anziché essere spenta. La regolazione positiva avviene quando un prodotto di
una ramificazione del labirinto metabolico stimola l’attività di un enzima di
un’altra via. Per esempio, l’accumulo di ADP attiva parecchi enzimi coinvolti nell’ossidazione di molecole di zuccheri, stimolando così la cellula a convertire più ADP in ATP.
A
B
X
regolazione
negativa
Y
Figura 3.55 Inibizione a feedback di una singola via biosintetica. Il prodotto
finale Z inibisce il primo enzima specifico per la sua sintesi e così controlla il suo livello
nella cellula. Questo è un esempio di regolazione negativa.
C
Z
CAPITOLO
3 Le proteine
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Figura 3.56 Inibizione a feedback
multipla. In questo esempio, che
mostra le vie biosintetiche di quattro
amminoacidi diversi nei batteri, le
linee rosse indicano le posizioni in
cui i prodotti inibiscono gli enzimi
mediante feedback. Ciascun
amminoacido controlla il primo
enzima specifico per la sua sintesi,
regolando così il proprio livello ed
evitando un dispendioso, e talvolta
pericoloso, accumulo di intermedi.
I prodotti possono anche inibire
separatamente la serie iniziale di
reazioni comuni a tutte le sintesi;
in questo caso tre enzimi differenti
catalizzano la reazione iniziale,
ciascuno inibito da un prodotto
diverso.
aspartato
aspartil
fosfato
aspartato
semialdeide
omoserina
lisina
treonina
metionina
isoleucina
■ Gli enzimi allosterici hanno due o più siti di legame
che interagiscono
Una caratteristica particolare della regolazione a feedback sia positiva sia negativa consiste nel fatto che la molecola regolatrice spesso ha una forma completamente diversa dalla forma del substrato dell’enzima. Questo è il motivo
per cui questa forma di regolazione è chiamata allosteria (dalle parole greche
allos, che significa “altro”, e stereos, che significa “solido” o “tridimensionale”).
Mano a mano che i biologi approfondivano le conoscenze sull’inibizione a
feedback si capì che molti enzimi devono avere almeno due siti di legame diversi sulla loro superficie: un sito attivo che riconosce i substrati e un sito
regolatore che riconosce una molecola regolatrice. Questi due siti devono
comunicare in qualche modo, tanto da permettere che gli eventi catalitici sul
sito attivo siano influenzati dall’attacco della molecola regolatrice al suo sito
separato sulla superficie della proteina.
Oggi si sa che l’interazione fra siti separati in una molecola proteica dipende da un cambiamento conformazionale della proteina: il legame a un sito provoca
uno spostamento da una forma ripiegata a una forma ripiegata leggermente
diversa. Durante l’inibizione a feedback, per esempio, il legame di un inibitore a un sito sulla proteina fa in modo che la proteina assuma una conformazione in cui il suo sito attivo – posto altrove nella proteina – diventa inattivo.
Si pensa che la maggior parte delle molecole proteiche sia allosterica. Esse possono adottare due o più conformazioni leggermente diverse e uno spostamento da una all’altra, causato dal legame di un ligando, può alterare la loro
attività. Ciò è vero non solo per gli enzimi ma anche per molte altre proteine, compresi recettori, proteine strutturali e proteine motrici. In tutti i casi di
CAPITOLO
regolazione allosterica ciascuna conformazione della proteina ha contorni di
superficie un po’ diversi e i siti di legame della proteina per i ligandi vengono
alterati quando la proteina cambia forma. Inoltre, come vedremo successivamente, ciascun ligando stabilizza la conformazione che lega con maggior forza e così – a concentrazioni abbastanza alte – tende a “far scattare” la proteina
nella forma che preferisce.
■ Due ligandi i cui siti di legame sono accoppiati devono
influenzare reciprocamente il loro attacco
Gli effetti dell’attacco di un ligando su una proteina derivano da un principio chimico fondamentale noto come linkage (collegamento). Supponiamo,
per esempio, che una proteina che lega glucosio leghi anche un’altra molecola, X, a un sito distante sulla superficie della proteina. Se il sito di legame per
X cambia forma in conseguenza del cambiamento conformazionale indotto
dall’attacco del glucosio, i siti di legame per X e per il glucosio sono detti accoppiati. Tutte le volte che due ligandi preferiscono legarsi alla stessa conformazione di una proteina allosterica ne segue, secondo i principi termodinamici di base, che ciascun ligando deve aumentare l’affinità della proteina per
l’altro. Per esempio, se lo spostamento di una proteina alla conformazione che
lega meglio il glucosio provocherà anche un migliore adattamento del sito di
X a X, allora la proteina legherà il glucosio con più forza quando X è presente rispetto a quando X è assente. In altre parole, X regolerà positivamente il
legame della proteina al glucosio (Figura 3.57).
Al contrario, il linkage opera in modo negativo se i due ligandi preferiscono legarsi a conformazioni diverse della stessa proteina. In questo caso l’attacco del primo ligando scoraggia l’attacco del secondo ligando. Così, se un
cambiamento di forma provocato dall’attacco del glucosio diminuisce l’affinità di una proteina per la molecola X, l’attacco di X deve anche diminuire
l’affinità della proteina per il glucosio (Figura 3.58). La relazione di linkage è
quantitativamente reciproca, così che, per esempio, se il glucosio ha un effetto molto grande sul legame di X, X a sua volta ha un effetto molto grande sull’attacco del glucosio.
Le relazioni mostrate nelle Figure 3.57 e 3.58 si applicano a tutte le proteine e sono alla base di tutta la biologia cellulare: in retrospettiva sembrano
così ovvie che oggi le diamo per scontate, ma la loro scoperta negli anni ’50,
seguita da una descrizione generale dell’allosteria all’inizio degli anni ’60, ha
avuto un effetto rivoluzionario sulla comprensione della biologia. Poiché la
INATTIVO
molecola
X
molecola
X
3 Le proteine
157
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regolazione
positiva
glucosio
ATTIVO
10% attivo
100% attivo
Figura 3.57 Regolazione positiva causata da accoppiamento conformazionale
fra due siti di legame separati. In questo esempio sia il glucosio che la molecola X
si legano meglio alla conformazione chiusa di una proteina con due domini. Poiché sia
il glucosio che la molecola X spingono la proteina verso la sua conformazione chiusa,
ciascun ligando aiuta l’altro a legarsi. Si dice perciò che il glucosio e la molecola X si
legano cooperativamente alla proteina.
CAPITOLO
3 Le proteine
158
Figura 3.58 Regolazione negativa
causata da accoppiamento
conformazionale fra due siti
di legame separati. Lo schema
assomiglia a quello della figura
precedente, ma qui la molecola X
preferisce la conformazione aperta,
mentre il glucosio preferisce la
conformazione chiusa. Poiché il
glucosio e la molecola X spingono la
proteina verso conformazioni opposte
(rispettivamente chiusa e aperta),
la presenza di uno dei due ligandi
interferisce con l’attacco dell’altro.
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ATTIVO
molecola
X
molecola
X
regolazione
negativa
glucosio
INATTIVO
100% attivo
10% attivo
molecola X in questi esempi si lega a un sito sull’enzima distinto dal sito nel
quale avviene la catalisi, essa non deve avere necessariamente una relazione
chimica con il substrato che lega il sito attivo. Inoltre, come abbiamo appena
visto, per enzimi che sono regolati in questo modo la molecola X può accendere l’enzima (regolazione positiva) o spegnerlo (regolazione negativa). Per
mezzo di un tale meccanismo le proteine allosteriche agiscono da interruttori generali che, in linea di principio, permettono a una molecola nella cellula di influenzare il destino di qualunque altra.
■ Complessi simmetrici di proteine producono transizioni
allosteriche cooperative
Figura 3.59 Attività enzimatica
Un enzima a singola subunità che è regolato da feedback negativo può al massimo scendere dal 90% di attività al 10% circa in risposta a un aumento di 100
volte della concentrazione di un ligando inibitore che lo lega (Figura 3.59, linea rossa). Risposte di questo tipo non sono evidentemente abbastanza nette per dare una regolazione cellulare ottimale e la maggior parte degli enzimi che sono accesi o spenti dall’attacco di un ligando consistono di complessi simmetrici di subunità identiche. Con questa disposizione l’attacco di una
molecola di ligando a un singolo sito su una subunità può scatenare un cambiamento allosterico dell’intero complesso che aiuta le subunità vicine a legare lo stesso ligando. Come risultato avviene una transizione allosterica cooperativa (Figura 3.59, linea blu), che permette che un cambiamento relativamente modesto della concentrazione del ligando nella cellula faccia scattare l’intero complesso da una forma quasi completamente attiva a una conformazione quasi completamente inattiva (o viceversa).
I principi coinvolti in una transizione cooperativa “tutto o niente” sono
gli stessi per tutte le proteine, indipendentemente dal fatto che siano enzimi.
Perciò essi sono cruciali, per esempio, per un efficiente legame e rilascio di
100
attività enzimatica relativa
e concentrazione di un ligando
inibitore per enzimi allosterici
a subunità singola e a subunità
multiple. Per un enzima con una
singola subunità (linea rossa) una
diminuzione da un’attività del 90% a
un’attività del 10% (indicata dai due
punti sulla curva) richiede un aumento
di 100 volte della concentrazione
dell’inibitore.
L’attività enzimatica è calcolata dalla
semplice relazione di equilibrio
K = [IP]/[I][P], in cui P è la proteina
attiva, I è l’inibitore e IP è la proteina
inattiva legata all’inibitore. Una
curva identica si applica a qualunque
interazione di legame semplice fra
due molecole A e B. Un enzima
allosterico multisubunità può invece
rispondere come un interruttore a un
cambiamento della concentrazione di
ligando: la rapida risposta è causata
da un legame cooperativo delle
molecole del ligando, come spiegato
nella Figura 3.60. Qui la linea verde
rappresenta il risultato teorico atteso
per l’attacco cooperativo di due
molecole di ligando a un enzima
allosterico con due subunità, mentre
la linea blu mostra la risposta teorica
di un enzima con quattro subunità.
Come indicato dai due punti su
ciascuna di queste curve, l’attività
degli enzimi più complessi scende
dal 90% al 10% in un ambito
molto più limitato di concentrazione
dell’inibitore rispetto all’enzima
composto da una singola subunità.
50
0
1 subunità
2 subunità
4 subunità
5
concentrazione di inibitore
10
CAPITOLO
3 Le proteine
159
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Figura 3.60 Una transizione allosterica cooperativa in un enzima composto
da due subunità identiche. Questo disegno illustra come la conformazione di una
subunità possa influenzare quella della sua vicina. L’attacco di una singola molecola di
un ligando inibitore (giallo) a una subunità dell’enzima avviene con difficoltà perché
cambia la conformazione di questa subunità e altera così la simmetria dell’enzima.
Una volta che si è verificato questo cambiamento conformazionale, però, l’energia
guadagnata ripristinando l’interazione di appaiamento simmetrico fra le due subunità
rende particolarmente facile per la seconda subunità legare il ligando inibitore e subire lo
stesso cambiamento conformazionale. Poiché l’attacco della prima molecola di ligando
aumenta l’affinità con cui l’altra subunità lega lo stesso ligando, la risposta dell’enzima
a cambiamenti della concentrazione del ligando è molto più rapida della risposta di un
enzima con una sola subunità (vedi Figura 3.59 e Filmato 3.10 ).
O2 da parte dell’emoglobina nel sangue, ma sono probabilmente più facili da
visualizzare per un enzima che forma un dimero simmetrico. Nell’esempio
mostrato nella Figura 3.60, la prima molecola di un ligando inibitore si attacca
con grande difficoltà poiché il suo attacco rompe un’interazione energeticamente favorevole fra i due monomeri identici del dimero. Una seconda molecola di ligando inibitore adesso però si lega più facilmente, perché il suo attacco ripristina i contatti monomero-monomero di un dimero simmetrico (e
inattiva anche completamente l’enzima).
Come alternativa a questo modello dell’adattamento indotto per una transizione allosterica cooperativa, possiamo considerare questo enzima simmetrico come se avesse soltanto due conformazioni possibili, che corrispondono
alle strutture dell’“enzima acceso” e dell’“enzima spento” della Figura 3.60.
In questo modello l’attacco del ligando altera un equilibrio tutto o niente fra
questi due stati, cambiando così la proporzione delle molecole attive. Entrambi i modelli rappresentano concetti reali e utili.
■ Molti cambiamenti delle proteine sono indotti
da fosforilazione proteica
Le proteine sono regolate in altri modi, oltre che dal legame reversibile di altre molecole. Un secondo metodo usato dalle cellule eucariotiche per regolare la funzione di una proteina è l’aggiunta covalente di una piccola molecola a una o più catene laterali dei suoi amminoacidi. La modificazione regolatrice di questo tipo più comune negli eucarioti superiori è l’aggiunta di un
gruppo fosfato. Useremo quindi la fosforilazione delle proteine per illustrare
alcuni principi generali coinvolti nel controllo della funzione delle proteine
tramite la modificazione delle catene laterali degli amminoacidi.
Questi eventi di fosforilazione possono influenzare la proteina che viene
modificata in tre modi importanti. Per prima cosa, poiché ciascun gruppo fosfato ha due cariche negative, l’aggiunta catalizzata da un enzima di un gruppo fosfato a una proteina può provocare un importante cambiamento conformazionale nella proteina attraendo, per esempio, un gruppo di catene laterali di amminoacidi carichi positivamente. Ciò può a sua volta influenzare
l’attacco di ligandi altrove sulla superficie proteica, provocando cambiamenti
drastici nell’attività della proteina. La rimozione del gruppo fosfato da parte
di un secondo enzima fa ritornare la proteina alla sua conformazione originaria e ne ripristina l’attività iniziale.
In secondo luogo, un gruppo fosfato legato può formare parte di una struttura che viene riconosciuta da siti di legame di altre proteine. Come osservato in precedenza, il dominio SH2 si lega a una breve sequenza peptidica contenente una tirosina fosforilata (vedi Figura 3.40B). Più di dieci altri domini
comuni forniscono siti di legame per attaccare le loro proteine a peptidi fosforilati di altre molecole proteiche, ciascuno dei quali riconosce la catena laterale di un amminoacido fosforilato nel contesto di una proteina diversa. Infine, l’aggiunta di un gruppo fosfato può nascondere un sito di legame che
altrimenti terrebbe unite due proteine e perciò impedire interazioni proteina-proteina. Come risultato, eventi di fosforilazione e defosforilazione hanno
un ruolo importante nell’indurre l’assemblaggio e il disassemblaggio regolati
di complessi proteici (vedi, per esempio, Figura 15.11).
ENZIMA ACCESO
inibitore
TRANSIZIONE
DIFFICILE
substrato
TRANSIZIONE
FACILE
ENZIMA SPENTO
CAPITOLO
3 Le proteine
160
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La fosforilazione reversibile delle proteine controlla l’attività, la struttura
e la localizzazione cellulare degli enzimi e di molti altri tipi di proteine nelle cellule eucariotiche. In effetti questa regolazione è così estesa che si pensa
che più di un terzo delle circa 10 000 proteine presenti in una tipica cellula
di mammifero, molte con più di un fosfato, sia fosforilato in ogni dato momento. Come ci si potrebbe aspettare, l’aggiunta e la rimozione di gruppi fosfato da proteine specifiche avviene spesso in risposta a segnali che indicano
qualche cambiamento nello stato di una cellula. Per esempio, la cadenza temporale della serie complessa di eventi che avviene quando una cellula eucariotica si divide è controllata in questo modo (vedi Capitolo 17) e molti dei
segnali che mediano interazioni cellula-cellula sono trasmessi dalla membrana plasmatica al nucleo da una cascata di eventi di fosforilazione di proteine
(vedi Capitolo 15).
■ Una cellula eucariotica contiene numerose proteina chinasi
e proteina fosfatasi
O
ATP
OH
catena
laterale CH2
di serina
C
O
ADP
_
P
O
O
CH2
PROTEINA
CHINASI
C
PROTEINA
FOSFATASI
proteina
fosforilata
(A)
Pi
chinasi
P
OFF
ON
fosfatasi
chinasi
ON
P
OFF
fosfatasi
(B)
_
La fosforilazione delle proteine comporta il trasferimento catalizzato da enzimi
del gruppo fosfato terminale di una molecola di ATP al gruppo ossidrilico sulla
catena laterale di una serina, treonina o tirosina della proteina (Figura 3.61). Questa reazione è catalizzata da una proteina chinasi ed è essenzialmente unidirezionale a causa della grande quantità di energia libera rilasciata quando si rompe il legame fosfato-fosfato nell’ATP per produrre ADP (vedi Capitolo 2). La
reazione inversa di rimozione del fosfato, o defosforilazione, è invece catalizzata
da una proteina fosfatasi. Le cellule contengono centinaia di proteina chinasi diverse, ciascuna responsabile della fosforilazione di una proteina o di una serie di proteine. Esistono anche molte proteina fosfatasi diverse; alcune di queste sono altamente specifiche e rimuovono gruppi fosfato soltanto da una o da
poche proteine, mentre altre agiscono su una vasta gamma di proteine e sono
indirizzate a substrati specifici da subunità regolatrici. Lo stato di fosforilazione
di una proteina in ogni momento, e quindi la sua attività, dipende dalle attività
relative delle proteina chinasi e fosfatasi che la modificano.
Le proteina chinasi che fosforilano proteine nelle cellule eucariotiche appartengono a una famiglia molto grande di enzimi che hanno in comune una
sequenza catalitica (chinasi) di circa 290 amminoacidi. I vari membri della famiglia contengono sequenze di amminoacidi diverse su entrambi i lati della sequenza chinasica (per esempio, vedi Figura 3.10) e spesso hanno brevi sequenze amminoacidiche inserite in anse al suo interno. Alcune di queste sequenze
addizionali di amminoacidi rendono ciascuna chinasi capace di riconoscere la
serie specifica di proteine che fosforila, o di legarsi a strutture che la posizionano in regioni specifiche della cellula. Altre parti della proteina permettono
una fine regolazione di ciascun enzima, in modo che questo possa essere acceso o spento in risposta a segnali specifici diversi, come descritto più avanti.
Confrontando il numero di differenze nella sequenza di amminoacidi fra
i vari membri di una famiglia di proteine si può costruire un “albero evolutivo” che si pensa rifletta lo schema di duplicazione genica e di divergenza che
ha dato origine alla famiglia. Un albero evolutivo delle proteina chinasi è riportato nella Figura 3.62. Le chinasi con funzioni correlate sono spesso posizionate su rami vicini dell’albero: le proteina chinasi coinvolte nella segnalazione cellulare che fosforilano catene laterali di tirosina, per esempio, sono tutte raggruppate nell’angolo in alto a sinistra dell’albero. Le altre chinasi
Figura 3.61 Fosforilazione di proteine. In una tipica cellula eucariotica molte
migliaia di proteine sono modificate dall’aggiunta covalente di un gruppo fosfato.
(A) La reazione generale mostrata qui comporta il trasferimento di un gruppo fosfato
da ATP alla catena laterale di un amminoacido della proteina bersaglio a opera di
una proteina chinasi. La rimozione del gruppo fosfato è catalizzata da un secondo
enzima, una proteina fosfatasi. In questo esempio il fosfato è aggiunto a una catena
laterale di serina; in altri casi il fosfato è invece unito al gruppo –OH di una treonina
o di una tirosina della proteina. (B) La fosforilazione di una proteina da parte di una
proteina chinasi può aumentare o diminuire l’attività di una proteina, in base al sito di
fosforilazione e alla struttura proteica.
CAPITOLO
3 Le proteine
161
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Cdc7
sottofamiglia
delle MAP chinasi
KSS1
Wee1
recettore
del PDGF
sottofamiglia
delle tirosina
chinasi
ERK1
recettore
dell’EGF
Src
sottofamiglia
delle chinasi
dipendenti da ciclina
(controllo del
ciclo cellulare)
Cdk2
Cdc2
chinasi dipendente
da AMP ciclico
Lck
chinasi
dipendente
da GMP ciclico
proteina chinasi C
Raf
Mos
recettore
del TGFβ
chinasi della
catena leggera
della miosina
chinasi dipendente
da Ca2+/calmodulina
sottofamiglia dei recettori
delle serina chinasi
mostrate fosforilano o una serina o una treonina e molte sono organizzate in
gruppi che sembrano riflettere la loro funzione (nella trasduzione del segnale transmembrana, nell’amplificazione intracellulare del segnale, nel controllo
del ciclo cellulare e così via).
Come risultato delle attività combinate delle proteina chinasi e delle proteina fosfatasi i gruppi fosfato sulle proteine vengono continuamente riciclati:
aggiunti e rapidamente rimossi. Questi cicli di fosforilazione possono sembrare uno spreco, ma sono importanti perché permettono alle proteine fosforilate di passare rapidamente da uno stato all’altro: più rapido è il ciclo, più velocemente lo stato di fosforilazione di una popolazione di proteine può variare
in risposta a un cambiamento improvviso della velocità di fosforilazione (vedi
Figura 15.14). L’energia richiesta per spingere il ciclo di fosforilazione è derivata dall’energia libera dell’idrolisi di ATP, che viene consumato in ragione
di una molecola per ciascun evento di fosforilazione.
■ La regolazione della proteina chinasi Src mostra
come una proteina possa funzionare da microchip
Le centinaia di proteina chinasi diverse in una cellula eucariotica sono organizzate in reti complesse di vie di segnalazione che aiutano a coordinare le
attività della cellula, a spingere il ciclo cellulare e a trasmettere segnali nella cellula che derivano dall’ambiente esterno. Molti dei segnali extracellulari coinvolti devono essere sia integrati che amplificati dalla cellula. Singole
proteine chinasi (e altre proteine di segnalazione) servono da dispositivi input-output, o “microchip”, nel processo di integrazione. Una parte importante dell’input per queste proteine deriva dal controllo che è esercitato dai
fosfati aggiunti a esse e rimossi da esse rispettivamente da parte di proteina
chinasi e proteina fosfatasi.
Un simile comportamento tipo microchip viene manifestato dalla famiglia
Src di proteina chinasi (vedi Figura 3.10). La proteina Src (si pronuncia “sarc” e
prende il nome da un tipo di tumore, il sarcoma, che può essere causato dalla sua mancata regolazione) è stata la prima tirosina chinasi a essere scoperta e oggi si sa che fa parte di una sottofamiglia di nove proteina chinasi molto simili, che si trovano soltanto negli animali pluricellulari. Come indicato
dall’albero evolutivo nella Figura 3.62, confronti di sequenza suggeriscono che
le tirosina chinasi come gruppo siano state un’innovazione relativamente tardiva che si è ramificata dalle serina/treonina chinasi; la sottofamiglia Src rappresenta soltanto un sottogruppo delle tirosina chinasi create in questo modo.
Figura 3.62 Un albero evolutivo
di proteina chinasi selezionate.
Una cellula eucariotica superiore
contiene centinaia di questi enzimi e
il genoma umano ne codifica più di
500. Sono qui rappresentate soltanto
alcune chinasi, quelle prese in esame
in questo libro.
CAPITOLO
3 Le proteine
162
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COOH
NH2
SH3
SH2
domini chinasici
acido
grasso
500 amminoacidi
Figura 3.63 La struttura a domini della famiglia delle proteina chinasi Src,
mappata lungo la sequenza degli amminoacidi. Per la struttura tridimensionale di
Src vedi Figura 3.10.
ligando attivatore
dominio chinasico
P
P
tirosina
SH3
chinasi
attiva
Pi
SH2
P
LA RIMOZIONE
DEL FOSFATO
ALLENTA
LA STRUTTURA
SPENTA
IL LIGANDO
ATTIVATORE
SI LEGA AL
DOMINIO SH3
ADESSO LA CHINASI
PUÒ FOSFORILARE
LA TIROSINA
PER AUTOATTIVARSI
P
ACCESA
Figura 3.64 L’attivazione di una proteina chinasi di tipo Src in seguito a due
eventi sequenziali. Come descritto nel testo, la richiesta di eventi multipli a monte
per innescare questi processi permette alle chinasi di fungere da integratori del segnale
(Filmato 3.11 ). (Adattata da S.C. Harrison et al., Cell 112:737-740, 2003. Con il
permesso di Elsevier.)
INPUT
questo
legame
è stato
spezzato?
è stato
rimosso
questo
fosfato?
è stato
aggiunto
questo
fosfato?
P
P
l’attività chinasica della proteina Src raggiunge
il livello massimo solamente nel caso in cui la
risposta a tutte le domande riportate sopra è sì
La proteina Src e i suoi omologhi contengono una breve regione N-terminale che viene legata covalentemente a un acido grasso fortemente idrofobico,
che trattiene la chinasi sulla faccia citoplasmatica della membrana plasmatica.
Quindi nella sequenza lineare degli amminoacidi vengono due moduli che legano peptidi, un dominio di omologia Src 3 (SH3) e un dominio SH2, seguiti
dai domini catalitici della chinasi (Figura 3.63). Queste chinasi sono normalmente in una conformazione inattiva, in cui una tirosina fosforilata vicina al C-terminale è legata al dominio SH2 e il dominio SH3 è legato a un peptide interno in un modo che distorce il sito attivo dell’enzima e aiuta a renderlo inattivo.
Come mostrato nella Figura 3.64, l’accensione della chinasi comporta almeno due input specifici: rimozione del fosfato C-terminale e attacco del dominio SH3 a una proteina attivatrice specifica. In questo modo l’attivazione
della chinasi Src segnala che una particolare serie di eventi separati a monte è
stata completata (Figura 3.65). Pertanto la famiglia di proteine Src serve da integratore specifico di segnali, aiutando a generare la complessa rete di eventi
che processano quelle informazioni che rendono la cellula capace di applicare risposte logiche a una serie complessa di condizioni.
OUTPUT
Figura 3.65 Il modo in cui una
proteina chinasi di tipo Src agisce
come dispositivo integratore.
La rottura dell’interazione inibitoria
illustrata per il dominio SH3 (verde)
avviene quando il suo legame alla
regione di collegamento (linker) (in
arancione) è sostituito dal suo legame
ad alta affinità a un ligando attivatore.
■ Proteine che legano e idrolizzano GTP sono regolatori
cellulari ubiquitari
Abbiamo spiegato come l’aggiunta, o la rimozione, di gruppi fosfato a una
proteina possa essere usata da una cellula per controllare l’attività della proteina stessa. Negli esempi considerati finora il fosfato è trasferito da una molecola di ATP a una catena laterale di un amminoacido di una proteina bersaglio. Le cellule eucariotiche hanno anche un altro modo di controllare
l’attività delle proteine mediante aggiunta o rimozione di fosfato. In questo caso il fosfato non è legato direttamente alla proteina ed è invece parte
del nucleotide guaninico GTP, che si lega molto strettamente a una classe di
CAPITOLO
3 Le proteine
163
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Figura 3.66 Proteine che legano
proteina che lega GTP
Pi
GTP
IDROLISI
DI GTP
GDP
GDP
GTP
LENTO
VELOCE
GTP
ON
OFF
OFF
ON
ATTIVA
INATTIVA
INATTIVA
ATTIVA
proteine note come proteine che legano GTP. In generale le proteine regolate in questo modo sono nella loro conformazione attiva quando è legato il
GTP. La perdita di un gruppo fosfato avviene quando il GTP legato è idrolizzato a GDP in una reazione catalizzata dalla proteina stessa, e nel suo stato
con GDP legato la proteina è inattiva. In questo modo le proteine che legano GTP agiscono da interruttori acceso-spento la cui attività è determinata dalla presenza o dall’assenza di un fosfato aggiuntivo su una molecola legata di GDP (Figura 3.66).
Le proteine che legano GTP (chiamate anche GTPasi per l’idrolisi del
GTP che catalizzano) costituiscono una grande famiglia di proteine che contengono tutte varianti dello stesso dominio globulare che lega GTP. Quando
il GTP legato strettamente viene idrolizzato a GDP, questo dominio subisce
un cambiamento conformazionale che inattiva la proteina. La struttura tridimensionale di un membro prototipo di questa famiglia, la GTPasi monomerica chiamata Ras, è mostrata nella Figura 3.67.
La proteina Ras ha un ruolo importante nella segnalazione cellulare (vedi Capitolo 15): nella sua forma legata a GTP, è attiva e stimola una cascata
di fosforilazioni di proteine nella cellula. La maggior parte del tempo, però,
la proteina è nella sua forma inattiva con GDP legato e diventa attiva quando scambia il suo GDP per un GTP in risposta a segnali extracellulari, come
fattori di crescita, che si legano a recettori nella membrana plasmatica (vedi
Figura 15.47).
GTP come interruttori molecolari.
L’attività di una proteina che lega
GTP (chiamata anche GTPasi) richiede
la presenza di una molecola di GTP
legata saldamente (interruttore “on”).
L’idrolisi di questa molecola di GTP
a opera della proteina che lega GTP
produce GDP e fosfato inorganico
(Pi) e fa convertire la proteina in
una conformazione diversa, di
solito inattiva (interruttore “off”). Il
ripristino (resettaggio) dell’interruttore
richiede che il GDP strettamente
legato si dissoci, un passaggio lento
che è accelerato di molto da segnali
specifici; una volta che il GDP si è
dissociato, si riattacca rapidamente
una molecola di GTP.
■ Le proteine regolatrici GAP e GEF controllano
l’attività di proteine che legano GTP determinando
se è legato GTP o GDP
Le proteine che legano GTP sono controllate da proteine regolatrici che determinano se è legato GTP o GDP, proprio come le proteine fosforilate sono
accese e spente da proteina chinasi e proteina fosfatasi. Così Ras è inattivato
da una proteina che attiva la GTPasi (GAP), che si lega alla proteina Ras e la induce a idrolizzare la sua molecola di GTP legata a GDP – che rimane legato strettamente – e a fosfato inorganico (Pi), che è rapidamente rilasciato. La
proteina Ras resta nella sua conformazione inattiva legata a GDP fino a che
incontra un fattore di scambio del nucleotide guaninico (GEF), che si lega a GDPRas e lo induce a rilasciare il GDP. Poiché il sito che lega il nucleotide vuoto
è immediatamente riempito da una molecola di GTP (il GTP è presente in
largo eccesso rispetto al GDP nelle cellule), il GEF attiva Ras aggiungendo di
nuovo indirettamente il fosfato rimosso dall’idrolisi del GTP. Così, in un certo senso, i ruoli di GAP e GEF sono rispettivamente analoghi a quelli di una
proteina fosfatasi e di una proteina chinasi (Figura 3.68).
■ Le proteine possono essere regolate da un’aggiunta
covalente di altre proteine
Le cellule contengono una speciale famiglia di piccole proteine i cui membri vengono attaccati covalentemente a molte altre proteine per determinarne l’attività o il destino. In ogni caso, il terminale carbossilico della piccola proteina viene legato al gruppo amminico della catena laterale di una
lisina di una proteina “bersaglio” attraverso un legame isopeptidico. La prima proteina scoperta di questo tipo, e la più abbondantemente usata, è
COOH
NH2
GTP
P
P
P
elica
interruttore
sito di idrolisi
del GTP
Figura 3.67 La struttura della
proteina Ras nella forma legata
a GTP. Questa GTPasi monomerica
illustra la struttura di un dominio
che lega GTP, che è presente in una
grande famiglia di proteine che legano
GTP. Le regioni rosse cambiano la loro
conformazione quando la molecola
di GTP è idrolizzata a GDP e a fosfato
inorganico dalla proteina; il GDP
resta legato alla proteina, mentre
il fosfato inorganico è rilasciato.
Il ruolo specifico dell’“elica
interruttore” in proteine correlate a
Ras è spiegato più avanti (vedi Figura
3.72 e Filmato 15.7).
CAPITOLO
3 Le proteine
164
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Figura 3.68 Un confronto dei
SEGNALE IN INGRESSO
due principali meccanismi di
segnalazione intracellulare nelle
cellule eucariotiche. In entrambi i
casi una proteina di segnalazione è
attivata dall’aggiunta di un gruppo
fosfato e inattivata dalla rimozione di
questo fosfato. Si noti che l’aggiunta
di un gruppo fosfato a una proteina
può essere anche un meccanismo
inibitorio. (Adattata da E.R. Kantrowiz
e W.N. Lipscomb, Trends Biochem. Sci.
15:53-59, 1990.)
SEGNALE IN INGRESSO
PROTEINA
CHINASI
GDP
GEF
ATP
GDP
OFF
Pi
ADP
OFF
Pi
GTP
ON
ON
GAP
PROTEINA
FOSFATASI
P
GTP
SEGNALE IN USCITA
SEGNALAZIONE DA PARTE
DI UNA PROTEINA FOSFORILATA
SEGNALE IN USCITA
SEGNALAZIONE DA PARTE
DI UNA PROTEINA CHE LEGA IL GTP
l’ubiquitina (Figura 3.69A). L’ubiquitina può essere attaccata covalentemente a proteine bersaglio in una varietà di modi, ciascuno dei quali ha un significato diverso per la cellula. La forma più comune di aggiunta di ubiquitina produce catene di poliubiquitina in cui – una volta che la prima molecola
di ubiquitina è attaccata al bersaglio – ogni molecola di ubiquitina seguente
è attaccata alla Lys48 della molecola di ubiquitina precedente, creando una
catena di ubiquitine legata mediante Lys48 che sono attaccate a una singola catena laterale di lisina della proteina bersaglio. Questa forma di poliubiquitina dirige la proteina bersaglio all’interno di un proteasoma, dove viene
digerita in piccoli peptidi (vedi Figura 6.84). In altre circostanze solo singole molecole di ubiquitina sono attaccate a proteine. Inoltre alcune proteine bersaglio sono modificate con un tipo diverso di catena di poliubiquitina. Queste modifiche hanno, per la proteina che ne è bersaglio, conseguenze funzionali diverse (Figura 3.69B).
N
MONOUBIQUITINAZIONE
Lys63
MULTIUBIQUITINAZIONE
POLIUBUQUITINAZIONE
ubiquitina
Lys48
Lys63
Lys48
C
catena laterale
della lisina
della proteina
bersaglio
(A)
HN
O
legame
isopeptidico
regolazione degli istoni
HC
(B)
Figura 3.69 Come l’ubiquitina contrassegna le proteine.
(A) La struttura tridimensionale dell’ubiquitina, una piccola
proteina di 76 amminoacidi. Una famiglia di enzimi specifici
accoppia il suo terminale carbossilico al gruppo amminico
della catena laterale di una lisina nella molecola proteica
bersaglio, formando un legame isopeptidico. (B) Alcuni schemi
di modificazione che hanno significati specifici per la cellula.
endocitosi
degradazione
per mezzo
del proteasoma
riparazione
del DNA
Si noti che i due tipi di poliubiquitinazione differiscono per il
modo in cui le molecole di ubiquitina sono legate tra loro. Il
legame attraverso la Lys48 significa degradazione per mezzo
del proteasoma (vedi Figura 6.84), mentre quello attraverso la
Lys63 ha altri significati. La marcatura mediante ubiquitina è
letta da proteine che riconoscono specificamente ogni tipo di
modificazione.
CAPITOLO
3 Le proteine
165
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Quando un membro differente della famiglia delle ubiquitine, per esempio
SUMO (small ubiquitin-related modifier, piccolo modificatore correlato all’ubiquitina), è attaccato covalentemente alla catena laterale di una lisina delle
proteine bersaglio si formano strutture simili. Non sorprende che tutte queste modificazioni siano reversibili. Le cellule contengono serie di enzimi che
ubiquitinano e deubiquitinano (e sumoilano e desumoilano), che quindi manipolano queste aggiunte covalenti, svolgendo perciò un ruolo analogo alle
proteina chinasi e fosfatasi che aggiungono e rimuovono gruppi fosfato dalle
catene laterali delle proteine.
■ Per contrassegnare le proteine viene usato un elaborato
sistema che coniuga molecole di ubiquitina
Come fanno le cellule a scegliere le proteine bersaglio a cui attaccare le molecole di ubiquitina? Come passaggio iniziale, il terminale carbossilico dell’ubiquitina deve essere attivato. Questo passaggio viene effettuato quando una
proteina chiamata enzima che attiva l’ubiquitina (E1) usa l’energia di idrolisi
dell’ATP per attaccare un’ubiquitina a se stessa mediante un legame covalente ad alta energia (un tioestere). E1 passa questa ubiquitina attivata a uno
di una serie di enzimi che coniugano l’ubiquitina (E2), ognuno dei quali agisce in concerto con una serie di proteine accessorie (E3) chiamate ubiquitina ligasi. Nei mammiferi ci sono circa 30 enzimi E2 diversi ma strutturalmente simili e centinaia di proteine E3 differenti che formano complessi
con specifici enzimi E2.
La Figura 3.70 illustra il processo usato per contrassegnare le proteine per
la degradazione nel proteasoma. [Meccanismi simili sono usati per attaccare
l’ubiquitina (e SUMO) ad altri tipi di proteine bersaglio.] Qui l’ubiquitina ligasi si lega a specifici segnali di degradazione, chiamati degron, presenti nelle
proteine substrato, aiutando quindi E2 a formare una catena di poliubiquitina
legata a una lisina di una proteina substrato. Questa catena di poliubiquitina
presente sulla proteina bersaglio verrà riconosciuta da un recettore specifico
ubiquitina
E1
SH
COO–
SH
E1
enzima
che attiva
l’ubiquitina
E1
ATP
(A)
S
C
O
legame
all’enzima
che coniuga
l’ubiquitina
AMP
+
P P
E1
S
E2
SH
C
O
E2
S
C
O
all’enzima che coniuga
l’ubiquitina attivato
con l’ubiquitina
gruppo amminico ε
sulla catena laterale
della lisina
NH2
NH2
E2
E3
segnale di degradazione
sulla proteina bersaglio
proteina bersaglio
legata all’ubiquitina
ligasi
(B)
E2
E3
prima ubiquitina
della catena
aggiunta
alla proteina bersaglio
Figura 3.70 La marcatura delle proteine con
ubiquitina. (A) Il C-terminale dell’ubiquitina è inizialmente
attivato mediante legame tioestere ad alta energia alla
cisteina di una catena laterale sulla proteina E1. Questa
reazione richiede ATP e procede mediante un intermedio
covalente AMP-ubiquitina. L’ubiquitina attivata su E1,
conosciuta anche come enzima che attiva l’ubiquitina, viene
proteina bersaglio
con la catena
di poliubiquitina
poi trasferita alla cisteina sulla molecola E2. (B) L’aggiunta
di una catena di poliubiquitina alla proteina bersaglio. In
una cellula di mammifero ci sono diverse centinaia di singoli
complessi E2-E3. Le molecole E2 sono chiamate enzimi
che coniugano l’ubiquitina. Le molecole E3 sono definite
ubiquitina ligasi. (Adattata da D.R. Knighton et al., Science
253:407-414, 1991.)
CAPITOLO
3 Le proteine
166
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nel proteasoma, facendo sì che la proteina bersaglio venga distrutta. Ubiquitina ligasi diverse riconoscono segnali di degradazione differenti, indirizzando quindi gruppi distinti di proteine intracellulari alla distruzione, spesso in
risposta a segnali specifici (vedi Figura 6.86).
■ Complessi proteici con parti intercambiabili fanno
un uso efficiente dell’informazione genetica
L’ubiquitina ligasi SCF è un complesso proteico che lega “proteine bersaglio”
diverse in momenti diversi del ciclo cellulare e aggiunge covalentemente molteplici catene di ubiquitina a queste proteine. La sua struttura a forma di C è costituita da cinque subunità proteiche, la più grande delle quali
è una molecola che serve da impalcatura proteica su cui si assembla il resto
della struttura. La struttura sottende un meccanismo notevole (Figura 3.71).
A un’estremità della C si trova un enzima che coniuga ubiquitina E2. All’altra estremità si trova un braccio che lega il substrato, una subunità nota come proteina F-box. Queste due subunità sono separate da uno spazio di circa
5 nm. Quando questo complesso proteico è attivato, la proteina F-box si lega a un sito specifico di una proteina bersaglio e posiziona la proteina nello spazio che separa le due subunità in modo che alcune delle catene late-
proteina F-box
(braccio che lega il substrato)
proteina
adattatrice 2
enzima
che coniuga
il substrato E2
proteina bersaglio
APC/C
ubiquitina
proteina
adattatrice 1
LA PROTEINA BERSAGLIO
SI LEGA
(A)
proteina impalcatura
(cullina)
che lega il substrato
due possibili
bracci che legano
il substrato
(B)
proteina
poliubiquitinata
indirizzata
alla distruzione
(C)
Figura 3.71 La struttura e la modalità di azione di
un’ubiquitina SCF. (A) La struttura del complesso formato
da cinque proteine ubiquitina ligasi che contiene un enzima
che coniuga l’ubiquitina E2. Quattro proteine formano la
porzione E3. La proteina qui indicata come proteina adattatrice
1 è la proteina Rbx1/Hrt1, la proteina adattatrice 2 è la proteina
Skp1 e la cullina è la proteina Cul1. Una delle tante proteine
F-box completa il complesso. (B) Confronto dello stesso
complesso con due bracci che legano il substrato diversi,
rispettivamente le proteine F-box Skp2 (in alto) e b–trCP1
(in basso). (C) Il legame e l’ubiquitinazione di una proteina
bersaglio da parte dell’ubiquitina ligasi SCF. Se, come indicato,
una catena di molecole di ubiquitina è aggiunta alla stessa lisina
sulla proteina bersaglio, quella proteina è contrassegnata per
una rapida distruzione da parte del proteasoma.
ubiquitina ligasi
SCF
che lega E2
10 nm
(D)
(D) Confronto di SCF (in basso) con la struttura a bassa
risoluzione ottenuta mediante microscopia elettronica di
un’ubiquitina ligasi chiamata complesso che promuove
l’anafase (APC/C, in alto) alla stessa scala. L’APC/C è un grande
complesso formato da 15 proteine. Come vedremo nel Capitolo
17, le sue ubiquitinazioni controllano le ultime fasi della mitosi.
Esso è correlato alla lontana a SCF e contiene una subunità
di cullina (in verde) che si trova lungo il lato del complesso
a destra, in questa immagine solo parzialmente visibile. Le
proteine E2 qui non sono mostrate, ma i loro siti di legame sono
indicati in arancione, insieme con i siti di legame del substrato
in viola. (A e B, adattate da G. Wu et al., Mol. Cell 11:14451456, 2003. Per gentile concessione di Elsevier; D, adattata
da P. da Fonseca et al., Nature 470:274-278, 2011. Per gentile
concessione di Macmillan Publishers Ltd.)
CAPITOLO
© 978-88-08-62126-9
rali delle sue lisine entrino in contatto con l’enzima che coniuga l’ubiquitina. Questo enzima può quindi catalizzare l’aggiunta ripetuta di ubiquitina a
queste lisine (vedi Figura 3.71C), producendo una catena di poliubiquitina
che marca la proteina bersaglio per la distruzione rapida in un proteasoma.
In questo modo proteine specifiche sono indirizzate alla distruzione rapida in risposta a segnali specifici, aiutando così a far avanzare il ciclo cellulare
(vedi Capitolo 17). Il momento della distruzione spesso è determinato dalla creazione di uno schema specifico di fosforilazione sulla proteina bersaglio
necessario per il riconoscimento da parte della subunità F-box, e richiede anche l’attivazione di un’ubiquitina ligasi SCF con il braccio appropriato che
lega il substrato. Molti di questi bracci (le subunità F-box) sono intercambiabili nel complesso proteico (vedi Figura 3.71B) e ci sono più di 70 geni umani che li codificano.
Come abbiamo sottolineato in precedenza, una volta che una proteina si
è evoluta con successo, la sua informazione genetica tende a essere duplicata
per produrre una famiglia di proteine correlate. Così, per esempio, non soltanto ci sono molte proteine F-box – che rendono possibile il riconoscimento di serie diverse di proteine bersaglio – ma esiste anche una famiglia di proteine impalcatura (note come culline) che dà origine a una famiglia di ubiquitina ligasi simile a SCF.
Una macchina proteica come la proteina ligasi SCF, con le sue parti intercambiabili, fa un uso parsimonioso dell’informazione genetica delle cellule;
inoltre crea opportunità per una “rapida” evoluzione, considerando che nuove funzioni per l’intero complesso possono evolvere semplicemente producendo una versione alternativa di una delle sue subunità.
Le ubiquitina ligasi formano una famiglia variegata di complessi proteici.
Alcuni di questi complessi sono molto più grandi e compositi dell’SCF, ma le
loro funzioni enzimatiche di base sono le stesse (Figura 3.71D).
■ Una proteina che lega GTP mostra come possano generarsi
grandi movimenti di proteine
La struttura dettagliata ottenuta per uno dei membri della famiglia di proteine
che legano GTP, la proteina EF-Tu, fornisce un valido esempio di come cambiamenti allosterici nella conformazione di una proteina possano produrre
grandi movimenti per mezzo dell’amplificazione di cambiamenti conformazionali piccoli e localizzati. EF-Tu è una molecola abbondante che serve da
fattore di allungamento (da cui EF, elongation factor) nella sintesi proteica (vedi Capitolo 6), caricando ciascuna molecola di amminoacil-tRNA sul ribosoma. EF-Tu contiene un dominio simile a Ras (vedi Figura 3.67) e la molecola di tRNA forma un complesso forte con la forma legata a GTP. Questa molecola di tRNA può trasferire il suo amminoacido alla catena polipeptidica crescente soltanto dopo che il GTP legato a EF-Tu è stato idrolizzato,
permettendo la dissociazione di EF-Tu. Poiché l’idrolisi di GTP è scatenata
da un adattamento corretto del tRNA alla molecola di mRNA sul ribosoma, EF-Tu serve da fattore di assemblaggio che distingue fra accoppiamenti
mRNA-tRNA corretti e non corretti (vedi Figura 6.65).
Il confronto della struttura tridimensionale di EF-Tu nella forma legata a
GTP con quella legata a GDP rivela come avviene il riposizionamento del
tRNA. La dissociazione del gruppo fosfato inorganico (Pi), che segue la reazione GTP → GDP + Pi, provoca uno spostamento di pochi decimi di nanometro nel sito che lega GTP, proprio come fa la proteina Ras. Questo minuscolo movimento, equivalente a pochi diametri di un atomo di idrogeno,
provoca la propagazione di un cambiamento conformazionale lungo un tratto cruciale di a elica, chiamato elica interruttore, nel dominio simile a Ras della
proteina. L’elica interruttore sembra agire come un “chiavistello” che aderisce
a un sito specifico in un altro dominio della molecola, mantenendo la proteina
in una conformazione “chiusa”. Il cambiamento conformazionale innescato
dall’idrolisi di GTP provoca il distacco dell’elica interruttore, permettendo a
domini separati della proteina di ruotare allontanandosi di una distanza di circa 4 nm (Figura 3.72). Ciò rilascia la molecola legata di tRNA, permettendo
all’amminoacido legato di essere usato (Figura 3.73).
3 Le proteine
167
CAPITOLO
3 Le proteine
168
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sito
di legame
del tRNA
GTP
NH2
dominio
1
tRNA
rilasciato
G
P
elica interruttore
dominio
2
HOOC
(A)
(B)
Figura 3.72 Il grande cambiamento conformazionale
in EF-Tu causato dall’idrolisi di GTP. (A e B) La struttura
tridimensionale di EF-Tu con GTP legato. Il dominio in alto
ha una struttura simile alla proteina Ras e l’a elica rossa
è l’elica interruttore, che si sposta dopo l’idrolisi del GTP.
(C) Il cambiamento nella conformazione dell’elica interruttore
nel dominio 1 provoca la rotazione dei domini 2 e 3 come
EF-Tu
amminoacido
legato al tRNA
GTP
G
P
P
idrolisi del GTP
P
P
GDP
legato
sito
di legame
per il GTP
elica
interruttore
dominio
3
(C)
singola unità di circa 90° verso l’osservatore, causando il rilascio
del tRNA che era legato a questa struttura (vedi anche Figura
3.73). (A, adattata da H. Berchtold et al., Nature 365:
126-132, 1993. Con il permesso di Macmillan Publishers Ltd.
B, per gentile concessione di Mathias Sprinzl e Rolf Hilgenfeld.
Codice PDB: 1EFT.)
Da questo esempio si può vedere come le cellule abbiano approfittato di
un semplice cambiamento chimico che avviene sulla superficie di un piccolo dominio proteico per creare un movimento 50 volte più grande. Cambiamenti drastici di forma di questo tipo provocano anche i grandi movimenti
che avvengono nei motori proteici, come vedremo adesso.
■ Motori proteici producono grandi movimenti nelle cellule
tRNA
Figura 3.73 Una molecola di
amminoacil-tRNA legata a EF-Tu. Si
noti come la proteina legata impedisca
l’uso dell’amminoacido legato al
tRNA (verde) per la sintesi proteica
finché l’idrolisi del GTP non innesca i
cambiamenti conformazionali mostrati
nella Figura 3.72C, dissociando il
complesso tRNA-proteina. EF-Tu è
una proteina batterica; tuttavia una
proteina molto simile esiste anche
negli eucarioti, dove viene chiamata
EF-1 (Filmato 3.12 ). (Coordinate
determinate da P. Nissen et al.,
Science 270:1464-1472, 1995.
Codice PDB: 1B23.)
Abbiamo visto come i cambiamenti conformazionali delle proteine abbiano
un ruolo centrale nella regolazione degli enzimi e nella segnalazione cellulare.
Adesso parleremo di proteine la cui funzione principale è quella di muovere
altre molecole. Questi motori proteici generano le forze che provocano la
contrazione muscolare e che permettono alle cellule di strisciare e di nuotare.
I motori proteici sono anche responsabili di movimenti intracellulari su scala
più piccola: aiutano a muovere i cromosomi a estremità opposte della cellula
durante la mitosi (vedi Capitolo 17), a muovere organelli lungo binari molecolari all’interno della cellula (vedi Capitolo 16) e a spostare enzimi lungo un
filamento di DNA durante la sintesi di una nuova molecola di DNA (vedi Capitolo 5).Tutti questi processi fondamentali dipendono da proteine con parti
in movimento che agiscono come macchine che generano forza.
Come funzionano queste macchine? In altre parole, in che modo i cambiamenti di forma delle proteine sono usati per generare movimenti diretti nelle
cellule? Se, per esempio, una proteina deve “camminare” lungo un filo sottile come una molecola di DNA, può farlo subendo una serie di cambiamenti conformazionali, come quelli mostrati nella Figura 3.74. Ma, se non ci fosse
qualcosa che spinge questi cambiamenti in una sequenza ordinata, essi sarebbero perfettamente reversibili e la proteina vagherebbe a caso avanti e indietro lungo il filo. Possiamo vedere questa situazione in un altro modo. Poiché
il movimento direzionale di una proteina rappresenta un lavoro, le leggi della termodinamica (vedi Capitolo 2) richiedono che questo movimento utilizzi energia libera proveniente da qualche altra fonte (altrimenti la proteina
potrebbe essere usata per produrre una macchina del moto perpetuo). Perciò
senza un input di energia la molecola proteica può soltanto vagare senza scopo.
In che modo allora si può rendere unidirezionale la serie di cambiamenti conformazionali? Per indurre l’intero ciclo a procedere in una direzione è
sufficiente rendere irreversibile uno qualunque dei cambiamenti di forma. La
maggior parte delle proteine che sono capaci di camminare in una direzione
per lunghe distanze ottiene questo movimento accoppiando uno dei cambiamenti conformazionali all’idrolisi di una molecola di ATP legata alla protei-
CAPITOLO
3 Le proteine
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Figura 3.74 Una proteina allosterica che “cammina”. Sebbene le sue tre diverse
conformazioni le permettano di vagare a caso avanti e indietro attaccata a un filo o a un
filamento, la proteina non può muoversi uniformemente in un’unica direzione.
na. Il meccanismo è simile a quello appena discusso che determina cambiamenti di forma delle proteine allosteriche mediante idrolisi di GTP. Poiché
una grande quantità di energia libera viene rilasciata quando viene idrolizzato ATP (o GTP), è molto improbabile che la proteina che lega il nucleotide
subisca il cambiamento di forma inverso necessario per muoversi all’indietro,
poiché questo richiederebbe di invertire anche l’idrolisi di ATP aggiungendo
un fosfato ad ADP per formare ATP.
Nel modello mostrato nella Figura 3.75A l’attacco di ATP sposta un motore proteico dalla conformazione 1 alla conformazione 2. L’ATP legato viene quindi idrolizzato per produrre ADP e fosfato inorganico (Pi), provocando
un cambiamento dalla conformazione 2 alla conformazione 3. Infine il rilascio dell’ADP legato e del Pi spinge la proteina di nuovo nella conformazione 1. Poiché la transizione 2 → 3 è prodotta dall’energia fornita dall’idrolisi
di ATP, questa serie di cambiamenti conformazionali è effettivamente irreversibile. Così l’intero ciclo va solo in una direzione, in questo esempio facendo
camminare la proteina continuamente verso destra.
Molti motori proteici generano movimento direzionale tramite l’uso di
un ingranaggio di arresto unidirezionale simile, come la proteina muscolare
miosina, che cammina lungo i filamenti di actina (Figura 3.75B), e le chinesine, che camminano lungo i microtubuli (entrambe trattate nel Capitolo 16).
Questi movimenti possono essere rapidi: alcuni dei motori proteici coinvolti
nella replicazione del DNA (le DNA elicasi) si spingono lungo un filamento
di DNA con velocità fino a 1000 nucleotidi al secondo.
1
2
3
miosina V
actina
1
LEGAME
DI ATP
P
P
A
P
2
Figura 3.75 Come una proteina
IDROLISI
P
A
P
50 nm
(B)
P
3
RILASCIO
A P P
ADP
P
1
(A)
direzione del
movimento
può muoversi in una sola
direzione. (A) Una proteina motrice
allosterica spinta dall’idrolisi di
ATP. La transizione fra tre diverse
conformazioni comprende un
passaggio prodotto dall’idrolisi di
una molecola legata di ATP; si crea
un “ingranaggio unidirezionale” che
rende l’intero ciclo essenzialmente
irreversibile. Mediante cicli ripetuti,
la proteina si muove perciò
continuamente verso destra lungo
il filo. (B) Visualizzazione diretta per
mezzo di un microscopio a forza
atomica ad alta velocità di una
proteina motrice miosina mentre
cammina; il tempo trascorso tra i
diversi passaggi è meno di 0,5 secondi
(vedi Filmato 16.3). (B, adattata da
N. Kodera et al., Nature 468:72-76,
2010. Per gentile concessione di
Macmillan Publishers Ltd.)
CAPITOLO
3 Le proteine
170
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■ Trasportatori legati a membrane imbrigliano energia
per pompare molecole attraverso le membrane
Figura 3.76 Il trasportatore
ABC (ATP-binding cassette), una
macchina proteica che pompa
grandi molecole attraverso una
membrana. (A) Come questa grande
famiglia di trasportatori pompa
molecole all’interno della cellula
batterica. Come indicato, il legame
di due molecole di ATP pinza insieme
le due subunità che legano ATP,
aprendo il canale all’esterno della
cellula. Il legame di una molecola di
substrato nella parte extracellulare
del complesso proteico innesca poi
l’idrolisi di ATP seguita da rilascio di
ADP, che apre il varco citoplasmatico;
la pompa è quindi resettata per un
altro ciclo. (B) Come vedremo nel
Capitolo 11, negli eucarioti avviene
il processo inverso, in cui molecole
di substrato selezionate vengono
pompate fuori dalla cellula. (C) La
struttura di un trasportatore ABC
batterico (vedi Filmato 11.5).
(C, da R.J. Dawson e K.P. Locher,
Nature 443:180-185, 2006. Per
gentile concessione di Macmillan
Publishers Ltd. Codice PDB: 2HYD.)
(A)
Finora abbiamo visto come proteine che vanno incontro a cambiamenti di
forma allosterici possano agire come microprocessori (le chinasi della famiglia
Src), come fattori di assemblaggio (EF-Tu) e come generatori di forza meccanica e di movimento (motori proteici). Le proteine allosteriche possono anche imbrigliare energia derivata dall’idrolisi di ATP, da gradienti ionici o da
processi di trasporto di elettroni per pompare ioni specifici o piccole molecole attraverso una membrana. Consideriamo qui un esempio che sarà affrontato in maggior dettaglio nel Capitolo 11.
I trasportatori ABC (ATP-binding cassette transporters, trasportatori a cassetta che legano ATP) costituiscono una classe importante di pompe proteiche
legate a membrane; negli esseri umani sono codificati da almeno 48 geni diversi. Questi trasportatori funzionano per la maggior parte per esportare molecole idrofobiche dal citoplasma e servono a rimuovere molecole tossiche
sulla superficie della mucosa del tratto intestinale, per esempio, o sulla barriera ematoencefalica. Lo studio dei trasportatori ABC è di grande interesse nella medicina clinica, in quanto la sovrapproduzione di proteine di questa classe
contribuisce alla resistenza delle cellule tumorali agli agenti chemioterapici.
Nei batteri lo stesso tipo di proteine funziona soprattutto per importare nutrienti essenziali nella cellula.
Un tipico trasportatore ABC contiene una coppia di domini che attraversano la membrana uniti a una coppia di domini che legano ATP posti appena sotto la membrana plasmatica. Come in altri esempi che abbiamo osservato, l’idrolisi delle molecole di ATP legate induce cambiamenti conformazionali della proteina, trasmettendo forze che fanno sì che il trasportatore
sposti la sua molecola legata attraverso il doppio strato lipidico (Figura 3.76).
Gli esseri umani hanno inventato molti tipi diversi di pompe meccaniche
e non dovrebbe sorprendere che anche le cellule contengano pompe legate a
membrane che funzionano in altri modi. Le più notevoli sono le pompe rotanti che accoppiano l’idrolisi di ATP al trasporto di ioni H+ (protoni). Queste
UN TRASPORTATORE ABC BATTERICO
(C)
piccola molecola
CITOSOL
ATP
domini
ad attività
ATPasica
(B)
ATP
2 ADP + Pi
2 ATP
UN TRASPORTATORE ABC EUCARIOTICO
CITOSOL
domini
ad attività
ATPasica
piccola molecola
ATP
2 ATP
ATP
2 ADP + Pi
CAPITOLO
3 Le proteine
171
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pompe assomigliano a turbine in miniatura e sono usate per acidificare l’interno dei lisosomi e di altri organelli eucariotici. Come altre pompe ioniche
che creano gradienti ionici, esse possono funzionare in senso contrario per
catalizzare la reazione ADP + Pi → ATP, se esiste un gradiente abbastanza ripido attraverso la membrana dello ione che trasportano.
Una di queste pompe, l’ATP sintasi, imbriglia un gradiente di concentrazione di protoni originato da processi di trasporto di elettroni per produrre la
maggior parte dell’ATP usato nel mondo vivente. Questa pompa ubiquitaria
ha un ruolo centrale nella conversione dell’energia; tratteremo la sua struttura tridimensionale e il suo meccanismo nel Capitolo 14.
■ Le proteine spesso formano grandi complessi
che funzionano come macchine proteiche
Le grandi proteine formate da molti domini sono in grado di svolgere funzioni più elaborate delle proteine piccole a singolo dominio. I compiti più
importanti, tuttavia, sono eseguiti da grandi complessi proteici formati da
molte molecole proteiche. Ora che è possibile ricostruire la maggior parte
dei processi biologici in sistemi acellulari in laboratorio è chiaro che tutti
i processi centrali di una cellula – come replicazione del DNA, sintesi proteica, gemmazione di vescicole o segnalazione transmembrana – sono catalizzati da una serie connessa e altamente coordinata di dieci o più proteine.
Nella maggior parte di queste macchine proteiche una reazione energeticamente favorevole come l’idrolisi di nucleosidi trifosfato legati (ATP o GTP) induce una serie ordinata di cambiamenti conformazionali in una o più subunità proteiche singole, rendendo l’insieme di proteine capace di muoversi
in modo coordinato. Pertanto ciascuno degli enzimi appropriati può essere
posto direttamente nella posizione in cui è necessario per svolgere reazioni successive in serie (Figura 3.77). È questo che avviene, per esempio, nella sintesi proteica su un ribosoma (vedi Capitolo 6), o nella replicazione del
DNA, dove un grande complesso multiproteico si muove rapidamente lungo il DNA (vedi Capitolo 5).
Le cellule hanno evoluto macchine proteiche per la stessa ragione per cui
gli esseri umani hanno inventato macchine meccaniche ed elettroniche. Per
eseguire pressoché ogni compito, manipolazioni coordinate temporalmente e
spazialmente sono molto più efficienti dell’uso sequenziale di singoli utensili.
ATP
ATP
ATP
ATP
■ Impalcature proteiche concentrano gruppi di proteine
che interagiscono tra loro
Man mano che sono diventati noti sempre più dettagli della biologia cellulare, i ricercatori hanno riconosciuto gradi di complessità sempre maggiore
della chimica cellulare. Quindi oggi non soltanto sappiamo che le macchine
proteiche svolgono un ruolo predominante, ma di recente è diventato chiaro che la maggior parte di queste macchine si forma in siti cellulari specifici
e viene assemblata e attivata soltanto dove e quando è necessario. Per esempio, quando molecole di segnale extracellulari si legano a recettori proteici
nella membrana plasmatica, i recettori attivati spesso reclutano un gruppo di
altre proteine sulla faccia interna della membrana plasmatica per formare un
grande complesso proteico che trasmette oltre il segnale (vedi Capitolo 15).
Questi meccanismi spesso coinvolgono proteine impalcatura. Queste
sono proteine con siti di legame per molte altre proteine e servono sia per legare insieme specifici gruppi di proteine che interagiscono tra di loro sia per
ADP Pi
ADP + Pi
Pi ADP
ADP + Pi
Figura 3.77 Come “macchine proteiche” svolgono funzioni complesse. Queste
macchine sono formate da singole proteine che collaborano per eseguire un compito
). Il movimento di queste proteine è spesso coordinato
specifico (Filmato 3.13
dall’idrolisi di un nucleotide legato come l’ATP o il GTP. Cambiamenti conformazionali
allosterici direzionali di proteine che sono indotti in questo modo si verificano spesso
in grandi raggruppamenti proteici in cui le attività di numerose proteine differenti sono
coordinate da tali movimenti all’interno del complesso.
CAPITOLO
3 Le proteine
172
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regione
non strutturata
proteina impalcatura
collisioni
rapide
dominio
strutturato
Figura 3.78 La vicinanza creata da
proteine impalcatura può rendere
molto più veloci le reazioni in una
cellula. In questo esempio lunghe
regioni non strutturate di catena
polipeptidica in una grande proteina
impalcatura collegano una serie di
domini strutturati che legano una serie
di proteine che reagiscono tra di loro.
Le regioni non strutturate servono da
“guinzagli” flessibili che aumentano
molto la velocità di reazione,
causando una rapida collisione casuale
di tutte le proteine che sono legate
all’impalcatura. (Per esempi specifici
di proteine guinzaglio, vedi Figura
3.54 e Figura 16.18; per molecole
impalcatura di RNA vedi Figura 7.49B.)
+
prodotto
proteine
reagenti
impalcatura
pronta per il riutilizzo
posizionarle in specifici siti all’interno della cellula. A un estremo ci sono impalcature rigide, come la cullina nell’ubiquitina chinasi SCF (vedi Figura 3.71),
all’estremo opposto ci sono grandi e flessibili proteine impalcatura che spesso si trovano in corrispondenza di regioni specializzate della membrana plasmatica. Queste comprendono la Discs-large protein (Dlg), una proteina di circa 900 amminoacidi che è concentrata in regioni specifiche al di sotto della
membrana nelle cellule epiteliali e nelle sinapsi. Dlg contiene siti di legame
per almeno altre sette proteine, intervallati da regioni di catena polipeptidica
più flessibile. Dlg è una proteina antica, conservata in organismi molto diversi, come spugne, vermi, mosche ed esseri umani; il suo nome deriva dal fenotipo mutante dell’organismo in cui è stata scoperta. Le cellule nei dischi immaginali di un embrione di Drosophila con una mutazione nel gene Dlg non
smettono di proliferare quando dovrebbero, producendo dischi insolitamente
grandi le cui cellule epiteliali possono formare tumori.
Sebbene siano state studiate solo parzialmente, si pensa che Dlg e numerose
proteine impalcatura simili funzionino come la proteina che è illustrata schematicamente nella Figura 3.78. Legando un gruppo specifico di proteine che
interagiscono, queste impalcature possono aumentare la velocità di reazioni
cruciali e allo stesso tempo confinarle nella particolare regione della cellula in
cui si trova l’impalcatura. Per ragioni simili le cellule fanno largo uso anche di
molecole impalcatura di RNA, come vedremo nel Capitolo 7.
■ Molte proteine sono controllate da modificazioni covalenti
che le indirizzano in siti specifici all’interno della cellula
Finora abbiamo descritto soltanto un tipo di modificazione post-traduzionale delle proteine, ma esiste un numero elevato di altre modificazioni di questo genere; al momento se ne conoscono più di 200 tipi distinti. Per dare un
senso a questa varietà la Tabella 3.3 presenta una sottoserie di gruppi modificatori con ruoli regolatori noti. Come nel caso dell’aggiunta di fosfato e di
ubiquitina, questi gruppi sono aggiunti e rimossi dalle proteine secondo le
necessità della cellula.
TABELLA 3.3 Alcune molecole attaccate covalentemente alle proteine che regolano la funzione proteica
Gruppo modificatore
Alcune funzioni rilevanti
Fosfato su Ser, Thr o Tyr
Induce l’assemblaggio di una proteina in complessi più grandi (vedi Figura 15.11)
Metile su Lys
Aiuta a creare il codice istonico nella cromatina formando mono-, di- o trimetil lisina
negli istoni (vedi Figura 4.36)
Acetile su Lys
Aiuta ad attivare i geni nella cromatina modificando gli istoni (vedi Figura 4.33)
Gruppo palmitile su Cys
Questa aggiunta di un acido grasso determina l’associazione della proteina con la
membrana (vedi Figura 10.18)
N-Acetilglucosammina su Ser o Thr
Controlla l’attività enzimatica e l’espressione genica nell’omeostasi del glucosio
Ubiquitina su Lys
L’aggiunta di monoubiquitina regola il trasporto di proteine di membrana nelle vescicole
(vedi Figura 13.50)
Una catena di poliubiquitina indirizza una proteina per la degradazione (vedi Figura
3.70)
L’ubiquitina è un polipeptide di 76 amminoacidi; esistono almeno altre 10 proteine correlate all’ubiquitina nelle cellule di mammifero.
CAPITOLO
3 Le proteine
173
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(A)
UNA SERIE DI MODIFICAZIONI COVALENTI PRODUCE UN CODICE REGOLATORE PROTEICO
SEGNALI MOLECOLARI DETERMINANO L’AGGIUNTA DI MODIFICAZIONI COVALENTI
e/o
e/o
N
e/o
e/o
C
PROTEINA X
LETTURA DEL CODICE
LEGAME
ALLE
PROTEINE
YEZ
(B)
o SPOSTAMENTO o
NEL
NUCLEO
SPOSTAMENTO
SPOSTAMENTO
NEL PROTEASOMA o
NELLA
PER
MEMBRANA
LA DEGRADAZIONE
PLASMATICA
ALCUNE MODIFICAZIONI CONOSCIUTE DELLA PROTEINA p53
C
N
50 amminoacidi
P
fosfato
Ac
acetile
U
ubiquitina
Oggi conosciamo moltissime proteine che sono modificate su più di una
catena laterale di un amminoacido, in cui eventi regolatori diversi producono uno schema diverso di modificazioni. Un esempio notevole è la proteina p53, che ha un ruolo centrale nel controllo della risposta di una cellula a circostanze avverse (vedi Figura 17.62). Tramite uno di quattro tipi diversi di aggiunte molecolari, questa proteina può essere modificata in 20 siti differenti. Poiché è possibile un numero altissimo di combinazioni diverse di queste 20 modificazioni, in linea di principio il comportamento della
proteina può essere alterato in molteplici modi. Spesso queste modificazioni creano un sito nella proteina modificata che ne permette il legame a una
proteina impalcatura in una regione specifica della cellula, connettendola
quindi – per mezzo dell’impalcatura – ad altre proteine necessarie per una
certa reazione in quel sito.
La serie di modificazioni covalenti a cui va incontro ciascuna proteina può
essere vista come un codice regolatore combinatorio. Gruppi modificatori specifici sono rimossi o aggiunti a una proteina in risposta a segnali e questo codice
successivamente altera i comportamenti della proteina, cambiando l’attività o
la stabilità della proteina, i suoi partner di legame e/o la sua posizione specifica all’interno della cellula (Figura 3.79). Come risultato, la cellula è in grado
di rispondere rapidamente e con grande versatilità ai cambiamenti delle sue
condizioni o a quelli dell’ambiente.
■ Una rete complessa di interazioni fra proteine è alla base
del funzionamento della cellula
Esistono molte sfide per i biologi in questa era ricca di informazioni, in cui
sono note le sequenze complete di molti genomi. Una è la necessità di sezionare e ricostruire ciascuna delle migliaia di macchine proteiche presenti in un
organismo come il nostro. Per comprendere questi notevoli complessi proteici ognuno di essi deve essere ricostituito dalle sue parti purificate, così da
poter studiare i dettagli del suo modo di operare in condizioni controllate in
provetta, libero da altri componenti cellulari. Già questa è da sola un’impresa
imponente. Ma oggi sappiamo che ciascuno di questi subcomponenti di una
cellula interagisce anche con altre serie di macromolecole, creando una grande rete di interazioni proteina-proteina e proteina-acido nucleico nella cel-
SUMO
Figura 3.79 Modificazioni in
siti multipli delle proteine e loro
effetti. (A) Si può considerare che
una proteina con un’aggiunta posttraduzionale a più di una catena
laterale dei suoi amminoacidi abbia
un codice regolatore combinatorio.
Modificazioni in siti multipli sono
aggiunte a (e rimosse da) una proteina
attraverso reti di segnalazione:
il risultante codice regolatore
combinatorio sulla proteina viene letto
per alterare il suo comportamento
nella cellula. (B) Lo schema di alcune
modificazioni covalenti della proteina
p53.
CAPITOLO
3 Le proteine
174
Figura 3.80 Una rete di
interazioni di legame fra proteine
in una cellula di lievito. Ciascuna
linea che connette una coppia di
punti (proteine) indica un’interazione
proteina-proteina. (Da A. Guimerá e
M. Sales-Pardo, Mol. Syst. Biol. 2:42,
2006. Con il permesso di Macmillan
Publishers Ltd.)
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lula. Per comprendere la cellula, perciò, bisogna analizzare anche la maggior
parte di queste altre interazioni.
Un’idea della complessità delle reti di proteine intracellulari può essere
ottenuta da un esempio particolarmente ben studiato descritto nel Capitolo
16: le molte proteine che interagiscono con il citoscheletro di actina per controllare il comportamento del filamento di actina (vedi Quadro 16.3, p. 963).
Il grado di queste interazioni proteina-proteina può essere stimato anche
in modo più generale. Un’enorme quantità di informazioni preziose è oggi
disponibile liberamente nei database delle proteine consultabili in Internet:
decine di migliaia di strutture tridimensionali di proteine più decine di milioni di sequenze proteiche derivate dalle sequenze nucleotidiche dei geni. I
ricercatori stanno sviluppando nuovi metodi per attingere a questa grande risorsa e aumentare la conoscenza delle cellule. In particolare, si stanno combinando strumenti bioinformatici basati su computer con tecnologie robotiche
e altre tecnologie per permettere di studiare in una singola serie di esperimenti migliaia di proteine. Proteomica è un termine usato spesso per indicare questa ricerca che si concentra sull’analisi su larga scala delle proteine, in
analogia con il termine genomica, che indica l’analisi su larga scala di sequenze di DNA e di geni.
Un metodo biochimico basato sulla marcatura di affinità e sulla spettrometria di massa si è dimostrato particolarmente efficace nel determinare le interazioni di legame diretto tra le molte diverse proteine presenti all’interno di
una cellula (vedi Capitolo 8). I risultati sono stati tabulati e organizzati in database disponibili in Internet. Ciò permette a un biologo che studia una piccola serie di proteine di scoprire facilmente a quali altre proteine della stessa
cellula si pensa che si leghi, e quindi interagisca, quella serie di proteine. I dati vengono rappresentati graficamente in una mappa di interazione fra proteine,
in cui ciascuna proteina è indicata da un punto o da un quadrato in una rete
bidimensionale, con linee rette che connettono quelle proteine di cui è stata
dimostrata l’interazione diretta.
Quando sulla stessa mappa sono mostrate centinaia o migliaia di proteine,
il diagramma a rete diventa straordinariamente complicato e serve a illustrare le enormi sfide che si trovano davanti gli scienziati che cercano di capire il
funzionamento della cellula (Figura 3.80). Sono più utili sottosezioni di queste
mappe, incentrate su poche proteine di interesse.
Abbiamo precedentemente descritto la struttura e la modalità d’azione
dell’ubiquitina ligasi SCF, usandola per illustrare il modo in cui i complessi
proteici sono costruiti a partire da parti intercambiabili (vedi Figura 3.71).
La Figura 3.81 mostra una rete di interazioni proteina-proteina per le cinque proteine che formano l’ubiquitina ligasi SCF in una cellula di lievito.
Quattro subunità di questa ligasi sono poste in fondo a destra in questa figura, mentre la subunità rimanente, la proteina F-box che serve da braccio che
lega il substrato, compare come una serie di 15 prodotti genici diversi che si
legano alla proteina adattatrice 2 (la proteina Skp1). Lungo la parte in alto a
sinistra della figura si trovano serie di ulteriori interazioni fra proteine marcate con un’ombreggiatura gialla e verde: come indicato, queste serie di proteine funzionano in corrispondenza dell’origine di replicazione del DNA,
nella regolazione del ciclo cellulare, nella sintesi della metionina, nel cinetocore e nel complesso della H+-ATPasi vacuolare. Useremo questa figura per
spiegare il modo in cui si utilizzano queste mappe di interazioni fra proteine, che cosa significano e che cosa non significano.
1. Le mappe di interazioni fra proteine sono utili per identificare la funzione probabile di proteine non caratterizzate in precedenza. Esempi sono i
prodotti dei geni la cui esistenza è stata postulata finora soltanto in base alla sequenza del genoma di lievito, che sono le sei proteine nella figura prive di una semplice abbreviazione a tre lettere (lettere bianche che iniziano
con Y). Le tre nel diagramma sono proteine F-box che si legano a Skp1; è
quindi probabile che queste funzionino come parte dell’ubiquitina ligasi,
servendo da bracci che legano il substrato che riconoscono proteine bersaglio diverse. Tuttavia, come vedremo adesso, nessuna delle due assegnazioni può essere considerata certa senza ulteriori dati.
CAPITOLO
3 Le proteine
175
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ORIGINE DI REPLICAZIONE
REGOLATORI DEL CICLO CELLULARE
Orc2
Orc1
Swe1
Orc3
Cdc28
Orc6
Cks1
SINTESI DELLA METIONINA
Orc5
Sic1
Cdc5
Cli1
Met31
Orc4
Cli2
Met32
Rpt1
Erd3
Met4
Met28
Yak1
Dla2
CINETOCORE
Ufb1
Rcy1
Grr1
Cdc4
Cdc34
YLR224W
Okp1
enzima che
coniuga
l’ubiquitina E2
Hrt3
Mit2
Ctf19
Cbf1
Cep3
Cbf2
Skp2
proteine
F-box
YDR131
Me130
YDR306
Mdm30
Mcm21
Mck1
Das1
Ctfl3
Hrt1
proteina
adattatrice 1
Vma4
Vma8
Tfp1
Ram2
Skp1
Ram1
Vma2
COMPLESSO DELLA
H -ATPasi VACUOLARE
proteina
adattatrice 2
Cdc53
proteina impalcatura
(cullina)
+
2. Le reti di interazioni fra proteine devono essere interpretate con cautela
perché, come risultato dell’uso efficiente dell’informazione genetica di
ciascun organismo prodotto dall’evoluzione, la stessa proteina può essere usata come parte di due complessi proteici diversi che hanno tipi diversi di funzioni. Così, anche se la proteina A si lega alla proteina B e la
proteina B si lega alla proteina C, non è detto che le proteine A e C funzionino nello stesso processo. Per esempio, sappiamo da studi biochimici
dettagliati che le funzioni di Skp1 nel cinetocore e nel complesso della
H+-ATPasi vacuolare (ombreggiatura gialla) sono separate dalla sua funzione nell’ubiquitina ligasi SCF. In effetti soltanto le tre funzioni rimanenti
di Skp1 illustrate nello schema – sintesi della metionina, regolazione del
ciclo cellulare e origine di replicazione (ombreggiatura verde) – comportano ubiquitinazione.
3. Nei confronti fra specie quelle proteine che mostrano schemi simili di interazioni nelle due mappe di interazioni fra proteine hanno probabilmente
la stessa funzione nella cellula. Così, man mano che i ricercatori produrranno mappe sempre più dettagliate per organismi multipli, i risultati diventeranno sempre più utili per dedurre la funzione delle proteine. Questi confronti fra mappe sono uno strumento particolarmente utile per decifrare le funzioni delle proteine umane. Esiste una grande quantità di informazioni dirette sulla funzione delle proteine che si possono ottenere
dalle analisi d’ingegneria genetica, mutazionali e genetiche in organismi
modello – come lievito, vermi e mosche – che non è disponibile per gli
esseri umani.
Che cosa ci riserverà il futuro? In una tipica cellula umana molto probabilmente il numero delle differenti proteine presenti è dell’ordine di 10 000:
ciascuna di esse interagisce con un numero di partner diversi che va da 5 a 10.
Figura 3.81 Una mappa di alcune
interazioni proteina-proteina
dell’ubiquitina ligasi SCF e di altre
proteine nel lievito S. cerevisiae. I
simboli e/o i colori usati per le cinque
proteine della ligasi sono quelli
della Figura 3.71. Si noti che sono
mostrate 15 diverse proteine F-box
(viola); quelle con lettere bianche (che
iniziano con Y) sono note soltanto
dalla sequenza del genoma come
quadri di lettura aperti. Per ulteriori
dettagli vedi il testo. (Per gentile
concessione di Peter Bowers e David
Eisenberg, UCLA-DOE Institute for
Genomics and Proteomics, UCLA.)
CAPITOLO
3 Le proteine
176
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Nonostante l’enorme progresso fatto negli ultimi anni non possiamo affermare di aver compreso il funzionamento anche della più semplice cellula conosciuta, come il piccolo batterio Mycoplasma formato soltanto da circa 500
prodotti genici (vedi Figura 1.10). Come pensiamo allora di poter comprendere un essere umano? Ovviamente sarà essenziale una gran mole di esperimenti biochimici affinché ogni proteina di un particolare gruppo di proteine che interagiscono tra loro sia purificata, e le caratteristiche chimiche e le
interazioni possano essere analizzate in provetta. Inoltre saranno necessari sistemi più potenti per analizzare le reti, basati su metodi matematici e computazionali non ancora inventati, come metteremo in evidenza nel Capitolo 8.
Chiaramente ci sono molte meravigliose sfide che attendono le generazioni
future di biologi cellulari.
QUELLO CHE
NON SAPPIAMO
• Quali sono le funzioni della
catena polipeptidica non ripiegata
presente nelle proteine in quantità
sorprendentemente elevata?
• Quanti tipi di funzioni proteiche
restano da scoprire? Quali sono gli
approcci più promettenti per scoprirle?
• Quando gli scienziati saranno in
grado di prevedere accuratamente
sia le conformazioni tridimensionali
di una proteina che le sue proprietà
chimiche a partire da una qualsiasi
sequenza di amminoacidi? Quale passo
avanti fondamentale è necessario per
raggiungere questo obiettivo?
• Ci sono modi per rivelare i dettagli dei
meccanismi di funzionamento di una
macchina proteica che non richiedano
la purificazione in grande quantità di
ognuna delle sue parti componenti,
in modo tale che le funzioni della
macchina possano essere ricostituite ed
esaminate usando tecniche chimiche in
una provetta?
• Quali sono i ruoli delle decine di
tipi diversi di modificazioni covalenti
di proteine che sono stati trovati in
aggiunta a quelli elencati nella Tabella
3.3? Quali sono cruciali per la funzione
della cellula e perché?
• Perché l’amiloide è tossico per
le cellule e come contribuisce alle
patologie neurodegenerative come la
malattia di Alzheimer?
SOMMARIO Le proteine possono formare dispositivi chimici estremamente
sofisticati, le cui funzioni dipendono in gran parte dalle proprietà chimiche dettagliate
delle loro superfici. I siti di legame per i ligandi si formano come cavità della
superficie in cui catene laterali di amminoacidi precisamente posizionate vengono
a trovarsi vicine per il ripiegamento della proteina. In questo modo catene laterali
di amminoacidi normalmente non reattive possono essere indotte a formare e a
rompere legami covalenti. Gli enzimi sono proteine catalitiche che accelerano di
molto le velocità di reazione legando gli stati di transizione ad alta energia di una
specifica via di reazione; essi svolgono simultaneamente anche catalisi acida e catalisi
basica. Le velocità delle reazioni enzimatiche sono spesso così alte che sono limitate
soltanto dalla diffusione; le velocità possono essere ulteriormente aumentate se
gli enzimi che agiscono sequenzialmente su un substrato sono uniti in un singolo
complesso multienzimatico, o se gli enzimi e i loro substrati attaccati a impalcature
proteiche sono confinati nello stesso compartimento della cellula.
Le proteine cambiano reversibilmente forma quando dei ligandi si legano alla loro
superficie. I cambiamenti allosterici nella conformazione di una proteina prodotti
da un ligando influenzano l’attacco di un secondo ligando; questo linkage fra due
siti per ligandi fornisce un meccanismo cruciale per regolare processi cellulari. Le vie
metaboliche, per esempio, sono controllate da regolazione a feedback: alcune piccole
molecole inibiscono e altre piccole molecole attivano enzimi all’inizio di una via.
Gli enzimi controllati in questo modo formano generalmente complessi simmetrici,
permettendo a cambiamenti cooperativi di conformazione di creare una risposta
rapida a cambiamenti nelle concentrazioni dei ligandi che li regolano.
Cambiamenti nella forma di una proteina possono essere indotti in maniera
unidirezionale dalla spesa di energia chimica. Accoppiando cambiamenti allosterici
di forma all’idrolisi di ATP, per esempio, le proteine possono svolgere un lavoro utile,
come generare una forza meccanica o muoversi per lunghe distanze in una singola
direzione. Le strutture tridimensionali delle proteine hanno rivelato come un piccolo
cambiamento locale causato dall’idrolisi di un nucleoside trifosfato venga amplificato
per creare cambiamenti importanti altrove nella proteina. Con questi mezzi, queste
proteine possono servire da dispositivi input-output che trasmettono informazioni,
come fattori di assemblaggio, come motori o come pompe legate a membrane.
Macchine proteiche altamente efficienti si formano incorporando molte proteine
diverse in complessi più grandi in cui i movimenti allosterici dei singoli componenti
sono coordinati. Oggi si sa che queste macchine svolgono molte delle reazioni più
importanti nelle cellule.
Le proteine sono sottoposte a molte modificazioni post-traduzionali reversibili, come
l’aggiunta covalente di un fosfato o di un gruppo acetilico alla catena laterale di un
amminoacido. L’aggiunta di questi gruppi modificatori è usata per regolare l’attività
di una proteina, cambiandone la conformazione, il legame ad altre proteine e la
posizione all’interno della cellula. In una cellula una tipica proteina interagisce con più
di cinque partner diversi. Usando la proteomica i biologi possono analizzare migliaia
di proteine in una serie di esperimenti. Un risultato importante è la produzione di
mappe dettagliate di interazioni fra proteine, che permetteranno di descrivere tutte
le interazioni di legame fra le migliaia di proteine diverse presenti in una cellula.
Tuttavia, conoscere queste reti richiederà nuove indagini biochimiche in cui piccoli
gruppi di proteine che interagiscono tra loro possano essere purificati e la loro chimica
possa essere analizzata in dettaglio. Inoltre saranno necessarie nuove tecniche
computazionali per poter gestire questa enorme complessità di dati. ●
CAPITOLO
3 Le proteine
177
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PROBLEMI
Quali affermazioni sono vere? Spiegate perché sì o
perché no.
3.1 Ciascun filamento di un foglietto b è un’elica con
due amminoacidi per giro.
ra nota come elica b. Di solito essa si trova ripetuta da
quattro a sette volte, formando un dominio di ripetizioni kelch in una proteina multidominio. Uno di questi domini di ripetizioni kelch è mostrato nella Figura
P3.1. Classifichereste questo dominio come “in linea” o
come “a spina”?
3.2 Le regioni intrinsecamente non strutturate delle
β7
proteine possono essere identificate usando metodi bioinformatici per cercare geni che codificano sequenze
amminoacidiche che hanno un’idrofobicità alta e una
carica netta bassa.
C
β6
N
β1
β5
3.3 Le anse polipeptidiche che sporgono dalla super-
ficie di una proteina formano spesso siti di legame per
altre molecole.
β2
3.4 Un enzima raggiunge una velocità massima ad alta
β4
concentrazione di substrato perché ha un numero fisso
di siti attivi a cui si lega il substrato.
β3
un numero di turnover maggiore.
Figura P3.1 Il dominio ripetuto kelch della galattosio ossidasi
di D. dendroides (Problema 3.10). Le sette eliche b sono
contraddistinte in colore ed etichettate. L’N- e il C-terminale
sono indicati con N e C.
3.6 Gli enzimi che subiscono transizioni allosteriche
3.11 La titina, che ha un peso molecolare di 3 3 106, è
cooperative sono costituiti invariabilmente da assemblaggi simmetrici di subunità multiple.
il polipeptide più grande descritto finora. Le molecole di titina si estendono dai filamenti spessi del muscolo fino al disco Z; si pensa che esse agiscano da molle
per mantenere i filamenti spessi centrati nel sarcomero.
La titina è composta da numerose sequenze immunoglobuliniche (Ig) ripetute di 89 amminoacidi, ciascuna delle quali è ripiegata in un dominio lungo circa 4
nm (Figura P3.2A).
3.5 Concentrazioni più alte di enzima danno origine a
3.7 L’aggiunta e la rimozione continua di fosfati da par-
te di proteina chinasi e proteina fosfatasi rappresentano
uno spreco di energia – poiché la loro azione combinata consuma ATP – ma si tratta di una conseguenza necessaria dell’efficace regolazione mediante fosforilazione.
Discutete i seguenti problemi.
(A)
N
C
3.8 Considerate la seguente affermazione:“Per produrre
3.9 Una strategia comune per identificare proteine cor-
relate a distanza è quella di cercare nel database usando
una breve sequenza firma indicativa della funzione della particolare proteina. Perché è meglio cercare con una
sequenza breve anziché con una sequenza lunga? Non
ci sarebbero più probabilità di “fare centro” nel database con una sequenza lunga?
3.10 Il cosiddetto motivo kelch è costituito da un fo-
glietto b a quattro filamenti, che forma una struttu-
(B)
400
forza (pN)
una molecola di ciascuna specie possibile di catena polipeptidica, lunga 300 amminoacidi, ci vorrebbero più atomi di quanti ne esistano nell’universo”. Date le dimensioni dell’universo, supponete che questa affermazione possa essere corretta? Poiché non è facile contare gli atomi,
considerate il problema dal punto di vista della massa. La
massa dell’universo osservabile è stimata intorno a 1080
grammi, un ordine di grandezza in più o in meno. Considerando che la massa media di un amminoacido è 110
dalton, quale sarebbe la massa di una molecola di ciascun
tipo possibile di catena polipeptidica lunga 300 amminoacidi? È maggiore della massa dell’universo?
300
200
100
0
0
50
100
150
200
estensione (nm)
Figura P3.2 Il comportamento a molla della titina (Problema
3.11). (A) La struttura di un singolo dominio Ig. (B) Forza in
piconewton in rapporto all’estensione in nanometri ottenuta
tramite il microscopio a forza atomica.
Supponete che il comportamento a molla della titina sia causato dall’estensione (e dal ripiegamento) sequenziale di singoli domini Ig. Controllate questa ipotesi usando il microscopio a forza atomica, che vi permette di afferrare un’estremità di una molecola proteica e di tirarla con una forza misurata accuratamente. Per
un frammento di titina contenente sette ripetizioni del
CAPITOLO
3 Le proteine
178
3.12 Il virus del sarcoma di Rous (RSV) contiene un
oncogene chiamato Src, che codifica una proteina chinasi continuamente attiva che causa proliferazione cellulare incontrollata. Normalmente Src ha un acido grasso
(miristilato) attaccato che le permette di legarsi al lato
citoplasmatico della membrana plasmatica. Una versione mutante di Src che non permette l’attacco del miristilato non si lega alla membrana. L’infezione di cellule
con RSV che codifica la forma normale o quella mutante di Src porta allo stesso alto livello di attività tirosina chinasica, ma Src mutante non provoca proliferazione cellulare.
A. Considerando che Src normale sia tutta legata alla
membrana plasmatica e che la forma mutante di Src
sia distribuita in tutto il citoplasma, calcolate le loro
concentrazioni relative nelle vicinanze della membrana plasmatica. Per questo calcolo, considerate che
la cellula sia una sfera con un raggio (r) di 10 mm e
che Src mutante sia distribuita ovunque, mentre Src
normale sia confinata in uno strato spesso 4 nm immediatamente sotto la membrana. [Per questo problema assumete che la membrana non abbia spessore. Il volume di una sfera è (4/3)pr3.]
B. Il bersaglio (X) della fosforilazione da parte di Src si
trova nella membrana. Spiegate perché Src mutante
non provoca proliferazione cellulare.
3.13 Un anticorpo si lega a un’altra proteina con una
costante di equilibrio, K, di 5 3 109 M–1. Quando si lega a una seconda proteina correlata, esso forma tre legami idrogeno in meno, riducendo la sua affinità di legame di 11,9 kJ/mole. Qual è la K per il legame alla seconda proteina? (Il cambiamento in energia libera è correlato alla costante di equilibrio dall’equazione ∆G° =
–2,3 RT log K, in cui R è 8,3 3 10–3 kJ/(mole K) e T
è 310 K.)
Figura P3.3
1,0
frazione legata
dominio Ig, questo esperimento dà la curva a forma di
denti di sega, forza in rapporto a estensione, mostrata
nella Figura P3.2B. Quando l’esperimento è ripetuto in
una soluzione di urea 8 M (un denaturante delle proteine), i picchi scompaiono e l’estensione misurata diventa molto maggiore per una data forza. Se l’esperimento
è ripetuto dopo che nella proteina sono stati prodotti
legami crociati mediante trattamento con glutaraldeide,
di nuovo i picchi scompaiono, ma l’estensione diventa
molto minore per una data forza.
A. I dati sono in accordo con la vostra ipotesi che il
comportamento a molla della titina sia dovuto all’estensione sequenziale di singoli domini Ig? Spiegate
il vostro ragionamento.
B. L’estensione per ciascun evento putativo di svolgimento è della grandezza attesa? (In una catena polipeptidica estesa gli amminoacidi si trovano spaziati
di 0,34 nm.)
C. Perché ogni picco successivo della Figura P3.2B è
leggermente più alto del precedente?
D. Perché la forza collassa così bruscamente dopo ciascun picco?
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Frazione di tmRNA
legato contro
concentrazione di
SmpB (Problema
3.14).
0,75
0,5
0,25
0
10–11
10–9
10–7
concentrazione di SmpB (M)
10–5
plete prodotte da mRNA tronchi nei batteri. Se il legame di SmpB al tmRNA è messo in grafico come la frazione di tmRNA legato in rapporto alla concentrazione di SmpB, si ottiene una curva simmetrica a forma di
S come mostrato nella Figura P3.3. Questa curva è la visualizzazione di una relazione molto utile fra Kd e concentrazione, che ha una vasta applicabilità. L’espressione generale per la frazione di ligando legato è derivata
dall’equazione per Kd (Kd = [Pr][L]/[Pr-L]) sostituendo ([L]TOT – [L]) a [Pr-L] e riordinando. Poiché la concentrazione totale di ligando ([L]TOT) è uguale al ligando libero ([L]) più il ligando legato ([Pr-L]),
la frazione legata = [Pr-L]/[L]TOT = [Pr]/([Pr] + Kd)
Per SmpB e tmRNA, la frazione legata = [SmpBtmRNA]/[tmRNA]TOT = [SmpB]/([SmpB] + Kd).
Usando questa relazione, calcolate la frazione di tmRNA
legato per concentrazioni di SmpB uguali a 104, 103, 102,
101, 1, 10–1,10–2, 10–3 e 10–4 Kd.
3.15 Molti enzimi obbediscono alla cinetica semplice
di Michaelis-Menten, riassunta dall’equazione
velocità = Vmax [S]/([S] + Km)
in cui Vmax = velocità massima, [S] = concentrazione
del substrato e Km = costante di Michaelis.
È istruttivo inserire qualche valore di [S] nell’equazione per vedere come viene influenzata la velocità.
Quali sono le velocità per [S] uguale a zero, uguale a
Km e uguale a concentrazione infinita?
3.16 L’enzima esochinasi aggiunge un fosfato a d-glu-
cosio ma ignora la sua immagine speculare, l-glucosio. Supponete di riuscire a sintetizzare completamente
un’esochinasi da d-amminoacidi, che sono l’immagine
speculare dei normali l-amminoacidi.
A. Supponendo che l’enzima “D” si ripieghi in una
conformazione stabile, quale relazione vi aspettereste che possa avere con l’enzima normale “L”?
B. Ritenete che l’enzima “D” aggiungerebbe un fosfato a l-glucosio e ignorerebbe d-glucosio?
3.17 In che modo supponete che una molecola di
emoglobina sia capace di legare ossigeno ad alta efficienza nei polmoni e di rilasciarlo ad alta efficienza nei tessuti?
3.14 La proteina SmpB si lega a una specie particolare
3.18 La sintesi dei nucleotidi purinici AMP e GMP
di tRNA, il tmRNA, per eliminare le proteine incom-
procede in una via ramificata che inizia con ribosio
CAPITOLO
3 Le proteine
179
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5-fosfato (R5P), come mostrato schematicamente nella Figura P3.4. Usando i principi dell’inibizione a feedback, proponete una strategia di regolazione di questa
via che assicuri un rifornimento adeguato sia di AMP
sia di GMP e riduca al minimo l’accumulo degli intermedi (A-I) quando le scorte di AMP e GMP sono adeguate.
R5P
A
B
C
D
F
G
AMP
H
I
GMP
E
Figura P3.4 Disegno schematico della via metabolica della
sintesi di AMP e di GMP da R5P (Problema 3.18).
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PARTE
2
MECCANISMI
GENETICI
DI BASE
4
DNA, cromosomi
e genomi
5
Replicazione,
riparazione
e ricombinazione
del DNA
6
Il modo in cui
le cellule leggono
il genoma: dal DNA
alle proteine
7
Controllo
dell’espressione
dei geni
CAPITOLO
4
• La struttura e la funzione
del DNA
• Il DNA cromosomico e il suo
compattamento nella fibra
di cromatina
• Struttura e funzione
della cromatina
• La struttura globale dei
cromosomi
• Il modo in cui evolvono
i genomi
(A)
cellula
che si divide
cellula
che non si divide
DNA, cromosomi
e genomi
L
a vita dipende dalla capacità delle cellule di conservare, estrarre e tradurre le istruzioni genetiche necessarie per creare e mantenere un organismo vivente. Questa informazione ereditaria è trasmessa da una cellula
alle cellule figlie durante la divisione cellulare e da una generazione di un organismo alla successiva attraverso le cellule riproduttive dell’organismo. Queste istruzioni sono conservate in ogni cellula vivente come geni, gli elementi
che contengono informazioni che determinano le caratteristiche di una specie nel suo insieme e degli individui che la compongono.
Non appena la genetica emerse come scienza all’inizio del XX secolo, i
ricercatori cominciarono a domandarsi quale fosse la struttura chimica dei
geni. L’informazione contenuta nei geni viene copiata e trasmessa da una
cellula alle cellule figlie milioni di volte durante la vita di un organismo pluricellulare e sopravvive a questo processo essenzialmente immutata. Quale forma di molecola può essere capace di una replicazione così accurata e
quasi illimitata ed essere anche capace di dirigere lo sviluppo di un organismo e la vita quotidiana di una cellula? Quale tipo di istruzioni è contenuto nell’informazione genetica? In che modo queste istruzioni sono organizzate fisicamente affinché l’enorme quantità di informazioni richieste per lo
sviluppo e il mantenimento di un organismo possa essere contenuta nel minuscolo spazio di una cellula?
Le risposte ad alcune di queste domande cominciarono a emergere negli anni ’40, quando alcuni ricercatori scoprirono, da studi su semplici funghi, che l’informazione genetica consiste primariamente di istruzioni per produrre proteine. Le proteine sono le macromolecole incredibilmente versatili
che svolgono la maggior parte delle funzioni cellulari. Come abbiamo visto
nel Capitolo 3, esse servono da unità da costruzione per strutture cellulari e
formano gli enzimi che catalizzano la maggior parte delle reazioni chimiche
della cellula. Inoltre, le proteine regolano l’espressione dei geni (Capitolo 7) e
rendono le cellule capaci di comunicare fra loro (Capitolo 15) e di muoversi (Capitolo 16). Le proprietà e le funzioni di una cellula sono determinate in
gran parte dalle proteine che essa è capace di produrre.
Osservazioni meticolose di cellule ed embrioni eseguite verso la fine del
XIX secolo avevano reso possibile la scoperta che l’informazione ereditaria
è trasportata dai cromosomi, strutture filamentose presenti nel nucleo di una
cellula eucariotica che diventano visibili quando la cellula inizia a dividersi
(Figura 4.1). Più tardi, quando divenne possibile un’analisi biochimica, si scoprì che i cromosomi consistevano sia di acido desossiribonucleico (DNA)
che di proteine, entrambi presenti circa in uguale quantità. Per molti anni si
pensò che il DNA fosse soltanto un elemento strutturale. L’altro progresso
cruciale fatto negli anni ’40 è stato l’identificazione del DNA come il probabile trasportatore dell’informazione genetica. Questa scoperta fondamentale per la comprensione delle cellule derivò da studi sull’ereditarietà nei bat-
Figura 4.1 I cromosomi nelle cellule. (A) Due cellule vegetali adiacenti fotografate al
(B)
10 μm
microscopio ottico. Il DNA è stato colorato con un colorante fluorescente (DAPI) che si
lega a esso. Il DNA è presente nei cromosomi, che sono visibili come strutture distinte al
microscopio ottico soltanto quando diventano strutture compatte in preparazione per la
divisione cellulare, come mostrato a sinistra. La cellula a destra, che non si sta dividendo,
contiene cromosomi identici, ma questi non possono essere distinti chiaramente al
microscopio ottico in questa fase del ciclo cellulare perché sono in una conformazione
più estesa. (B) Disegno schematico dei contorni delle due cellule con i loro cromosomi.
(A, per gentile concessione di Peter Shaw.)
CAPITOLO
ceppo S
batterio patogeno
liscio che provoca la polmonite
cellule del ceppo S
FRAZIONAMENTO
DI ESTRATTI ACELLULARI
IN CLASSI DI MOLECOLE
PURIFICATE
MUTAZIONE CASUALE
ceppo R
batterio mutante
ruvido non patogeno
cellule vive del ceppo R cresciute
in presenza di cellule del ceppo S
uccise al calore o di estratti
acellulari di cellule del ceppo S
RNA
proteine
DNA
lipidi
carboidrati
molecole controllate per la trasformazione
di cellule del ceppo R
TRASFORMAZIONE
ceppo S
alcune cellule del ceppo R
sono trasformate in cellule
del ceppo S, le cui figlie
sono patogene e
provocano la polmonite
CONCLUSIONE: molecole che possono
portare informazioni ereditarie sono
presenti nelle cellule del ceppo S.
(A)
4 DNA, cromosomi e genomi
183
© 978-88-08-62126-9
ceppo
R
ceppo
R
ceppo
S
ceppo
R
ceppo
R
CONCLUSIONE: la molecola
che porta le informazioni
ereditarie è il DNA.
(B)
teri (Figura 4.2). Ma ancora all’inizio degli anni ’50 il modo in cui le proteine possono essere specificate da istruzioni contenute nel DNA e il modo in
cui l’informazione ereditaria viene copiata per essere trasmessa da cellula a
cellula rimanevano completamente misteriosi. Improvvisamente, nel 1953,
il mistero venne risolto quando la struttura del DNA fu postulata correttamente da James Watson e Francis Crick. Come accennato nel Capitolo 1,
la struttura del DNA risolse immediatamente il problema del modo in cui
l’informazione in questa molecola poteva essere copiata, o replicata, e fornì
anche i primi indizi sul modo in cui una molecola di DNA poteva usare le
sue subunità per codificare le istruzioni per produrre proteine. Oggi la nozione che il DNA è il materiale genetico è così fondamentale per il pensiero biologico che è difficile rendersi conto di quale enorme vuoto intellettuale venne riempito da questa scoperta.
In questo capitolo iniziamo descrivendo la struttura del DNA. Vedremo
come, nonostante la sua semplicità chimica, la struttura e le proprietà chimiche lo rendano ideale come materiale grezzo dei geni. Considereremo
quindi il modo in cui le molte proteine presenti nei cromosomi dispongono e compattano questo DNA. Il compattamento deve essere eseguito con
ordine, in modo che i cromosomi possano essere replicati e divisi correttamente fra le due cellule figlie in ciascuna divisione cellulare; deve anche permettere l’accesso al DNA cromosomico degli enzimi che lo riparano quando è danneggiato e delle proteine specializzate che dirigono l’espressione
dei suoi molti geni.
Negli ultimi due decenni c’è stata una rivoluzione nella nostra capacità di
determinare la sequenza esatta di subunità presenti nelle molecole di DNA.
Come risultato oggi conosciamo la sequenza dei 3,2 miliardi di coppie di nucleotidi che forniscono l’informazione per lo sviluppo di un essere umano
adulto da un uovo fecondato, oltre alle sequenze del DNA di migliaia di altri
organismi. Analisi dettagliate di queste sequenze hanno fornito informazioni molto interessanti sul processo dell’evoluzione ed è con questo argomento che termina il capitolo.
Questo è il primo di quattro capitoli che trattano i meccanismi genetici
di base, i modi in cui la cellula mantiene, replica, esprime e occasionalmente
migliora l’informazione genetica trasportata dal suo DNA. Nel capitolo successivo (Capitolo 5) discuteremo i meccanismi tramite i quali la cellula replica
e ripara accuratamente il DNA; descriveremo anche il modo in cui sequen-
Figura 4.2 La prima
dimostrazione sperimentale che il
DNA • il materiale genetico. Questi
esperimenti, eseguiti negli anni ’20 (A)
e negli anni ’40 (B), dimostrarono
che l’aggiunta di DNA purificato a un
batterio ne modificava le proprietà
e che questo cambiamento era
trasmesso fedelmente alle successive
generazioni. Due ceppi strettamente
correlati del batterio Streptococcus
pneumoniae differiscono l’uno
dall’altro sia per l’aspetto al
microscopio che per la patogenicità.
Un ceppo appare liscio (S) e provoca
la morte quando viene iniettato nei
topi, mentre l’altro appare ruvido (R)
e non è letale. (A) Un esperimento
iniziale dimostra che una sostanza
presente nel ceppo S può cambiare (o
trasformare) il ceppo R nel ceppo S e
che questo cambiamento è ereditato
da generazioni successive di batteri.
(B) Questo esperimento, in cui il
ceppo R è stato incubato con varie
classi di molecole biologiche ottenute
dal ceppo S, identifica la sostanza
come DNA.
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
184
© 978-88-08-62126-9
ze di DNA possono essere riarrangiate mediante il processo della ricombinazione genetica. L’espressione dei geni – il processo nel quale l’informazione genetica codificata nel DNA viene interpretata dalla cellula per guidare
la sintesi proteica – è l’argomento principale del Capitolo 6. Nel Capitolo 7
vedremo come l’espressione genica sia controllata dalla cellula per assicurare che ciascuna delle molte migliaia di proteine e di molecole di RNA codificate nel DNA venga prodotta soltanto al momento giusto e al posto giusto
durante la vita della cellula.
La struttura e la funzione del DNA
Negli anni ’40 i biologi ebbero difficoltà ad accettare il DNA come materiale genetico. La molecola sembrava troppo semplice: un lungo polimero composto da quattro tipi soltanto di subunità, che si assomigliano chimicamente.
All’inizio degli anni ’50 il DNA venne esaminato per la prima volta mediante
analisi di diffrazione ai raggi X, una tecnica per determinare la struttura atomica tridimensionale di una molecola (vedi Capitolo 8). I primi risultati della
diffrazione ai raggi X indicarono che il DNA era composto da due filamenti
del polimero avvolti in un’elica. L’osservazione che il DNA era a doppio filamento aveva un significato cruciale e fornì uno degli indizi principali che
portarono al modello di Watson e Crick per la struttura del DNA. Soltanto
nel 1953, quando fu proposto questo modello, divenne evidente il potenziale
del DNA per la replicazione e la codificazione di informazioni.
■ Una molecola di DNA consiste di due catene complementari
di nucleotidi
Una molecola di acido deossiribonucleico (DNA) consiste di due lunghe
catene polinucleotidiche composte da quattro tipi di subunità. Ciascuna di
queste catene è nota come catena di DNA o filamento di DNA. Le due catene corrono antiparallele una rispetto all’altra e legami idrogeno fra le basi dei
nucleotidi tengono insieme le due catene (Figura 4.3). Come abbiamo visto
nel Capitolo 2 (Quadro 2.6, pp. 104-105), i nucleotidi sono composti da uno
zucchero a cinque atomi di carbonio al quale sono attaccati uno o più gruppi fosfato e una base che contiene azoto. Nel caso dei nucleotidi del DNA
lo zucchero è deossiribosio attaccato a un singolo gruppo fosfato (da cui il
nome acido deossiribonucleico) e la base può essere adenina (A), citosina (C),
guanina (G) o timina (T). I nucleotidi sono uniti covalentemente fra loro in
una catena tramite gli zuccheri e i fosfati, che formano così un’“ossatura” di
zucchero-fosfato-zucchero-fosfato, alternati. Poiché soltanto la base differisce in ciascun tipo di subunità, una catena polinucleotidica di DNA è analoga a una collana (l’ossatura) composta da quattro tipi di perline (le quattro
basi A, C, G e T). Questi stessi simboli (A, C, G e T) sono anche usati comunemente per indicare i quattro nucleotidi diversi, cioè le basi con attaccati
zucchero e gruppo fosfato.
Il modo in cui i nucleotidi sono allineati insieme dà al filamento di DNA
una polarità chimica. Se pensiamo a ciascuno zucchero come a un blocco con
una sporgenza (il fosfato 5′) su un lato e un buco (l’ossidrile 3′) sull’altro (vedi Figura 4.3), ciascuna catena completa, formata da sporgenze incastrate nei
buchi, avrà tutte le sue subunità allineate nello stesso orientamento. Inoltre
le due estremità della catena saranno facilmente distinguibili, perché una ha
un buco (l’ossidrile 3′) e l’altra una sporgenza (il fosfato 5′) al suo terminale.
Questa polarità in una catena di DNA viene indicata riferendosi a un’estremità come estremità 3′ e all’altra come estremità 5′, termini derivati dall’orientamento dello zucchero deossiribosio. Rispetto alla capacità di immagazzinamento dell’informazione, la catena di nucleotidi in un filamento di DNA, essendo sia direzionale che lineare, può essere letta in maniera molto simile alle
lettere su questa pagina.
La struttura tridimensionale del DNA – la doppia elica del DNA – deriva dalle caratteristiche chimiche e strutturali delle sue due catene polinucleotidiche. Poiché queste due catene sono tenute insieme da legami idrogeno fra
CAPITOLO
unità che compongono il DNA
filamento di DNA
zucchero
fosfato
+
zuccherofosfato
5′
G
base
(guanina)
3′
G
doppia elica di DNA
3′
5′
C
T
A
A
T
A
T
C
G
C
T
A
C
G
A
5′
C
G
T
A
A
T
A
ossatura di
zucchero-fosfato
G
G
T
A
nucleotide
3′
G
C
G
DNA a doppio filamento
C
4 DNA, cromosomi e genomi
185
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G
C
C
G
C
G
A
C
A
T
G
T
5′
5′
3′
3′
coppie di basi
legate da legami idrogeno
Figura 4.3 Il DNA e le unità da cui è costituito. Il DNA è costituito da quattro tipi di
nucleotidi, che sono uniti covalentemente in una catena polinucleotidica (un filamento
di DNA) con un’ossatura di zucchero-fosfato da cui sporgono le basi (A, C, G e T). Una
molecola di DNA è composta da due filamenti di DNA tenuti insieme da legami idrogeno
fra le basi appaiate. Le frecce alle estremità dei filamenti di DNA indicano la polarità dei
due filamenti, che corrono antiparalleli nella molecola del DNA. Nel disegno in basso a
sinistra nella figura, la molecola del DNA è mostrata raddrizzata; in realtà è avvolta in una
doppia elica, come mostrato a destra. Per i dettagli vedi la Figura 4.5 e il Filmato 4.1 .
le basi sui differenti filamenti, tutte le basi sono all’interno della doppia elica e
le ossature di zucchero-fosfato sono all’esterno (vedi Figura 4.3). In tutti i casi
una base a due anelli più voluminosa (una purina; vedi Quadro 2.6, pp. 104105) è appaiata a una base a singolo anello (una pirimidina); A si appaia sempre con T e G con C (Figura 4.4). Questo appaiamento complementare delle basi
permette alle coppie di basi di compattarsi nel modo energeticamente più
favorevole all’interno della doppia elica. In questa disposizione ciascuna coppia di basi ha una larghezza simile e tiene così le ossature di zucchero-fosfato distanziate in modo uguale lungo la molecola del DNA. Per massimizzare l’efficienza del compattamento delle coppie di basi, le due ossature di zucchero-fosfato si avvolgono l’una sull’altra formando una doppia elica, con un
giro completo ogni dieci coppie di basi (Figura 4.5).
I membri di ciascuna coppia di basi possono adattarsi insieme dentro la
doppia elica soltanto se i due filamenti dell’elica sono antiparalleli, cioè
soltanto se la polarità di un filamento è orientata in senso opposto a quella
dell’altro filamento (vedi Figure 4.3 e 4.4). Una conseguenza di questi requisiti è che ciascun filamento di una molecola di DNA contiene una sequenza
di nucleotidi che è esattamente complementare alla sequenza nucleotidica dell’altro filamento.
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
186
© 978-88-08-62126-9
3′
Figura 4.4 Coppie complementari
di basi nella doppia elica del DNA.
Le forme e la struttura chimica delle
basi permettono di formare legami
idrogeno in modo efficiente soltanto
fra A e T e fra G e C, dove gli atomi
che sono capaci di formare legami
idrogeno (vedi Quadro 2.3, pp. 98-99)
possono essere avvicinati senza
distorcere la doppia elica. Come
indicato, fra A e T si formano due
legami idrogeno, mentre fra G e C
se ne formano tre. Le basi si possono
appaiare in questo modo soltanto se
le due catene polinucleotidiche che le
contengono sono antiparallele.
5′
H
N
N
C
C
N
H
H
H
N
N
N
C
N
H
C
N
H
O
guanina
H
N
citosina
H
legame
idrogeno
_
estremità 59
O
P
O
basi
O
_
O
O
_
O
P O
O
O P
_
O O
5′
O
_
O P O
2 nm
(A)
C
O
5′
O
O
P O
_
O O
estremità 39
solco
maggiore
5′
1 nm
(A)
solco
minore
H
C
C
C
H
3′
N
C
G
C
O
C
C
C
CH3
timina
H
ossatura di
zucchero-fosfato
C
O
H
H
C
C
N
adenina
N
T
N
C
N
H
N
C
A
C
O
C
O
G
3′
O
P O
O
O
C
O
O
O
O
0,34 nm
O
G
T
O
O
O
C
legame idrogeno
estremità 59
3′ O
_
O
O
zucchero
A
G
P
O_
P O
O
legame
fosfodiesterico
estremità 39
(B)
Figura 4.5 La doppia elica del DNA. (A) Modello a spazio
pieno di 1,5 giri della doppia elica del DNA. Ciascun giro del
DNA è composto da 10,4 coppie di nucleotidi e la distanza
centro-centro fra nucleotidi adiacenti è di 0,34 nm.
L’avvolgimento dei due filamenti l’uno sull’altro crea due
solchi nella doppia elica: il solco più largo è chiamato solco
maggiore e il più piccolo solco minore, come indicato.
(B) Una breve sezione della doppia elica vista lateralmente,
che mostra quattro coppie di basi. I nucleotidi sono uniti
insieme covalentemente da legami fosfodiesterico tramite il
gruppo 3’-ossidrilico (–OH) di uno zucchero e il 5’-fosfato (P)
del successivo. Così ciascun filamento polinucleotidico ha una
polarità chimica; le sue due estremità sono quindi chimicamente
diverse. Per convenzione l’estremità 5’ del polimero di DNA è
spesso illustrata con un gruppo fosfato, mentre l’estremità 3’ è
mostrata con un ossidrile.
■ La struttura del DNA fornisce un meccanismo
per lÕereditarietˆ
La scoperta della struttura del DNA ha immediatamente suggerito delle risposte riguardo alle due domande più importanti concernenti l’ereditarietà.
Primo, in che modo l’informazione che specifica un organismo può essere
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
187
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Figura 4.6 Il DNA come stampo
filamento S stampo
5′
nuovo filamento S′
3′
nuovo filamento S
5′
3′
filamento S′
5′
3′
filamento S
5′
3′
5′
3′
doppia elica di DNA parentale
per la propria duplicazione. Poiché
il nucleotide A si appaia con successo
soltanto con T, e G con C, ciascun
filamento del DNA può specificare
la sequenza di nucleotidi nel suo
filamento complementare. In questo
modo il DNA a doppia elica può essere
copiato con precisione in un processo
in cui l’elica parentale di DNA produce
due eliche figlie di DNA identiche.
5′
3′
filamento S′ stampo
doppie eliche figlie di DNA
portata in forma chimica? Secondo, in che modo questa informazione viene
duplicata e copiata di generazione in generazione?
La risposta alla prima domanda venne dalla scoperta che il DNA è un polimero lineare di quattro diversi tipi di monomero allineati in una sequenza
definita, come le lettere di un documento scritte in caratteri alfabetici.
La risposta alla seconda domanda venne dalla natura a doppia elica della
struttura: poiché ogni filamento di DNA contiene una sequenza di nucleotidi
che è esattamente complementare alla sequenza nucleotidica del suo filamento partner, ogni filamento può agire da stampo per la sintesi di un nuovo filamento complementare. In altre parole, se noi chiamiamo i due filamenti S e
S9, il filamento S può servire da stampo per fare un nuovo filamento S9, mentre il filamento S9 può servire da stampo per fare un nuovo filamento S (Figura 4.6). Quindi l’informazione genetica presente nel DNA può essere copiata accuratamente con il processo semplice ed elegante in cui il filamento S si
separa dal filamento S9; ogni filamento separato serve da stampo per la sintesi di un nuovo partner complementare che sia identico al partner precedente.
La capacità di ogni filamento di una molecola di DNA di funzionare da
stampo per la produzione di un filamento complementare fa sì che la cellula
possa copiare, o replicare, il suo genoma prima di trasmetterlo alla sua discendenza. Nel Capitolo 5 descriveremo l’elegante macchinario che la cellula usa
per svolgere questo compito.
Gli organismi differiscono l’uno dall’altro perché le loro rispettive molecole di DNA hanno sequenze nucleotidiche diverse e, di conseguenza, portano messaggi biologici diversi. Ma in che modo l’alfabeto dei nucleotidi è usato per produrre messaggi e che cosa dicono questi messaggi?
Come abbiamo detto, molto prima della determinazione della struttura
del DNA si sapeva che i geni contenevano le istruzioni per produrre proteine. Se i geni sono fatti di DNA, il DNA deve in qualche modo codificare le
proteine (Figura 4.7). Come abbiamo visto nel Capitolo 3, le proprietà di una
proteina, che sono responsabili della sua funzione biologica, sono determinate dalla sua struttura tridimensionale, che è determinata a sua volta dalla sequenza lineare degli amminoacidi di cui è composta. La sequenza lineare dei
nucleotidi di un gene deve perciò codificare in qualche modo la sequenza lineare di amminoacidi di una proteina. La corrispondenza esatta fra l’alfabeto a
quattro lettere dei nucleotidi del DNA e l’alfabeto a venti lettere degli amminoacidi delle proteine – il codice genetico – non è intuibile in modo ovvio dalla
struttura del DNA e ci vollero più di dieci anni dopo la scoperta della doppia
elica per decifrarla. Nel Capitolo 6 descriveremo questo codice in dettaglio
nel corso dell’elaborazione del processo noto come espressione genica, tramite
il quale una cellula traduce la sequenza nucleotidica di un gene nella sequenza di amminoacidi di una proteina.
La serie completa di informazioni nel DNA di un organismo si chiama
genoma e contiene le informazioni per tutte le molecole di RNA e per le
proteine che l’organismo dovrà sintetizzare. (Il termine genoma è usato anche per descrivere il DNA che porta queste informazioni.) La quantità di informazioni contenuta nei genomi è strabiliante. Scritta nell’alfabeto a quat-
gene A
gene B
doppia
elica
del DNA
proteina
A
gene C
ESPRESSIONE
DEI GENI
proteina
B
proteina
C
Figura 4.7 La relazione fra
l’informazione genetica portata
nel DNA e le proteine. (Vedi
Capitolo 1).
CAPITOLO
188
4 DNA, cromosomi e genomi
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Figura 4.8 La sequenza nucleotidica del gene umano della b-globina. Per
convenzione una sequenza nucleotidica è scritta dalla sua estremità 5’ a quella 3’ e
dovrebbe essere letta da sinistra a destra in righe successive come se fosse normale
testo italiano. Questo gene porta l’informazione per la sequenza di amminoacidi di
uno dei due tipi di subunità della molecola di emoglobina. Un gene diverso, il gene
dell’a-globina, porta l’informazione per l’altro tipo di subunità dell’emoglobina.
(L’emoglobina, la proteina che trasporta l’ossigeno nel sangue, ha quattro subunità, due
di ciascun tipo.) Soltanto uno dei due filamenti della doppia elica del DNA che contiene
il gene della b-globina è rappresentato; l’altro filamento ha una sequenza esattamente
complementare. Le sequenze di DNA evidenziate in giallo mostrano le tre regioni del
gene che specificano la sequenza di amminoacidi della b-globina. Vedremo nel Capitolo
6 come la cellula connette queste tre sequenze a livello dell’RNA messaggero per
sintetizzare una b-globina completa.
tro lettere dei nucleotidi, la sequenza nucleotidica di un gene umano molto
piccolo occupa un quarto di pagina di testo (Figura 4.8), mentre la sequenza
completa dei nucleotidi del genoma umano riempirebbe più di mille libri
delle dimensioni di questo. Oltre ad altre informazioni cruciali, essa comprende circa 21 000 geni che codificano proteine e che (attraverso il meccanismo dello splicing alternativo, vedi p. 437) danno origine a un numero
molto più elevato di proteine.
■ Negli eucarioti il DNA • racchiuso in un nucleo cellulare
Come abbiamo visto nel Capitolo 1, quasi tutto il DNA di una cellula eucariotica è confinato in un nucleo, che in molte cellule occupa circa il 10% del volume cellulare totale. Questo compartimento è delimitato da un involucro nucleare formato da due doppi strati lipidici concentrici (Figura 4.9), che sono perforati a intervalli da grandi pori nucleari che trasportano molecole fra il nucleo e
il citosol. L’involucro nucleare è connesso direttamente a un ampio sistema di
membrane intracellulari, il reticolo endoplasmatico, che si estendono nel citosol.
Esso è supportato meccanicamente da un reticolo di filamenti intermedi chiamato lamina nucleare, che dà origine a una rete fitta e sottile a forma di foglio
all’interno del nucleo, appena sotto la membrana nucleare interna (Figura 4.9B).
L’involucro nucleare permette alle molte proteine che agiscono sul DNA di
concentrarsi dove sono necessarie nella cellula e, come vedremo nei capitoli successivi, mantiene anche separati gli enzimi nucleari da quelli citosolici, un aspetto che è cruciale per il funzionamento appropriato delle cellule eucariotiche.
SOMMARIO L’informazione genetica è contenuta nella sequenza lineare di
nucleotidi del DNA. Ciascuna molecola di DNA è una doppia elica formata da due
filamenti complementari antiparalleli di nucleotidi uniti da legami idrogeno fra coppie
di basi G-C e A-T. La duplicazione dell’informazione genetica avviene mediante
l’uso di un filamento di DNA che serve da stampo per la formazione di un filamento
complementare. L’informazione genetica conservata nel DNA di un organismo contiene
le istruzioni per tutte le molecole di RNA e per tutte le proteine che l’organismo dovrà
sintetizzare e ne costituisce il genoma. Negli eucarioti il DNA è contenuto nel nucleo
cellulare, un grande compartimento circondato da membrana. ●
Il DNA cromosomico e il suo compattamento
nella fibra di cromatina
La funzione più importante del DNA è quella di portare i geni, l’informazione che specifica tutte le proteine e le molecole di RNA che costituiscono un organismo, compresa l’informazione che indica quando, in quale tipo
di cellule e in quale quantità ciascuna proteina e ciascuna molecola di RNA
devono essere prodotte. Il DNA nucleare degli eucarioti è diviso in cromosomi e in questa sezione vedremo come i geni sono di norma disposti su
ciascun cromosoma. Inoltre descriveremo le sequenze specializzate di DNA
che permettono ai cromosomi di essere duplicati accuratamente e trasmessi
da una generazione a quella successiva.
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
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reticolo endoplasmatico
eterocromatina
eterocromatina
DNA e proteine
associate (cromatina),
più molte molecole
di RNA e proteine
involucro
nucleare
nucleolo
centrosoma
nucleolo
microtubulo
lamina nucleare
poro nucleare
membrana nucleare esterna
(A)
2 µm
(B)
Figura 4.9 Sezione di un tipico nucleo cellulare.
(A) Micrografia elettronica di una sezione sottile del nucleo di
un fibroblasto umano. (B) Disegno schematico che mostra che
l’involucro nucleare consiste di due membrane; quella esterna è
in continuità con la membrana del reticolo endoplasmatico (vedi
anche Figura 12.7). Lo spazio interno del reticolo endoplasmatico
(il lume del RE) è colorato in giallo ed è in continuità con lo
spazio fra le due membrane nucleari. I doppi strati lipidici delle
involucro nucleare
membrana nucleare interna
membrane nucleari esterna e interna sono connessi a ciascun
poro nucleare. Una rete piatta di filamenti intermedi (marrone)
all’interno del nucleo fornisce supporto meccanico all’involucro
nucleare formando una speciale struttura di supporto
chiamata lamina nucleare (per i dettagli vedi Capitolo 12).
L’eterocromatina, con la colorazione più scura, contiene regioni
particolarmente condensate che verranno discusse più avanti. (A,
per gentile concessione di E.G. Jordan e J. McGovern.)
Ci confronteremo anche con la dura sfida del compattamento del DNA.
Se le doppie eliche che costituiscono tutti i 46 cromosomi di una cellula
umana fossero stese una dopo l’altra, raggiungerebbero approssimativamente una lunghezza di 2 metri; eppure il nucleo di una cellula umana, che contiene il DNA, ha un diametro di soli 6 mm. Ciò è geometricamente equivalente a compattare 40 km di filo molto sottile in una palla da tennis! Il
compito complesso di compattare il DNA è eseguito da proteine specializzate che lo legano e lo ripiegano, generando una serie di avvolgimenti e anse che forniscono livelli sempre più alti di organizzazione, impedendo che
il DNA diventi un groviglio impossibile da maneggiare. È stupefacente che,
sebbene sia ripiegato strettamente, il DNA sia compattato in un modo che
gli permette di essere facilmente disponibile per i molti enzimi della cellula che lo replicano, lo riparano e usano i suoi geni per produrre proteine e
molecole di RNA.
■ Il DNA eucariotico • compattato in una serie di cromosomi
Ogni cromosoma in una cellula eucariotica consiste di una singola molecola di DNA estremamente lunga associata a proteine che ripiegano e impacchettano il sottile filamento di DNA in una struttura più compatta. Oltre alle proteine coinvolte nel compattamento del DNA, i cromosomi sono
anche associati a molte proteine (così come a numerose molecole di RNA)
necessarie per i processi di espressione genica, di replicazione del DNA e
di riparazione del DNA. Il complesso di DNA e proteine strettamente associate è detto cromatina (dal greco chroma, “colore”, per le sue caratteristiche di colorazione).
I batteri, che non dispongono di un compartimento nucleare specializzato,
portano i loro geni su una singola molecola di DNA, che è di solito circolare
(vedi Figura 1.24). Questo DNA è associato a proteine che compattano e condensano il DNA, diverse tuttavia dalle proteine che svolgono queste funzioni negli eucarioti. Sebbene quello batterico sia spesso definito “cromosoma”,
non ha la stessa struttura dei cromosomi eucariotici e poco si sa del modo in
cui esso viene compattato. Perciò la nostra analisi della struttura dei cromosomi si concentrerà quasi interamente sui cromosomi eucariotici.
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
190
Figura 4.10 La serie completa
dei cromosomi umani. Questi
cromosomi femminili sono stati isolati
da una cellula che stava subendo
una divisione cellulare (mitosi) e
sono perciò altamente compattati.
Ciascun cromosoma è stato
“dipinto” di un colore diverso per
permettere la sua identificazione non
ambigua al microscopio ottico, una
tecnica chiamata “cariotipizzazione
spettrale”. Questa tecnica di
colorazione viene eseguita esponendo
i cromosomi a una grande collezione
di molecole di DNA la cui sequenza
si appaia a sequenze conosciute
del genoma umano. Il gruppo di
sequenze corrispondente per ciascun
cromosoma è stato accoppiato a una
combinazione diversa di coloranti
fluorescenti. Le molecole di DNA
derivate dal cromosoma 1 sono
marcate con una combinazione
specifica di coloranti, quelle derivate
dal cromosoma 2 con un’altra e
così via. Poiché il DNA marcato può
formare coppie di basi, o ibridare,
soltanto con il cromosoma da cui
deriva, ciascun cromosoma è marcato
con una combinazione diversa di
coloranti. Per questi esperimenti
i cromosomi sono soggetti a
trattamenti che separano il DNA a
doppia elica in filamenti singoli in un
modo che permette l’appaiamento
di basi con il DNA marcato a singolo
filamento, mantenendo relativamente
intatta la struttura dei cromosomi.
(A) I cromosomi visualizzati così come
escono dalla cellula lisata. (B) Gli stessi
cromosomi allineati artificialmente
nel loro ordine numerico. Questa
disposizione dell’intera serie dei
cromosomi si chiama cariotipo.
(Adattata da N. McNeil e T. Ried,
Expert Rev. Mol. Med. 2:1-14, 2000.
Con il permesso di Cambridge
University Press.)
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2
1
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13
14
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19
20
9
10
16
21
22
4
5
11
12
17
18
X X
(B)
10 µm
Con l’eccezione delle cellule germinali (uova e spermatozoi) e di pochi tipi
cellulari altamente specializzati che non possono moltiplicarsi e sono completamente privi di DNA (per esempio, i globuli rossi) o che hanno replicato il loro DNA senza completare la divisione cellulare (per esempio, i megacariociti),
ciascuna cellula umana contiene due copie di ciascun cromosoma, una ereditata
dalla madre e una dal padre. I cromosomi materno e paterno di una coppia sono
chiamati cromosomi omologhi (omologhi). L’unica coppia di cromosomi
non omologhi è composta dai cromosomi sessuali nei maschi, in cui un cromosoma Y è ereditato dal padre e un cromosoma X dalla madre. Così ciascuna cellula umana contiene un totale di 46 cromosomi: 22 coppie comuni a maschi e
femmine, più due cosiddetti cromosomi sessuali (X e Y nei maschi, due X nelle
femmine). Questi cromosomi umani possono essere facilmente distinti “dipingendoli” di colori diversi mediante una tecnica basata sull’ibridazione del DNA
(Figura 4.10). In questa metodica (descritta in dettaglio nel Capitolo 8) un corto
filamento di acido nucleico etichettato con un colorante fluorescente serve come “sonda” per riconoscere il suo DNA complementare, rendendo fluorescente
il cromosoma bersaglio in tutti i siti a cui si lega. La colorazione dei cromosomi
si esegue di norma nella fase del ciclo cellulare chiamata mitosi, in cui i cromosomi sono particolarmente compattati e facili da visualizzare (vedi più avanti).
Un altro modo più tradizionale di distinguere un cromosoma dall’altro è
quello di usare coloranti che producono uno schema sorprendente e riproducibile di bande lungo ciascun cromosoma mitotico (Figura 4.11). Questi schemi di bande presumibilmente riflettono variazioni nella struttura della cromatina, ma le loro basi non sono ben comprese. Nonostante ciò, lo schema di
bande su ciascun tipo di cromosoma è unico e sono questi schemi che hanno
inizialmente permesso di identificare e numerare ciascun cromosoma umano in maniera affidabile.
L’immagine dei 46 cromosomi umani durante la mitosi è detta cariotipo umano. Se parti di cromosomi vengono perse o scambiate fra cromosomi, questi cambiamenti possono essere rivelati da cambiamenti negli schemi
di bandeggio o - con maggiore sensibilità - da cambiamenti nello schema di
colorazione dei cromosomi (Figura 4.12). I citogenetisti usano queste alterazioni per individuare anomalie cromosomiche associate a difetti ereditari e
individuare i riarrangiamenti cromosomici che avvengono nelle cellule tumorali mentre progrediscono verso un fenotipo maligno (vedi Capitolo 20).
■ I cromosomi contengono lunghe stringhe di geni
I cromosomi portano i geni, le unità funzionali dell’ereditarietà. Un gene è di
solito definito come un segmento di DNA che contiene le istruzioni per produrre una particolare proteina (o una serie di proteine strettamente correlate), ma questa definizione è troppo stretta. I geni che codificano proteine sono effettivamente la maggioranza e molti dei geni con fenotipi mutanti molto chiari appartengono a questa categoria.Tuttavia ci sono anche molti “geni
a RNA”, segmenti di DNA che generano come loro prodotto finale, invece
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10
11
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6
1
2
19
16
13
14
15
18
17
Y
21
20
50 milioni
di coppie
nucleotidiche
Figura 4.11 Gli schemi di
bandeggio dei cromosomi umani.
I cromosomi 1-22 sono numerati in
ordine approssimativo di grandezza.
Una tipica cellula umana contiene
due di questi cromosomi, più due
cromosomi sessuali: due cromosomi
X in una femmina, un X e un Y in
un maschio. I cromosomi usati per
queste mappe sono stati colorati in
una fase precoce della mitosi, quando
i cromosomi non sono compattati
completamente. La linea orizzontale
rossa rappresenta la posizione del
centromero (vedi Figura 4.19), che
appare come una costrizione sui
cromosomi mitotici; i pomoli rossi
sui cromosomi 13, 14, 15, 21 e 22
indicano le posizioni dei geni che
codificano i grandi RNA ribosomiali
(trattati nel Capitolo 6). Questi schemi
di bandeggio sono ottenuti colorando
i cromosomi con il colorante Giemsa
e si possono osservare al microscopio
ottico. (Adattata da U. Francke,
Cytogenet. Cell Genet. 31:24-32,
1981. Con il permesso dell’autore.)
22
1 µm
X
di una proteina, una molecola di RNA funzionalmente rilevante. Diremo di
più riguardo ai geni a RNA e ai loro prodotti più avanti.
Come ci si potrebbe aspettare, esiste una correlazione fra la complessità di
un organismo e il numero di geni nel suo genoma (vedi Tabella 1.2, p. 30). Per
esempio, alcuni batteri semplici hanno soltanto 500 geni, in confronto ai circa 30 000 degli esseri umani. I batteri, gli archei e alcuni eucarioti unicellulari hanno genomi particolarmente compatti, costituiti da poco più di stringhe di geni compattati strettamente.Tuttavia, i cromosomi di piante e animali pluricellulari, così come di molti altri eucarioti, contengono, oltre ai geni,
una grande quantità di DNA in eccesso intercalato fra i geni, la cui funzione
non è chiara (Figura 4.13). Una parte di questo DNA è cruciale per l’espressione corretta dei geni e questo può in una certa misura spiegare perché ce
n’è così tanto negli organismi pluricellulari, i cui geni devono essere accesi e
spenti durante lo sviluppo, secondo regole complicate (vedi Capitoli 7 e 21).
Figura 4.12 Cromosomi umani aberranti. (A) Due cromosomi umani normali, 4 e 6.
(B) In un individuo con una traslocazione cromosomica bilanciata, la doppia elica di
DNA in un cromosoma a un certo punto continua con la doppia elica di DNA dell’altro
cromosoma in seguito a un evento anomalo di ricombinazione tra il DNA dei due
cromosomi. La tecnica di chromosome painting (pittura dei cromosomi) usata sui
cromosomi in ciascuna serie permette l’identificazione anche di brevi tratti di cromosoma
che sono stati traslocati, evento frequente nelle cellule tumorali. (Per gentile concessione
di Zhenya Tang e del NIGMS Human Genetic Cell Repository presso il Coriell Institute for
Medical Research: GM21880.)
(A)
(B)
cromosoma 6
cromosoma 4
traslocazione cromosomica reciproca
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4 DNA, cromosomi e genomi
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Figura 4.13 La disposizione dei
geni nel genoma di S. cerevisiae
e quella dellÕuomo. (A) S. cerevisiae
è un lievito gemmante usato
diffusamente per la produzione della
birra e del pane. Il genoma di questo
eucariote unicellulare è distribuito su
16 cromosomi. Una piccola regione
di un cromosoma è stata scelta
arbitrariamente per mostrare l’alta
densità di geni. (B) Una regione del
genoma umano di uguale lunghezza
del segmento di lievito mostrato in (A).
I geni umani sono disposti in maniera
molto meno densa e la quantità di
sequenze di DNA interposte è molto
più grande. In questo campione di
DNA umano non è mostrato il fatto
che i geni umani sono per la maggior
parte molto più lunghi di quelli del
lievito (vedi Figura 4.15).
(A) Saccharomyces cerevisiae
0
10
20
30 kilobasi
10
20
30 kilobasi
(B) uomo
0
gene
ripetizioni di tratti del genoma
Le differenze nella quantità di DNA intercalato fra i geni, molto più che
il numero di geni, sono responsabili delle incredibili variazioni di grandezza
del genoma che osserviamo quando confrontiamo una specie con un’altra
(vedi Figura 1.32). Per esempio, il genoma umano è 200 volte più grande
di quello del lievito S. cerevisiae, ma 30 volte più piccolo di quello di alcuni vegetali e anfibi e 200 volte più piccolo di quello di una specie di ameba.
Inoltre, a causa di differenze nella quantità di DNA non codificante, i genomi di organismi simili (pesci ossei, per esempio) possono variare di centinaia di volte nel loro contenuto di DNA, anche se hanno più o meno lo
stesso numero di geni. Qualunque sia il ruolo del DNA in eccesso, sembra
chiaro che non è un grave handicap per una cellula eucariotica portarne
una grande quantità.
La divisione del genoma in cromosomi differisce anch’essa da una specie
eucariotica all’altra. Per esempio, in confronto con i 46 cromosomi umani, le
cellule somatiche di una specie di piccolo cervo contengono soltanto 6 cromosomi, mentre quelle di una specie di carpa ne contengono più di 100. Anche specie strettamente correlate con genomi di dimensioni simili possono
avere numeri e dimensioni di cromosomi molto diversi (Figura 4.14). Pertanto
non c’è una relazione semplice fra numero dei cromosomi, complessità della
specie e dimensioni totali del genoma. Piuttosto, i genomi e i cromosomi delle specie attuali sono il frutto di una storia unica di eventi genetici a quanto
pare casuali, su cui ha agito una pressione selettiva non ancora ben compresa
per un lungo periodo evolutivo.
■ La sequenza nucleotidica del genoma umano mostra come
Figura 4.14 Due specie
strettamente correlate di cervo
con numeri di cromosomi molto
diversi. Nell’evoluzione del muntjac
indiano cromosomi inizialmente
separati si sono fusi, senza avere
un effetto importante sull’animale.
Queste due specie contengono
un numero simile di geni. (Foto
del muntjac cinese per gentile
concessione di Deborah Carreno,
Natural Wonders Photography.)
sono disposti i geni
La pubblicazione della sequenza completa di DNA del genoma umano nel
2004 ha reso possibile vedere in dettaglio in che modo i geni sono disposti
lungo ciascuno dei nostri cromosomi (Figura 4.15). Ci vorranno molti decenni prima di poter analizzare completamente le informazioni contenute nel
genoma umano, ma queste hanno già stimolato nuovi esperimenti che hanno influenzato profondamente il contenuto di tutti i capitoli di questo testo.
Il primo aspetto sorprendente del genoma umano è quanto poco (soltanto una piccola percentuale) codifichi proteine (Tabella 4.1 e Figura 4.16).
Y2 X Y1
X Y
muntjac cinese
muntjac indiano
CAPITOLO
(A)
il cromosoma umano 22 nella sua conformazione mitotica, composto da due molecole
di DNA a doppio filamento, ciascuna lunga 48 3 106 coppie di nucleotidi
eterocromatina
310
10% del braccio del cromosoma circa 40 geni
(B)
310
1% del braccio del cromosoma contenente 4 geni
(C)
310
un gene di 3,4 3 104 coppie di nucleotidi
(D)
sequenze
regolatrici di DNA
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esone introne
espressione del gene
RNA
proteina
proteina ripiegata
TABELLA 4.1 Statistiche vitali del genoma umano
Genoma umano
Lunghezza del DNA
3,2 3 109 coppie di nucleotidi*
Numero di geni che codifica proteine
approssimativamente 21 000
Gene più grande che codifica proteine
2,4 3 106 coppie di nucleotidi
Dimensioni medie di un gene che codifica
proteine
27 000 coppie di nucleotidi
Numero più piccolo di esoni per gene
1
Numero più alto di esoni per gene
178
Numero medio di esoni per gene
10,4
Dimensioni dell’esone più grande
17 106 coppie di nucleotidi
Dimensioni medie di un esone
145 coppie di nucleotidi
Numero di geni a RNA non codificanti
approssimativamente 9000**
Numero di pseudogeni***
più di 20 000
Percentuale di sequenza di DNA negli esoni
(sequenze che codificano proteine)
1,5%
Percentuale di DNA in altre sequenze altamente
conservate****
3,5%
Percentuale di DNA in elementi altamente ripetuti
approssimativamente 50%
* È nota la sequenza nucleotidica precisa di 2,85 miliardi di nucleotidi (frequenza di errore di un solo
nucleotide su 100 000). Il resto del DNA consiste soprattutto di brevi sequenze altamente ripetute in
tandem, con numeri di ripetizioni che variano da un individuo all’altro. È molto difficile sequenziare
accuratamente questi blocchi altamente ripetitivi.
** Questo numero è una stima molto imprecisa.
*** Uno pseudogene è una sequenza nucleotidica di DNA che assomiglia molto a un gene
funzionale, ma che contiene numerose mutazioni che ne impediscono l’espressione appropriata.
La maggior parte degli pseudogeni deriva dalla duplicazione di un gene funzionale seguita
dall’accumulo di mutazioni dannose in una copia.
**** Queste regioni funzionali conservate comprendono DNA che codifica UTR 5’ e 3’ (regioni
non tradotte di mRNA), DNA che codifica RNA strutturali e funzionali e DNA con siti conservati che
legano proteine.
Figura 4.15 L’organizzazione dei
geni su un cromosoma umano.
(A) Il cromosoma 22, uno dei
cromosomi umani più piccoli, contiene
48 3 106 coppie di nucleotidi e
corrisponde approssimativamente
all’1,5% dell’intero genoma
umano. La maggior parte del
braccio sinistro del cromosoma 22
consiste di brevi sequenze ripetute
di DNA che sono organizzate in una
forma particolarmente compatta di
cromatina (eterocromatina), che verrà
trattata più avanti in questo capitolo.
(B) Un ingrandimento di dieci volte di
una porzione del cromosoma 22, con
circa 40 geni indicati. Quelli marrone
scuro sono geni noti e quelli rossi
sono geni attesi. (C) Una porzione
ingrandita di (B) che mostra quattro
geni. (D) La disposizione introni-esoni
di un gene tipico è mostrata dopo
un ulteriore ingrandimento di dieci
volte. Ciascun esone (rosso) codifica
una porzione della proteina, mentre la
sequenza di DNA degli introni (grigio)
è relativamente priva di importanza,
come vedremo in dettaglio nel
Capitolo 6. Il genoma umano
(3,2 3 109 coppie di nucleotidi) è la
totalità dell’informazione genetica che
appartiene alla nostra specie. Quasi
tutto questo genoma è distribuito in
22 autosomi e 2 cromosomi sessuali
(vedi Figure 4.10 e 4.11) presenti nel
nucleo. Una minuscola frazione del
genoma umano (16 569 coppie di
nucleotidi in copie multiple per cellula)
si trova nei mitocondri (vedi Capitolo 1
e, più in dettaglio, Capitolo 14).
L’espressione sequenza del genoma
umano si riferisce alla sequenza
nucleotidica completa del DNA dei 24
cromosomi nucleari e dei mitocondri.
Essendo diploide, una cellula somatica
umana contiene perciò circa il doppio
di questa quantità di DNA, o 6,4 3 109
coppie di nucleotidi, quando non
sta duplicando i suoi cromosomi in
preparazione alla divisione. (Adattata
da International Human Genome
Sequencing Consortium, Nature
409:860-921, 2001. Con il permesso
di Macmillan Publishers Ltd.)
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
194
(A)
(B)
Figura 4.16 La scala del genoma
umano. Se ciascuna coppia di
nucleotidi fosse disegnata con uno
spazio di 1 mm fra ciascun nucleotide
come in (A), allora il genoma umano
si estenderebbe per 3200 km,
abbastanza da attraversare il centro
dell’Africa, il sito delle origini
dell’uomo (linea rossa in B). A questa
scala ci sarebbe, in media, un gene
che codifica proteine ogni 150 m. Un
gene medio si estenderebbe per 30 m,
ma le sequenze codificanti in questo
gene occuperebbero soltanto poco
più di un metro.
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Si noti anche che circa la metà del DNA cromosomico è composta da brevi tratti mobili di DNA che si sono gradualmente inseriti nel cromosoma
durante l’evoluzione, moltiplicandosi nel genoma come parassiti (vedi Figura 4.62). Analizzeremo questi elementi trasponibili in dettaglio nei capitoli successivi.
Un secondo aspetto notevole del genoma umano è rappresentato dalle
grandi dimensioni medie dei geni, circa 27 000 coppie di nucleotidi. Come
discusso sopra, un gene tipico porta nella sua sequenza lineare di nucleotidi l’informazione per la sequenza lineare degli amminoacidi di una proteina.
Soltanto 1300 coppie circa di nucleotidi sono necessarie per codificare una
proteina di dimensioni medie (circa 430 amminoacidi nell’uomo). La maggior parte del DNA rimanente in un gene consiste di lunghi tratti di DNA
non codificante che interrompono i segmenti relativamente brevi di DNA
che codificano la proteina. Come vedremo in dettaglio nel Capitolo 6, le sequenze codificanti sono chiamate esoni; le sequenze intercalate (non codificanti) sono chiamate introni (vedi Figura 4.15 e Tabella 4.1).
La maggioranza dei geni umani consiste così di una lunga fila di esoni e
introni alternati, con la maggior parte del gene composta da introni. La maggioranza dei geni degli organismi con genomi compatti è invece priva di introni. Questo rende conto delle dimensioni molto minori dei loro geni (circa un ventesimo dei geni umani), oltre che della frazione molto maggiore di
DNA codificante nei loro cromosomi.
Oltre a introni ed esoni, ciascun gene è associato a sequenze regolatrici di
DNA, che sono responsabili del fatto che il gene sia acceso o spento al momento opportuno, espresso al livello appropriato alle necessità e soltanto nel
tipo corretto di cellula. Negli esseri umani le sequenze regolatrici di un gene tipico sono sparse in decine di migliaia di coppie di nucleotidi. Come ci
si aspetterebbe, queste sequenze regolatrici sono molto più compresse in organismi con genomi compatti. Vedremo nel Capitolo 7 come funzionano le
sequenze regolatrici di DNA.
Nell’ultimo decennio la ricerca ha sorpreso i biologi con la scoperta che,
oltre a 21 000 geni codificanti proteine, il genoma umano contiene molte migliaia di geni che codificano molecole di RNA che non producono proteine
ma che invece svolgono una gran quantità di altre funzioni importanti. Quello che si sa finora riguardo a queste molecole sarà trattato nei Capitoli 6 e 7.
Infine la sequenza nucleotidica del genoma umano ha rivelato che le informazioni cruciali necessarie per lo sviluppo di un essere umano sembrano
essere in uno stato allarmante di disordine. Ecco come un commentatore ha
descritto il nostro genoma: “In un certo qual modo assomiglia al vostro garage/camera da letto/frigorifero/vita: altamente individualistico, ma maltenuto;
pochi i segni di organizzazione; molte cianfrusaglie accumulate (chiamate dai
non iniziati ‘spazzatura’); praticamente non viene mai scartato niente e i pochi articoli chiaramente di valore sono sparsi in giro indiscriminatamente, apparentemente senza cura”. Parleremo di come ciò possa essere successo nella
parte finale di questo capitolo, intitolata “Il modo in cui si evolvono i genomi”.
■ Ogni molecola di DNA che forma un cromosoma lineare
deve contenere un centromero, due telomeri e origini
di replicazione
Una molecola di DNA, per formare un cromosoma funzionante, deve essere
in grado di fare di più che portare semplicemente dei geni: deve essere capace
di replicarsi e le copie replicate devono essere separate e divise correttamente nelle cellule figlie a ogni divisione. Questo processo avviene attraverso una
serie ordinata di fasi, conosciute nel loro insieme come ciclo cellulare, che
forniscono una separazione temporale tra la duplicazione dei cromosomi e la
loro segregazione in due cellule figlie. Il ciclo cellulare è brevemente riassunto nella Figura 4.17 ed è trattato in dettaglio nel Capitolo 17. Brevemente, durante una lunga interfase i geni sono espressi e i cromosomi vengono replicati;
le due repliche rimangono insieme come coppia di cromatidi fratelli. Per tutto
questo tempo i cromosomi sono distesi e molta della loro cromatina è presente all’interno del nucleo come lunghi filamenti, per cui i singoli cromoso-
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4 DNA, cromosomi e genomi
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cromosoma paterno in interfase
fuso
mitotico
cromosoma materno in interfase
ESPRESSIONE
GENICA
E REPLICAZIONE
DEI CROMOSOMI
involucro nucleare
che circonda il nucleo
MITOSI
DIVISIONE
CELLULARE
cromosoma
mitotico
INTERFASE
Figura 4.17 Una visione semplificata del ciclo della
cellula eucariotica. Durante l’interfase la cellula sta
esprimendo attivamente i suoi geni e sta perciò sintetizzando
proteine. Durante l’interfase e prima della divisione cellulare
viene anche replicato il DNA e i cromosomi vengono duplicati
per produrre due molecole di DNA figlie strettamente appaiate
(chiamati cromatidi fratelli). Qui è illustrata una cellula con
un solo tipo di cromosoma, presente con la copia paterna e
materna. Una volta che la replicazione del DNA è completa,
la cellula può entrare nella fase M, quando avviene la mitosi
e il nucleo si divide in due nuclei figli. Durante questa fase
FASE M
INTERFASE
i cromosomi si condensano, l’involucro nucleare si rompe e
si forma il fuso mitotico dai microtubuli e da altre proteine.
I cromosomi mitotici condensati vengono catturati dal fuso
mitotico e una serie completa di cromosomi viene quindi tirata
a ciascuna estremità della cellula, separando ciascuna coppia
di cromosomi figli. Intorno a ciascuna serie di cromosomi si
riforma un involucro nucleare e, nello stadio finale della fase
M, la cellula si divide per produrre due cellule figlie. La maggior
parte del tempo del ciclo cellulare è costituita dall’interfase; la
fase M è in confronto breve e in molte cellule di mammifero
occupa soltanto un’ora circa.
mi non possono essere distinti. Ogni cromosoma si condensa durante il breve
spazio di tempo della mitosi, cosicché i due cromatidi fratelli si possono separare e possono essere distribuiti nei due nuclei figli. I cromosomi altamente
condensati presenti in una cellula in divisione sono noti come cromosomi mitotici (Figura 4.18). Questa è la forma in cui i cromosomi sono più facilmente
visualizzabili; infatti le immagini di cromosomi mostrate finora nel capitolo
sono quelle di cromosomi durante la mitosi.
Un cromosoma opera come unità strutturale distinta: affinché una copia
venga passata a ciascuna cellula figlia durante la divisione ciascun cromosoma deve essere capace di replicarsi e le copie appena replicate devono successivamente separarsi e dividersi correttamente nelle due cellule figlie. Queste
funzioni basilari sono controllate da tre tipi di sequenze nucleotidiche specializzate nel DNA, ciascuna delle quali lega proteine specifiche che guidano il
macchinario che replica e segrega i cromosomi (Figura 4.19).
Esperimenti sui lieviti, i cui cromosomi sono relativamente piccoli e facili
da manipolare, hanno identificato gli elementi minimi di sequenza del DNA
responsabili di ciascuna di queste funzioni. Un tipo di sequenza nucleotidica
agisce da origine di replicazione del DNA, la posizione in cui inizia la duplicazione del DNA. I cromosomi eucariotici contengono molte origini di
replicazione per assicurare che l’intero cromosoma possa essere replicato rapidamente, come vedremo in dettaglio nel Capitolo 5.
Dopo la replicazione i due cromosomi figli restano attaccati l’uno all’altro e, se il ciclo cellulare procede, sono ulteriormente condensati per produrre cromosomi mitotici. La presenza di una seconda sequenza specializzata di
DNA, chiamata centromero, permette a una copia di ciascun cromosoma
duplicato e condensato di essere tirata in ciascuna cellula figlia quando una
cellula si divide. Un complesso proteico chiamato cinetocore si forma sul centromero e attacca i cromosomi duplicati al fuso mitotico, permettendone la
separazione (vedi Capitolo 17).
La terza sequenza specializzata di DNA forma i telomeri, le estremità di
un cromosoma. I telomeri contengono sequenze nucleotidiche ripetute che
Figura 4.18 Un cromosoma mitotico. Un cromosoma mitotico è un cromosoma
condensato duplicato in cui i due nuovi cromosomi, chiamati cromatidi fratelli, sono
ancora uniti insieme (vedi Figura 4.17). La regione di costrizione indica la posizione del
centromero. (Per gentile concessione di Terry D. Allen.)
1 µm
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
196
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Figura 4.19 Le tre sequenze di
DNA necessarie per produrre
un cromosoma eucariotico
che si possa replicare e quindi
segregare durante la mitosi.
Ciascun cromosoma ha origini di
replicazione multiple, un centromero
e due telomeri. Qui è mostrata la
sequenza di eventi che un tipico
cromosoma segue durante il ciclo
cellulare. Il DNA si replica in interfase,
iniziando dalle origini di replicazione
e procedendo bidirezionalmente
dalle origini lungo il cromosoma.
Nella fase M il centromero attacca i
cromosomi duplicati al fuso mitotico,
cosicché una copia viene distribuita
a ciascuna cellula figlia durante la
mitosi; la speciale struttura che unisce
il centromero al fuso è un complesso
proteico chiamato cinetocore (verde
scuro). Il centromero aiuta anche a
tenere insieme i cromosomi duplicati
fino a che sono pronti a essere
separati. I telomeri formano cappucci
speciali a ciascuna estremità del
cromosoma.
INTERFASE
MITOSI
INTERFASE
telomero
origine di
replicazione
DIVISIONE
CELLULARE
+
centromero
cromosoma
replicato
porzione
di fuso mitotico
cromosomi
duplicati
in cellule separate
permettono la replicazione efficiente delle estremità dei cromosomi. I telomeri svolgono anche un’altra funzione: le sequenze ripetute di DNA telomerico,
insieme con le regioni adiacenti, formano strutture che proteggono l’estremità del cromosoma dall’eventualità di essere riconosciuta dalla cellula come
una molecola di DNA spezzato che ha bisogno di essere riparata. Discuteremo questo tipo di riparazione e gli altri aspetti dei telomeri nel Capitolo 5.
Nelle cellule di lievito i tre tipi di sequenza richiesti per propagare un cromosoma sono relativamente brevi (di norma meno di 1000 coppie di basi ciascuna) e perciò usano soltanto una minuscola frazione della capacità di portare
informazioni di un cromosoma. Sebbene le sequenze telomeriche siano abbastanza semplici e brevi in tutti gli eucarioti, le sequenze di DNA che specificano i centromeri e le origini di replicazione negli organismi più complessi
sono molto più lunghe dei loro corrispettivi nel lievito. Per esempio, alcuni
esperimenti suggeriscono che i centromeri umani possano contenere fino a
un milione di coppie di nucleotidi e che non richiedano neppure un tratto di
DNA con una sequenza nucleotidica definita. Invece, come discuteremo più
avanti in questo capitolo, sembra che essi consistano di una grande struttura
ripetuta regolarmente di proteine e acido nucleico, che può essere ereditata
quando un cromosoma si replica.
■ Le molecole di DNA sono altamente condensate
nei cromosomi
Tutti gli organismi eucariotici hanno modi elaborati per compattare il DNA
nei cromosomi. Per esempio, se i 48 milioni di coppie di nucleotidi che formano il cromosoma 22 umano fossero stesi da un’estremità all’altra come una
lunga doppia elica perfetta, il DNA sarebbe lungo circa 1,5 cm. Eppure in
mitosi il cromosoma 22 misura soltanto circa 2 mm di lunghezza (vedi Figure
4.10 e 4.11), con un rapporto di compattamento nel senso della lunghezza di
più di 7000 volte. Questa notevole attività di compressione è eseguita da proteine che avvolgono e piegano il DNA in livelli successivi di organizzazione
sempre più alti. Sebbene meno condensato dei cromosomi mitotici, il DNA
dei cromosomi interfasici è ancora molto compatto.
Leggendo queste sezioni è importante tenere in mente che la struttura dei
cromosomi è dinamica. Abbiamo visto che i cromosomi si condensano in modo estremo nella fase M del ciclo cellulare. Molto meno visibile, ma di enorme interesse e importanza, è il fatto che regioni specifiche dei cromosomi interfasici si decondensano quando le cellule accedono a sequenze specifiche
di DNA per esprimere geni, per riparare il DNA e per replicarlo, e si ricondensano quando questi processi sono stati completati. Il compattamento dei
cromosomi è perciò compiuto in modo da permettere un rapido accesso lo-
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4 DNA, cromosomi e genomi
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calizzato, secondo la necessità, al DNA. Nelle sezioni successive discuteremo
le proteine specializzate che rendono possibile questo tipo di compattamento.
■ I nucleosomi sono l’unità base della struttura dei cromosomi
eucariotici
Le proteine che si legano al DNA per formare i cromosomi eucariotici sono
tradizionalmente divise in due classi generali: gli istoni e le proteine cromosomiche non istoniche; ognuna contribuisce al cromosoma con una massa pari a quella
del DNA. Il complesso di entrambe le classi di proteine con il DNA nucleare
delle cellule eucariotiche è noto come cromatina (Figura 4.20).
Gli istoni sono responsabili del primo livello di base dell’organizzazione
dei cromosomi, il nucleosoma, un complesso DNA-proteine che venne scoperto nel 1974. Quando si aprono molto delicatamente i nuclei interfasici e
se ne esamina il contenuto al microscopio elettronico, la maggior parte della
cromatina è sotto forma di una fibra con un diametro di circa 30 nm (Figura
4.21A). Se questa cromatina viene sottoposta a trattamenti che la fanno svolgere parzialmente, appare al microscopio elettronico come una serie di “perline su un filo” (Figura 4.21B). Il filo è il DNA e ciascuna perlina è una “particella centrale del nucleosoma”, costituita da DNA avvolto intorno a un nucleo proteico formato da istoni (Filmato 4.2 ).
L’organizzazione strutturale dei nucleosomi è stata determinata dopo averli
prima isolati da cromatina svolta per digestione con enzimi particolari (chiamati nucleasi) che spezzano il DNA tagliandolo fra i nucleosomi. In seguito
a digestione per breve tempo il DNA esposto fra le particelle centrali dei nucleosomi, il DNA linker, viene degradato. Ciascuna singola particella centrale del nucleosoma consiste di un complesso di otto proteine istoniche – due
molecole degli istoni H2A, H2B, H3 e H4 – e di DNA a doppio filamento che è lungo 147 coppie di nucleotidi. L’ottamero di istoni forma un nucleo
proteico intorno al quale è avvolto il DNA a doppio filamento (Figura 4.22).
cromatina
DNA
istone
Figura 4.20 La cromatina. Come
illustrato, la cromatina consiste di DNA
legato sia agli istoni sia a proteine
non istoniche. La massa delle proteine
istoniche presenti è più o meno
uguale alla massa totale delle proteine
non istoniche ma, come indicato
schematicamente qui, queste ultime
sono composte da un enorme numero
di differenti specie proteiche. In totale
la massa di un cromosoma è formata
per circa un terzo da DNA e per due
terzi da proteine.
proteine non istoniche
Figura 4.21 Nucleosomi visti
(A)
al microscopio elettronico.
(A) La cromatina isolata direttamente
da un nucleo interfasico appare
al microscopio elettronico come
un filo spesso 30 nm. (B) Questa
micrografia elettronica mostra
un tratto di cromatina che è stata
decompattata sperimentalmente, o
decondensata, dopo l’isolamento per
mostrare i nucleosomi. (A, per gentile
concessione di Barbara Hamkalo;
B, per gentile concessione di Victoria
Foe.)
(B)
50 nm
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4 DNA, cromosomi e genomi
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DNA linker
forma di cromatina
a “perline su un filo”
LA NUCLEASI
DIGERISCE
IL DNA LINKER
particella
centrale
del nucleosoma
rilasciata
istoni del nucleo
del nucleosoma
il nucleosoma
comprende
circa 200 coppie
di nucleotidi di DNA
Figura 4.22 Organizzazione strutturale del nucleosoma. Un nucleosoma contiene
un nucleo proteico composto da otto molecole di istoni. Negli esperimenti biochimici la
particella centrale del nucleosoma può essere rilasciata dalla cromatina per digestione del
DNA linker con una nucleasi, un enzima che spezza il DNA. (La nucleasi può degradare il
DNA linker esposto ma non può attaccare il DNA avvolto strettamente intorno al nucleo
del nucleosoma.) Dopo la dissociazione del nucleosoma isolato nel nucleo proteico e nel
DNA, può essere determinata la lunghezza del tratto di DNA che era avvolto intorno al
nucleo. Questa lunghezza di 147 coppie di nucleotidi è sufficiente per un avvolgimento
di 1,7 volte intorno al nucleo istonico.
Ciascuna particella centrale del nucleosoma è separata dalla successiva da
una regione di DNA linker, che può variare in lunghezza da poche coppie di
nucleotidi fino a circa 80. (Il termine nucleosoma tecnicamente si riferisce a una
particella centrale del nucleosoma più uno dei DNA linker adiacenti, ma spesso è usato come sinonimo della particella centrale del nucleosoma.) In media
perciò i nucleosomi si ripetono a intervalli di circa 200 coppie di nucleotidi.
Per esempio, una cellula umana diploide con 6,4 3 109 coppie di nucleotidi
contiene approssimativamente 30 milioni di nucleosomi. La formazione dei
nucleosomi converte una molecola di DNA in un filo di cromatina la cui dimensione è circa un terzo della lunghezza iniziale.
11 nm
DISSOCIAZIONE
CON ALTA
CONCENTRAZIONE
DI SALI
■ La struttura della particella centrale del nucleosoma rivela il
nucleo ottamerico
di istoni
DNA a doppia elica
di 147 coppie
di nucleotidi
DISSOCIAZIONE
H2A
H2B
H3
H4
modo in cui il DNA • compattato
La struttura ad alta risoluzione di una particella centrale di un nucleosoma,
ottenuta nel 1997, ha rivelato un nucleo di istoni a forma di disco intorno
al quale è strettamente avvolto il DNA per 1,7 giri in un avvolgimento sinistrorso (Figura 4.23). Tutti e quattro gli istoni che compongono il nucleo del
nucleosoma sono proteine relativamente piccole (102-135 amminoacidi) e
hanno un motivo strutturale comune, noto come ripiegamento istonico, formato da tre a eliche connesse da due anse (Figura 4.24). Nell’assemblaggio di un
nucleosoma i ripiegamenti istonici per prima cosa si legano fra loro formando dimeri H3-H4 e H2A-H2B; i dimeri H3-H4 si combinano formando tetrameri. Un tetramero H3-H4 si combina poi con due dimeri H2A-H2B per
formare il nucleo compatto dell’ottamero, intorno al quale si avvolge il DNA.
L’interfaccia fra il DNA e l’istone è estesa: in ciascun nucleosoma si formano 142 legami idrogeno fra il DNA e il nucleo degli istoni. Quasi metà di
questi legami si forma fra l’ossatura degli amminoacidi degli istoni e l’ossatura fosfodiesterica del DNA. Anche numerosi legami salini e numerose in-
Figura 4.23 La struttura di
una particella centrale di un
nucleosoma, determinata
mediante analisi di diffrazione ai
raggi X di cristalli. Ciascun istone
è colorato secondo lo schema della
Figura 4.22, con la doppia elica del
DNA in grigio chiaro. (Adattata da
K. Luger et al., Nature 389:251-260,
1997. Con il permesso di Macmillan
Publishers Ltd.)
doppia elica del DNA
vista laterale
istone H2A
vista dal basso
istone H2B
istone H3
istone H4
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4 DNA, cromosomi e genomi
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Figura 4.24 L’organizzazione
(A)
H2A
C
N
H2B
N
C
H3 N
C
N
H4
C
ripiegamento istonico
coda N-terminale
(B)
N
(D)
N
C
N
ottamero
di istoni
(C)
N
C
C
N
N
strutturale generale degli istoni
del nucleo. (A) Ciascun istone
del nucleo contiene una coda
N-terminale, che è soggetta a diverse
modificazioni covalenti, e una
regione di ripiegamento istonico,
come indicato. (B) La struttura del
ripiegamento istonico, che è formato
da tutti e quattro gli istoni del nucleo.
(C) Gli istoni 2A e 2B formano un
dimero tramite un’interazione nota
come “stretta di mano”. Gli istoni H3
e H4 formano un dimero tramite
lo stesso tipo di interazione.
(D) L’ottamero istonico finale
con avvolto il DNA. Si noti che le
otto code N-terminali degli istoni
protrudono dalla struttura a forma
di disco del nucleo. Queste code, la
cui conformazione è molto flessibile,
servono come sito di legame per
gruppi di altre proteine.
N
N
N
N
N
terazioni idrofobiche tengono insieme DNA e proteine nel nucleosoma. Per
esempio, più di un quinto degli amminoacidi di tutti gli istoni del nucleo è
costituito da lisina o arginina (due amminoacidi con catene laterali basiche)
e le loro cariche positive possono neutralizzare efficacemente l’ossatura del
DNA carica negativamente. Queste numerose interazioni spiegano in parte
perché il DNA praticamente di qualunque sequenza può essere legato a un
nucleo ottamerico di istoni. Il percorso del DNA intorno al nucleo istonico non è rettilineo; si osservano invece parecchie pieghe nel DNA, come ci
si aspetta dalla superficie non uniforme del nucleo. Queste curve richiedono
una compressione sostanziale del solco minore dell’elica del DNA. Certi dinucleotidi nel solco minore sono particolarmente facili da comprimere e alcune sequenze nucleotidiche legano il nucleosoma con maggiore forza di altre (Figura 4.25). Ciò spiega probabilmente alcuni casi sorprendenti, ma non
insoliti, di posizionamento molto preciso dei nucleosomi lungo un tratto di
DNA. La preferenza di sequenza dei nucleosomi deve però essere abbastanza
bassa da permettere ad altri fattori di dominare, in quanto i nucleosomi possono occupare numerose posizioni rispetto alla sequenza di DNA nella maggior parte delle regioni cromosomiche.
Oltre al ripiegamento istonico, ciascun istone del nucleo ha una lunga
“coda” amminoacidica N-terminale, che si estende fuori dal nucleo DNA-istoni (vedi Figura 4.24D). Queste code istoniche sono soggette a parecchi tipi diversi di modificazioni covalenti, che a loro volta controllano aspetti cruciali della struttura e della funzione della cromatina, come vedremo fra breve.
Coerentemente con il loro ruolo fondamentale nella funzione del DNA
tramite il controllo della struttura della cromatina, gli istoni sono fra le proteine eucariotiche più conservate. Per esempio, le sequenze degli amminoacidi dell’istone H4 di un pisello e di una mucca differiscono soltanto in 2 su
102 posizioni. Questa forte conservazione evolutiva suggerisce che le funzioni degli istoni coinvolgano quasi tutti i loro amminoacidi, così che un cambiamento in qualunque posizione è deleterio per la cellula. Nonostante l’alta
conservazione degli istoni, molti organismi eucariotici producono anche varianti specializzate di questi istoni che differiscono nella sequenza degli amminoacidi. Come vedremo, queste varianti, combinate con una gamma sorprendentemente ampia di modificazioni covalenti che possono essere aggiunte agli istoni nei nucleosomi, rendono possibili le molte diverse strutture della cromatina nelle cellule.
G-C preferita qui
(solco minore
all’esterno)
dinucleotidi AA, TT e TA
preferiti qui
(solco minore
nucleo istonico all’interno)
DNA del
del nucleosoma
nucleosoma
(ottamero di istoni)
Figura 4.25 La curvatura del
DNA in un nucleosoma. L’elica
del DNA gira strettamente 1,7 volte
intorno all’ottamero di istoni. Questo
disegno mostra il modo in cui il
solco minore è compresso all’interno
dell’avvolgimento. A causa di certi
aspetti strutturali della molecola del
DNA, i dinucleotidi indicati si trovano
di preferenza in questo solco minore
stretto, il che aiuta a spiegare perché
certe sequenze di DNA si leghino più
strettamente di altre al nucleo del
nucleosoma.
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
200
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■ I nucleosomi hanno una struttura dinamica e sono spesso
soggetti a cambiamenti catalizzati da complessi
di rimodellamento della cromatina dipendenti da ATP
Per molti anni i biologi hanno pensato che, una volta formato in una particolare posizione sul DNA, un nucleosoma rimanesse fisso a causa della stretta
associazione fra gli istoni del nucleo e il DNA. Se ciò fosse vero, sorgerebbero problemi per i meccanismi di lettura genetici, che in linea di principio
richiedono un rapido accesso a molte sequenze specifiche di DNA, oltre
che per il rapido passaggio del macchinario di trascrizione e di replicazione
del DNA attraverso la cromatina. Ma esperimenti cinetici mostrano che il
DNA di un nucleosoma isolato si svolge a partire da ciascuna estremità circa quattro volte al secondo, rimanendo esposto per 10-50 millisecondi prima che la struttura parzialmente svolta si richiuda. Quindi la maggior parte
del DNA di un nucleosoma isolato è in linea di principio disponibile per il
legame ad altre proteine.
Per la cromatina in una cellula è chiaramente richiesto un ulteriore allentamento dei contatti DNA-istoni, perché le cellule eucariotiche contengono una grande varietà di complessi di rimodellamento della cromatina dipendenti
da ATP. Questi complessi comprendono una subunità che idrolizza ATP (una
ATPasi evolutivamente correlata alle DNA elicasi trattate nel Capitolo 5). La
subunità di questi complessi si lega sia al nucleo proteico del nucleosoma che
al DNA a doppio filamento avvolto intorno a esso. Usando l’energia di idrolisi dell’ATP per spostare questo DNA rispetto al nucleo questa subunità cambia temporaneamente la struttura di un nucleosoma, rendendo il DNA legato
meno strettamente al nucleo di istoni.Tramite cicli ripetuti di idrolisi di ATP
i complessi di rimodellamento possono catalizzare lo scorrimento dei nucleosomi
e, tirando il nucleo del nucleosoma lungo la doppia elica del DNA in questo
modo, rendono il DNA del nucleosoma disponibile per altre proteine cellulari (Figura 4.26). Inoltre, cooperando con proteine che legano gli istoni che
servono da chaperoni degli istoni, alcuni complessi di rimodellamento sono caFigura 4.26 Lo scorrimento
dei nucleosomi catalizzato da
complessi di rimodellamento
della cromatina dipendenti da
ATP. (A) Si pensa che il complesso di
rimodellamento, usando l’energia
di idrolisi dell’ATP, spinga sul DNA
del nucleosoma legato e ne allenti
l’attacco sul nucleo del nucleosoma. In
questo disegno ciascun ciclo di legame
di ATP, idrolisi di ATP e rilascio dei
prodotti ADP e Pi sposta così il DNA
rispetto all’ottamero di istoni nella
direzione della freccia. Per produrre lo
scorrimento del nucleosoma mostrato
sono necessari molti di questi cicli.
(B) La struttura di un dimero legato
al nucleosoma delle due identiche
subunità di ATPasi (verde) che fanno
scorrere avanti e indietro i nucleosomi
nei complessi di rimodellamento della
cromatina della famiglia ISW1.
(C) La struttura di un grande
complesso di rimodellamento della
cromatina che mostra come si pensa
sia avvolto intorno a un nucleosoma.
Il complesso di lievito RSC è modellato
in verde. Questo complesso contiene
15 subunità, compresa un’ATPasi e
almeno quattro subunità con domini
che riconoscono specifici istoni
modificati covalentemente. (B, da L.R.
Racki et al., Nature 462:1016-1021,
2009. Con il permesso di Macmillan
Publishers Ltd.; C, modificata da A.E.
Leschziner et al., Proc. Natl. Acad. Sci.
USA 104:4913-4918, 2007.)
complesso di rimodellamento
della cromatina
dipendente da ATP
ATP
ADP
CATALISI
DELLO SCORRIMENTO
DEL NUCLEOSOMA
(A)
(B)
(C)
10 nm
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4 DNA, cromosomi e genomi
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chaperone degli istoni
complesso
di rimodellamento
della cromatina
dipendente da ATP
ATP
ATP
ADP
SCAMBIO
DI DIMERI H2A-H2B
ADP
ATP
DNA privo
di nucleosomi
chaperone
degli istoni
paci di rimuovere il nucleo del nucleosoma in tutto o in parte, catalizzando
uno scambio dei suoi istoni H2A-H2B o la rimozione completa del nucleo
ottamerico dal DNA (Figura 4.27). Le misurazioni hanno dimostrato che nella cellula, come risultato di questi processi, un nucleosoma tipico viene sostituito sul DNA ogni una o due ore.
Le cellule contengono decine di diversi complessi di rimodellamento della cromatina dipendenti da ATP che sono specializzati in ruoli differenti. Per
la maggior parte si tratta di grandi complessi proteici che possono contenere
10 o più subunità, alcune delle quali si legano a specifiche modificazioni degli istoni (vedi Figura 4.26C). L’attività di questi complessi è controllata accuratamente dalla cellula. Quando i geni vengono accesi e spenti i complessi di
rimodellamento della cromatina sono portati in regioni specifiche del DNA,
dove agiscono localmente per influenzare la struttura della cromatina (vedi
Capitolo 7; vedi anche Figura 4.40, più avanti).
Sebbene alcune sequenze di DNA si leghino più strettamente di altre al
nucleo del nucleosoma (vedi Figura 4.25), ciò che influenza maggiormente il posizionamento dei nucleosomi sembra essere la presenza di altre proteine saldamente legate al DNA. Alcune proteine legate favoriscono la formazione di un nucleosoma nelle vicinanze, mentre altre creano ostacoli che
forzano i nucleosomi a spostarsi altrove. Le posizioni esatte dei nucleosomi
lungo un tratto di DNA dipendono perciò soprattutto dalla presenza e dalla natura di altre proteine legate al DNA. A causa della presenza di complessi di rimodellamento dipendenti da ATP la disposizione dei nucleosomi sul
DNA può essere altamente dinamica, cambiando rapidamente secondo le
necessità della cellula.
■ I nucleosomi sono in genere impacchettati in una fibra
compatta di cromatina
Sebbene file enormemente lunghe di nucleosomi si formino sulla maggior
parte del DNA cromosomico, la cromatina in una cellula vivente raramente
adotta la forma estesa a “perline su un filo”. I nucleosomi sono invece compattati l’uno sull’altro, generando schiere regolari in cui il DNA è ancora più
condensato. Così, quando i nuclei vengono lisati molto delicatamente su un
retino per microscopia elettronica, la maggior parte della cromatina è visibi-
ADP
SCAMBIO DEL NUCLEO
DEL NUCLEOSOMA
(OTTAMERO DI ISTONI)
Figura 4.27 Rimozione del
nucleosoma e scambio degli
istoni catalizzati da complessi di
rimodellamento della cromatina
dipendenti da ATP. Cooperando
con chaperoni specifici degli istoni,
alcuni complessi di rimodellamento
della cromatina possono rimuovere
dimeri H2A-H2B da un nucleosoma
(reazioni in alto) e sostituirli con dimeri
che contengono una variante istonica,
come H2AZ-H2B (vedi Figura 4.35).
Altri complessi di rimodellamento
sono attratti su siti specifici della
cromatina e cooperano con
chaperoni degli istoni per rimuovere
completamente l’ottamero di istoni
e/o sostituirlo con un nucleo diverso
del nucleosoma (serie di reazioni in
basso). Qui sono mostrate immagini
molto semplificate del processo.
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
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(B)
(C)
Figura 4.28 Un modello a zigzag della fibra di cromatina di 30 nm. (A) La
conformazione di due dei quattro nucleosomi in un tetranucleosoma, da una struttura
determinata mediante cristallografia ai raggi X. (B) Schema dell’intero tetranucleosoma;
il quarto nucleosoma non è visibile, essendo impilato sul nucleosoma in basso e dietro
di esso in questo disegno. (C) Illustrazione schematica di una possibile struttura
a zigzag che potrebbe spiegare la fibra di cromatina di 30 nm. (A, codice PDB: 1ZBB;
C, adattata da C.L. Woodcock, Nat. Struct. Mol. Biol. 12:639-640, 2005. Con il
permesso di Macmillan Publishers Ltd.)
(A)
Figura 4.29 Un modello ipotetico
per il ruolo svolto dalle code degli
istoni nella compattazione della
cromatina. (A) Questo disegno
schematico mostra i punti di uscita
approssimativi delle otto code degli
istoni, una per ciascuna proteina
istonica, che si estendono da ciascun
nucleosoma. La struttura reale è
mostrata a destra. Nella struttura
ad alta risoluzione del nucleosoma
le code sono in gran parte non
strutturate, suggerendo che siano
altamente flessibili. (B) Come indicato,
si pensa che le code degli istoni
siano coinvolte in interazioni tra i
nucleosomi che favoriscono il loro
compattamento. (A, codice PDB:
1KX5.)
coda H4
coda H2A
coda H2A
le sotto forma di una fibra con un diametro di circa 30 nm, molto più ampia
della cromatina a forma di “perline su un filo” (vedi Figura 4.21).
Il modo in cui i nucleosomi sono compattati nella fibra di cromatina di
30 nm non è ancora chiaro. La struttura di un tetranucleosoma (un complesso
di quattro nucleosomi), ottenuta mediante cristallografia ai raggi X e microscopia elettronica ad alta risoluzione di cromatina ricostituita, è stata usata per
supportare un modello a zigzag per l’impilamento dei nucleosomi nella fibra
di 30 nm (Figura 4.28). Ma la microscopia crioelettronica di nuclei preparati
con molta attenzione indica che la maggior parte della cromatina è strutturata meno regolarmente.
Che cosa provoca un impilamento così stretto dei nucleosomi l’uno sull’altro? I collegamenti nucleosoma-nucleosoma formati dalle code degli istoni,
soprattutto dalla coda di H4, costituiscono un fattore importante (Figura 4.29).
Un altro fattore importante è un istone addizionale spesso presente in un rapporto 1 a 1 con i nuclei dei nucleosomi, l’istone H1. Questo cosiddetto istone linker è più grande dei singoli istoni del nucleo ed è stato conservato assai
meno durante l’evoluzione. Una singola molecola di istone H1 si lega a ciascun nucleosoma, entrando in contatto sia col DNA che con proteine e cambiando il percorso del DNA quando esce dal nucleosoma. Si pensa che questo
cambiamento nel percorso di uscita del DNA aiuti a compattare il nucleosoma (Figura 4.30). La maggior parte degli organismi eucariotici produce parecchi istoni H1 con sequenze amminoacidiche correlate ma piuttosto distinte.
La presenza di molte altre proteine che legano il DNA, oltre a proteine che
si legano direttamente agli istoni, aggiunge certamente caratteristiche importanti a qualunque serie di nucleosomi.
coda H2B
coda H3
coda H4
coda H2B
coda H3
(A)
(B)
CAPITOLO
istone H1
nucleosoma
C
(A)
N
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istone H1
(B)
(C)
SOMMARIO Un gene è una sequenza di nucleotidi in una molecola di DNA che
agisce da unità funzionale per la produzione di una proteina, di un RNA strutturale
o di una molecola di RNA catalitico o regolatore. Negli eucarioti i geni che codificano
proteine sono di solito composti da una fila di introni ed esoni alternati associati a
sequenze regolatrici di DNA. Un cromosoma è formato da una singola molecola
di DNA enormemente lunga che contiene una serie lineare di molti geni, legati a
un’ampia serie di proteine. Il genoma umano contiene 3,2 3 109 coppie di nucleotidi
di DNA, divisi fra 22 autosomi diversi (presenti in due copie ciascuno) e 2 cromosomi
sessuali. Soltanto una piccola percentuale di questo DNA codifica proteine o molecole
funzionali di RNA. Una molecola di DNA cromosomico contiene anche altri tre tipi
di sequenze nucleotidiche funzionalmente importanti: origini di replicazione e
telomeri permettono alla molecola di DNA di essere replicata con efficienza, mentre
un centromero attacca le molecole figlie di DNA al fuso mitotico, assicurandone
l’accurata segregazione nelle cellule figlie durante la fase M del ciclo cellulare.
Il DNA negli eucarioti è saldamente legato a una massa equivalente di istoni, che
formano una schiera ripetuta di particelle DNA-proteine chiamate nucleosomi. Il
nucleosoma è composto da un nucleo ottamerico di proteine istoniche intorno al
quale si avvolge la doppia elica del DNA. I nucleosomi si trovano a intervalli di circa
200 coppie di nucleotidi e sono di solito compattati insieme (con l’aiuto di molecole
di istone H1) in schiere quasi regolari per formare una fibra di cromatina di 30
nm. Nonostante l’alto grado di compattamento nella cromatina, la sua struttura
deve essere altamente dinamica per permettere alla cellula di accedere al DNA.
Si ha un certo grado di svolgimento e di riavvolgimento spontaneo del DNA sul
nucleosoma, ma la strategia generale per cambiare reversibilmente strutture locali
di cromatina utilizza complessi di rimodellamento della cromatina spinti da ATP. Le
cellule contengono una grande serie di questi complessi, che sono indirizzati a regioni
specifiche della cromatina nei momenti appropriati. I complessi di rimodellamento
collaborano con chaperoni di istoni per permettere di riposizionare i nuclei dei
nucleosomi, di ricostituirli con istoni diversi o di rimuoverli completamente per esporre
il DNA sottostante.
La struttura e la funzione della cromatina
Dopo aver analizzato il modo in cui il DNA viene compattato nei nucleosomi per creare una fibra di cromatina, ci occuperemo adesso dei meccanismi
che formano strutture diverse della cromatina in regioni diverse del genoma
di una cellula. Meccanismi di questo tipo hanno varie funzioni importanti nella cellula. Ma ancora più importante è il fatto che alcuni tipi di struttura della
cromatina possono essere ereditati; la struttura può essere quindi trasmessa direttamente da una cellula ai suoi discendenti. Poiché la memoria cellulare che
ne risulta si basa sulla struttura ereditata della cromatina e non su un cambiamento della sequenza del DNA, questa è una forma di ereditarietà epigenetica. Il prefisso epi in greco significa “sopra” ed è particolarmente appropriato
perché l’epigenetica rappresenta una forma di ereditarietà che è sovrapposta
all’ereditarietà genetica basata sul DNA.
Figura 4.30 Il modo in cui l’istone
linker si lega al nucleosoma. Sono
mostrate la posizione e la struttura
dell’istone H1. La regione centrale
dell’istone H1 vincola altre 20 coppie
di nucleotidi di DNA nel punto
in cui questo esce dal nucleo del
nucleosoma ed è importante per la
compattazione della cromatina.
(A) Disegno schematico e (B) struttura
di un singolo nucleosoma dedotta da
una struttura determinata mediante
microscopia elettronica ad alta
risoluzione di una fibra di cromatina
ricostituita (C). (B e C, adattate da
F. Song et al., Science 344:376-380,
2014.)
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
204
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Nel Capitolo 7 presenteremo i molti modi differenti in cui è regolata l’espressione dei geni, analizzeremo in dettaglio l’ereditarietà epigenetica ed esamineremo parecchi meccanismi diversi che possono produrla. Qui ci occuperemo soltanto di uno di essi, quello basato sulla struttura della cromatina.
Inizieremo questa sezione riassumendo le osservazioni che per prime hanno
dimostrato che le strutture della cromatina possono essere ereditate. Successivamente descriveremo alcune delle reazioni chimiche che rendono possibile
questo meccanismo, le modificazioni covalenti degli istoni nel nucleosoma.
Queste modificazioni hanno molte funzioni, dal momento che servono da siti
di riconoscimento per domini proteici che legano complessi proteici specifici nelle regioni appropriate della cromatina. Di conseguenza gli istoni hanno
un effetto sull’espressione genica, come anche su molti altri processi legati al
DNA. Tramite questi meccanismi la struttura della cromatina svolge un ruolo centrale nello sviluppo, nella crescita e nel mantenimento degli organismi
eucariotici, compreso l’uomo.
■ L’eterocromatina è altamente organizzata e limita
l’espressione genica
Studi al microscopio ottico eseguiti negli anni ’30 hanno distinto due tipi di
cromatina nei nuclei interfasici di molte cellule di eucarioti superiori: una forma altamente condensata, chiamata eterocromatina, e la rimanente, che è
meno condensata, chiamata eucromatina. L’eterocromatina rappresenta una
forma particolarmente compatta di cromatina (vedi Figura 4.9), di cui stiamo
finalmente iniziando a comprendere le proprietà molecolari. Essa è altamente concentrata in regioni specifiche, soprattutto nei centromeri e nei telomeri menzionati in precedenza (vedi Figura 4.19), ma è presente anche in molte
altre regioni lungo il cromosoma, regioni che possono variare a seconda dello
stato fisiologico della cellula. In una tipica cellula di mammifero più del 10%
del genoma è compattato in questo modo.
Il DNA nell’eterocromatina contiene pochi geni; quando regioni di eucromatina sono convertite in eterocromatina, come risultato i loro geni sono
generalmente spenti. Tuttavia oggi sappiamo che il termine eterocromatina si
applica a diverse modalità di compattamento della cromatina che hanno conseguenze differenti sull’espressione genica. Pertanto non si deve pensare che
l’eterocromatina incapsuli DNA “morto”, ma che definisca piuttosto i diversi domini di cromatina compatta che hanno la caratteristica comune di essere
insolitamente resistenti all’espressione genica.
■ Lo stato eterocromatico si autopropaga
Un segmento di cromosoma che è normalmente eucromatico può essere traslocato nelle vicinanze di un tratto di eterocromatina per mezzo di rottura e
riunione del cromosoma, sia a causa di un evento genetico naturale che di un
artificio sperimentale. È importante notare come questo spesso causi un silenziamento (inattivazione) dei geni normalmente attivi. Questo fenomeno, che
viene definito effetto di posizione, riflette una diffusione dello stato eterocromatico nella regione originariamente eucromatica e ha fornito prove importanti per capire i meccanismi che creano e mantengono l’eterocromatina. Riconosciuti per la prima volta nella Drosophila, gli effetti di posizione sono ora
osservabili in molti eucarioti, fra cui lieviti, vegetali ed esseri umani.
In eventi di rottura e riunione cromosomica del tipo appena descritto la
zona di silenziamento, dove l’eucromatina è convertita allo stato di eterocromatina, diffonde a distanze differenti in cellule precoci diverse dell’embrione della mosca. È importante notare che queste differenze sono poi perpetuate per il resto della vita dell’animale: in ogni cellula, una volta che si è stabilita la condizione eterocromatica, questa tende a essere ereditata stabilmente da tutta la progenie della cellula (Figura 4.31). Questo fenomeno notevole,
chiamato variegatura da effetto di posizione, è stato riconosciuto per la
prima volta in seguito a un’analisi genetica dettagliata della perdita a zone del
pigmento rosso nell’occhio della mosca (Figura 4.32), ma ha molte caratteristiche in comune con l’estesa diffusione dell’eterocromatina che inattiva uno
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4 DNA, cromosomi e genomi
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1 2 3 4 5
barriera
eterocromatina
eucromatina
geni
1 2 3 4 5
1 2 3 4 5
precocemente nello sviluppo embrionale l’eterocromatina si forma e si diffonde
nell’eucromatina adiacente in misura diversa in cellule diverse
1 2 3 4 5
1 2 3 4 5
1 2 3 4 5
1 2 3 4 5
TRASLOCAZIONE
CROMOSOMICA
proliferazione cellulare
1 2 3 4 5
eterocromatina
eucromatina
clone di cellule
con il gene 1 inattivo
(A)
clone di cellule
con i geni 1, 2 e 3 inattivi
clone di cellule
con nessun gene inattivato
(B)
Figura 4.31 La causa della variegatura da effetto di
posizione nella Drosophila. (A) L’eterocromatina (verde)
normalmente non può diffondere in regioni adiacenti di
eucromatina (rosa) a causa di speciali sequenze barriera, di
cui parleremo fra breve. Nelle mosche che ereditano certi
riarrangiamenti cromosomici, però, questa barriera non è più
presente. (B) Durante lo sviluppo precoce di queste mosche
l’eterocromatina si può diffondere nel DNA cromosomico
adiacente, avanzando per distanze diverse in cellule
diverse. Questa diffusione presto si ferma, ma lo schema
di eterocromatina che si è creato viene ereditato, cosicché
vengono prodotti grandi cloni di cellule discendenti che hanno
gli stessi geni confinanti condensati in eterocromatina e quindi
inattivati (da qui l’aspetto “variegato” di alcune di queste
mosche; vedi Figura 4.32). Il termine “diffusione”, sebbene sia
usato per descrivere la formazione di nuova eterocromatina
vicino a eterocromatina esistente in precedenza, può non essere
completamente preciso. Ci sono prove che durante l’espansione
l’eterocromatina può “saltare” alcune regioni di cromatina,
risparmiando i geni ivi presenti da effetti repressivi.
dei due cromosomi X nelle femmine dei mammiferi. Anche qui un processo casuale agisce in ogni cellula precoce dell’embrione per determinare quale
cromosoma X sarà inattivato; quello stesso cromosoma X rimarrà poi inattivo in tutta la progenie cellulare, creando, nel corpo dell’adulto, un mosaico di
differenti cloni cellulari (vedi Figura 7.50).
Queste osservazioni, nel loro insieme, indicano una strategia fondamentale per la formazione dell’eterocromatina: l’eterocromatina produce altra eterocromatina. Questo meccanismo a feedback positivo può operare sia nello
spazio, causando la diffusione dello stato eterocromatico lungo il cromosoma,
sia nel tempo, attraverso le generazioni cellulari, propagando lo stato eterocromatico della cellula genitrice alle cellule figlie. La sfida è spiegare i meccanismi molecolari che sono alla base di questo straordinario comportamento.
Come primo passo si possono cercare le molecole coinvolte. Questo è stato
fatto per mezzo di screening genetici in cui è stato generato un grande numero
di mutanti, dopo di che sono stati analizzati quelli che mostravano anormalità nel processo in questione. Screening genetici estesi sono stati eseguiti nella
Drosophila, nei funghi e nei topi, hanno identificato più di 100 geni che aumentano o sopprimono la diffusione di eterocromatina e la sua ereditarietà; in
altre parole, geni che aumentano o sopprimono la variegatura causata dall’effetto di posizione. Si è visto che molti di questi geni codificano proteine cro-
il gene White
nella sua posizione
normale
barriera
eterocromatina
rara inversione
cromosomica
barriera
gene White
vicino all’eterocromatina
Figura 4.32 La scoperta
degli effetti di posizione
sull’espressione genica. Il gene
White della Drosophila controlla la
produzione del pigmento nell’occhio
e prende il nome dalla mutazione che
ha portato alla sua identificazione. Le
mosche di tipo selvatico con un gene
White normale (White+) hanno una
normale produzione di pigmento, che
dà come risultato occhi rossi; se però
il gene White è mutato e inattivato,
le mosche mutanti (White–) non
producono pigmento e hanno occhi
bianchi. Nelle mosche in cui un gene
normale White è stato spostato vicino
a una regione di eterocromatina, gli
occhi sono marezzati, con chiazze
sia rosse che bianche. Le chiazze
bianche rappresentano cellule in
cui il gene White è stato silenziato
dagli effetti dell’eterocromatina. Le
chiazze rosse invece rappresentano
cellule che esprimono il gene White.
Durante lo sviluppo precoce, quando
l’eterocromatina si forma per la prima
volta, diffonde nell’eucromatina
circostante in grado diverso nelle
cellule embrionali diverse (vedi Figura
4.31). La presenza di grandi chiazze
di cellule rosse e bianche rivela che
lo stato di attività trascrizionale,
determinato dal compattamento di
questo gene in cromatina in quelle
cellule progenitrici, viene ereditato da
tutte le cellule figlie.
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4 DNA, cromosomi e genomi
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mosomiche non istoniche che interagiscono con gli istoni e sono coinvolti
nella modificazione o nel mantenimento della struttura della cromatina.Tratteremo come funzionano nelle sezioni che seguono.
■ Gli istoni del nucleo sono modificati covalentemente
a livello di molti siti diversi
Le catene laterali degli amminoacidi dei quattro istoni del nucleo del nucleosoma sono soggette a una notevole varietà di modificazioni covalenti, fra cui
acetilazione di lisine, mono-, di- e trimetilazione di lisine, e fosforilazione di
serine (Figura 4.33). Un gran numero di queste modificazioni avviene sulle otto “code degli istoni” N-terminali relativamente non strutturate che sporgono
dal nucleosoma (Figura 4.34).Tuttavia ci sono più di 20 modificazioni specifiche di catene laterali anche sul nucleo globulare del nucleosoma.
Tutti questi tipi di modificazioni sono reversibili: un enzima serve a creare un particolare tipo di modificazione e un altro a rimuoverlo. Questi enzimi sono molto specifici. Così, per esempio, gruppi acetilici sono aggiunti a
lisine specifiche da una serie di istone acetil trasferasi (HAT) diverse e rimossi
da una serie di complessi di istone deacetilasi (HDAC). In modo simile gruppi
metilici sono aggiunti a catene laterali di lisine da una serie di istone metil
trasferasi diverse e rimossi da una serie di istone demetilasi. Ciascun enzima
è reclutato in siti specifici sulla cromatina a tempi definiti della vita di ciascuna cellula. Il reclutamento iniziale di questi enzimi dipende in gran parte da proteine che regolano la trascrizione (talvolta chiamate fattori di trascrizione). Queste proteine riconoscono e si legano a specifiche sequenze di DNA
del cromosoma (vedi Capitolo 7) e vengono prodotte in tempi diversi durante la vita di un organismo, determinando di conseguenza dove e quando
agiranno gli enzimi che modificano la cromatina. Ma, almeno in alcuni casi, le modificazioni covalenti dei nucleosomi possono perdurare a lungo do-
(A) L’ACETILAZIONE E LA METILAZIONE DELLA LISINA SONO REAZIONI IN COMPETIZIONE
H
O
N
C
C
H
CH2
H
H
O
N
C
C
H
CH2
H
O
N
C
C
H
CH2
H
O
N
C
C
H
CH2
H
O
N
C
C
H
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
CH2
N
NH3
C
O
lisina
+
N
H3C
H
+
N
H
H3C
H
+
N
H3C
CH3
+
CH3
CH3
CH3
acetil lisina
monometil lisina
dimetil lisina
trimetil lisina
(B) FOSFORILAZIONE DELLA SERINA
Figura 4.33 Alcuni tipi importanti di modificazioni covalenti di catene
laterali di amminoacidi presenti negli istoni dei nucleosomi. (A) Sono
mostrati tre diversi livelli di metilazione della lisina; ciascuno di essi può essere
riconosciuto da una diversa proteina di legame e quindi può avere un significato
diverso per la cellula. Si noti che l’acetilazione rimuove la carica positiva dalla
lisina e che, cosa della massima importanza, una lisina acetilata non può essere
metilata e viceversa. (B) La fosforilazione della serina aggiunge una carica
negativa a un istone. Le modificazioni non mostrate qui sono la mono- e la
dimetilazione di un’arginina, la fosforilazione di una treonina, l’aggiunta di ADPribosio a un acido glutammico e l’aggiunta di un gruppo di ubiquitina, di SUMO
o di biotina a una lisina.
H
O
N
C
C
H
CH2
H
O
N
C
C
H
CH2
OH
serina
O
O
O
P
_
O
fosfoserina
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4 DNA, cromosomi e genomi
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H3
P
A
A
A A
SGRGKQGGKARAKAKTRSSRAGLQFPVGRV
H3
1
vista laterale
5
9
H2A
13 15
H4
M
P
A
A
A
A
A
PEPAKSAPAPKKGSKKAVTKAQKKDGKKRK
5
12 14 15
20
H2B
2324
A
M
A
A
A
A
M
M
M
M M P
M
M M
P
ARTKQTARKSTGGKAPRKQLATKAARKSAPATGGVK
H2B
H2B
2
H2A
4
9 10
14
1718
23
26 2728
H3
36
H2A
H4
A
A
P M A
M
M
A
A
SGRGKGGKGLGKGGAKRHRKVLRDNIQGIT
H3
H3
H2A
1
3
5
8
12
16
code N-terminali
H2B
domini
globulari
H2B
H4
LEGENDA:
H2A
M metilazione
H4
20
P fosforilazione
A acetilazione
vista dal basso
(A)
(B)
po che le proteine regolatrici che le hanno indotte per la prima volta sono
scomparse, conservando così una memoria della storia di sviluppo della cellula. Fatto ancora più notevole, questa memoria può essere trasmessa da una
generazione cellulare all’altra, come nel fenomeno correlato di variegatura
da effetto di posizione visto prima.
In differenti gruppi di nucleosomi si trovano molti schemi diversi di modificazioni covalenti, a seconda della loro posizione precisa su un cromosoma e lo stato della cellula. Le modificazioni degli istoni sono controllate accuratamente e hanno conseguenze importanti. L’acetilazione di lisine sulle
code N-terminali tende ad allentare la struttura della cromatina, in parte perché l’aggiunta di un gruppo acetilico alle lisine rimuove la loro carica positiva, riducendo così l’affinità delle code per i nucleosomi adiacenti. Tuttavia
l’effetto più profondo delle modificazioni degli istoni è la loro capacità di attrarre proteine specifiche in un tratto di cromatina che è stato modificato in
modo appropriato. La trimetilazione di una lisina specifica sulla coda dell’istone H3, per esempio, attrae la proteina HP1 specifica per l’eterocromatina
e contribuisce al consolidamento e alla diffusione dell’eterocromatina. Più in
generale, le proteine reclutate agiscono con gli istoni modificati per determinare come e quando i geni saranno espressi, così come altre funzioni del
cromosoma. In questo modo la struttura precisa di un dominio di cromatina
determina l’espressione dei geni che contiene e quindi la struttura e la funzione della cellula eucariotica.
■ La cromatina acquisisce un’ulteriore variabilità
tramite l’inserzione sito-specifica di una piccola serie
di varianti istoniche
Oltre ai quattro nuclei istonici standard molto conservati, gli eucarioti contengono anche alcune varianti istoniche che si assemblano nei nucleosomi.
Questi istoni sono presenti in quantità notevolmente inferiori rispetto agli
istoni principali e sono stati conservati in misura minore durante l’evoluzione. A eccezione dell’istone H4, esistono varianti di ciascuno degli istoni del
nucleo; alcuni esempi sono mostrati nella Figura 4.35.
Figura 4.34 Le modificazioni
covalenti delle code degli istoni
del nucleo. (A) La struttura
del nucleosoma che evidenzia
la posizione dei primi 30 amminoacidi
di ciascuna delle sue otto code
istoniche N-terminali (verde).
(B) Sono indicate le modificazioni ben
documentate delle quattro proteine
istoniche del nucleo. Sebbene qui
sia usato un unico simbolo per la
metilazione (M), ciascuna lisina (K)
o arginina (R) può essere metilata in
diversi modi. Si noti anche che alcune
posizioni (per esempio, lisina 9 di H3)
possono essere modificate per
metilazione o acetilazione, ma non
contemporaneamente. La maggior
parte delle modificazioni mostrate
aggiunge una molecola relativamente
piccola alle code degli istoni;
l’eccezione è l’ubiquitina, una proteina
di 76 amminoacidi usata anche per
altri processi cellulari (vedi Figura
3.69). Anche se non mostrate ci sono
poi più di 20 modificazioni possibili
localizzate nel nucleo globulare
degli istoni. (A, codice PDB: 1KX5;
B, adattata da H. Santos-Rosa e
C. Caldas, Eur. J. Cancer 41:23812402, 2005. Con il permesso di
Elsevier.)
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4 DNA, cromosomi e genomi
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ripiegamento istonico
FUNZIONE SPECIALE
H3
H3.3
attivazione trascrizionale
CENP-A
inserto ad ansa
funzione del centromero
e assemblaggio del cinetocore
H2A
H2AX
riparazione e
ricombinazione del DNA
H2AZ
espressione genica,
segregazione dei cromosomi
macroH2A
repressione trascrizionale,
inattivazione del cromosoma X
ripiegamento istonico
Figura 4.35 La struttura di alcune varianti istoniche confrontata con l’istone
principale che sostituiscono. Questi istoni sono inseriti nei nucleosomi in siti
specifici dei cromosomi da enzimi che rimodellano la cromatina dipendenti da ATP che
agiscono di concerto con chaperoni degli istoni (vedi Figura 4.27). Una variante CENP-A
(centromere protein-A, proteina centromerica A) dell’istone H3 è trattata più avanti in
questo capitolo (vedi Figura 4.42); altre varianti sono trattate nel Capitolo 7. Le sequenze
colorate in modo differente in ciascuna variante (confrontate con l’istone principale
sopra) denotano regioni con una sequenza amminoacidica diversa dalla sequenza
corrispondente dell’istone principale. (Adattata da K. Sarma e D. Reinberg, Nat. Rev. Mol.
Cell Biol. 6:139-149, 2005. Con il permesso di Macmillan Publishers Ltd.)
Gli istoni principali sono sintetizzati soprattutto durante la fase S del ciclo
cellulare e assemblati in nucleosomi sulle eliche figlie di DNA appena dietro
la forcella di replicazione (vedi Figura 5.32). La maggior parte delle varianti istoniche è invece sintetizzata durante l’interfase. Questi istoni sono spesso
inseriti in cromatina già formata, il che richiede un processo di scambio degli
istoni catalizzato dai complessi di rimodellamento della cromatina dipendenti da ATP discussi in precedenza. Questi complessi di rimodellamento contengono subunità che ne provocano il legame a siti specifici sulla cromatina
e a chaperoni degli istoni con una variante particolare. Come risultato, ciascuna variante istonica è inserita nella cromatina in maniera altamente selettiva (vedi Figura 4.27).
■ Le modificazioni covalenti e le varianti istoniche
agiscono in maniera concertata per controllare
le funzioni cromosomiche
Il numero delle diverse marcature possibili su un singolo nucleosoma è teoricamente enorme e questo potenziale di diversità è ancora più grande se prendiamo in considerazione i nucleosomi che contengono varianti istoniche.Tuttavia, sappiamo che le modificazioni istoniche avvengono in serie coordinate. Nelle cellule di mammifero possono essere identificate più di 15 di queste
serie. Non è però ancora chiaro quanti tipi diversi di cromatina sono importanti funzionalmente per la cellula.
Alcune combinazioni sembrano avere un significato specifico per la cellula perché determinano come e quando il DNA compattato nei nucleosomi è accessibile o manipolabile, il che ha portato all’ipotesi di un codice istonico. Per esempio, un tipo di marcatura segnala che un tratto di cromatina è
stato appena replicato, un altro segnala che il DNA presente in quella cromatina è stato danneggiato e necessita di riparazione, mentre molti altri tipi
segnalano quando e dove deve avvenire l’espressione dei geni. Diverse proteine regolatrici contengono piccoli domini che si legano a marcature specifiche, riconoscendo per esempio una lisina 4 trimetilata sull’istone H3 (Fi-
CAPITOLO
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CH3
CH3
H3C
Zn
N+
Zn
(A)
Arg2
Lys4
Thr6
Thr3
Gln5
(B)
(C)
Figura 4.36 Il modo in cui viene letta la marcatura
su un nucleosoma. La figura mostra la struttura di un
modulo proteico (definito dominio ING PHD) che riconosce
specificamente l’istone H3 trimetilato sulla lisina 4. (A)
Gruppo trimetilico. (B) Modello a spazio pieno di un dominio
ING PHD legato alla coda di un istone (verde, con il gruppo
trimetilico evidenziato in giallo). (C) Un modello a nastro
che mostra come vengono riconosciuti i sei amminoacidi
N-terminali della coda di H3. Le linee rosse rappresentano
i legami idrogeno. Questo è un membro della famiglia di
domini PHD che riconoscono lisine metilate sugli istoni;
domini diversi si legano strettamente a lisine che si trovano in
posizioni diverse e possono anche distinguere fra una lisina
mono-, di- e trimetilata. In modo simile altri piccoli moduli
proteici riconoscono catene laterali di istoni specifici che sono
stati marcati con gruppi acetilici, gruppi fosfato e così via.
(Adattata da P.V. Peña et al., Nature 442:100-103, 2006. Con
il permesso di Macmillan Publishers Ltd.)
gura 4.36). Questi
domini sono spesso associati in modo da formare moduli
in una singola grande proteina o complesso proteico, che in questo modo riconosce una specifica combinazione di modificazioni istoniche (Figura 4.37).
Il risultato è un complesso che legge il codice (o di lettura), che permette a particolari combinazioni di marcature della cromatina di attrarre ulteriori complessi proteici che svolgono una funzione biologica appropriata nel momento giusto (Figura 4.38).
Le marcature sui nucleosomi dovute a modificazioni covalenti degli istoni sono dinamiche e vengono costantemente rimosse e aggiunte a velocità che dipendono dalle loro posizioni cromosomiche. Poiché le code degli
istoni si estendono verso l’esterno a partire dal nucleo dei nucleosomi ed è
probabile che siano accessibili anche quando la cromatina è condensata, si
uscita della coda H3
dal nucleo
N-terminale
Ala
uscita della coda H4
dal nucleo
Figura 4.37 Riconoscimento di
una specifica combinazione di
marcature su un nucleosoma.
Nell’esempio mostrato due domini
adiacenti che sono parte del complesso
di rimodellamento della cromatina NURF
(nucleosome remodelling factor, fattore
di rimodellamento nucleosomico) legano
il nucleosoma, con il dominio PHD (rosso)
che riconosce una lisina 4 di H3 metilata
e un altro dominio (un bromodominio,
azzurro) che riconosce una lisina 16
di H4 acetilata. Queste due marcature
istoniche costituiscono uno schema
di modificazione unico che avviene in
sottogruppi di nucleosomi nelle cellule
umane. Qui le due code istoniche sono
indicate da linee verdi tratteggiate ed è
mostrata solo metà di un nucleosoma.
(Modificata da A.J. Ruthenburg et al.,
Cell 145:692-706, 2011. Con il permesso
di Elsevier.)
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4 DNA, cromosomi e genomi
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Figura 4.38 Disegno schematico
moduli proteici che si legano
a modificazioni specifiche
degli istoni sul nucleosoma
che mostra il modo in cui una
particolare combinazione di
modificazioni istoniche può essere
riconosciuta da un complesso che
legge il codice. Un grande complesso
proteico che contiene una serie di
moduli proteici, ciascuno dei quali
riconosce una marcatura istonica
specifica, è illustrato schematicamente
(verde). Questo “complesso che
legge il codice” si legherà con forza
soltanto su una regione di cromatina
che contiene alcune delle marcature
istoniche che riconosce. Perciò
soltanto una combinazione specifica
di marcature farà legare il complesso
alla cromatina e attrarrà ulteriori
complessi proteici (viola) necessari per
catalizzare una funzione biologica.
proteina
impalcatura
complesso
che legge
il codice
modificazione
covalente
sulla coda
di un istone
(marcatura)
IL COMPLESSO CHE LEGGE
IL CODICE SI LEGA E ATTRAE
ALTRE COMPONENTI
complesso proteico
con attività catalitica
e ulteriori siti di legame
attacco ad altri componenti nel nucleo, che porta
all’espressione genica, al silenziamento genico
o a un’altra funzione biologica
Figura 4.39 Alcuni significati
specifici delle modificazioni
istoniche. (A) Sono mostrate le
modificazioni sulla coda N-terminale
dell’istone H3, come nella Figura
4.34. (B) La coda di H3 può essere
marcata da combinazioni diverse
di modificazioni che agiscono in
combinazione per conferire un
significato specifico. Sono noti
soltanto pochi significati, fra i
quali i tre esempi mostrati. Non è
illustrato il fatto che, come abbiamo
appena detto (vedi Figura 4.38), la
lettura di una marcatura istonica in
genere coinvolge il contemporaneo
riconoscimento di marcature in
altri siti nel nucleosoma insieme
al riconoscimento della coda
dell’istone H3, come indicato. Inoltre
sono generalmente richiesti livelli
specifici di metilazione (gruppi mono-,
di- o trimetilici). Quindi, per esempio,
la trimetilazione della lisina 9 attrae la
proteina specifica dell’eterocromatina
HP1, che induce un’onda di diffusione
di ulteriore trimetilazione della lisina 9
seguita da un ulteriore attacco di HP1,
secondo lo schema generale che
verrà illustrato fra breve (vedi Figura
4.40). In questo processo è anche
importante, tuttavia, la trimetilazione
sinergica sulla lisina 20 della coda
N-terminale dell’istone H4.
ritiene che costituiscano un substrato particolarmente adatto a creare marcature in una forma che può essere facilmente alterata quando cambiano le
necessità della cellula. Sebbene resti ancora molto da scoprire sul significato delle numerose diverse combinazioni del codice istonico, alcuni esempi
ben studiati dell’informazione che può essere codificata nella coda dell’istone H3 sono elencati nella Figura 4.39.
(A)
A
M
M M
P
A
M
A
M
A
M
A
M
M P
M
R
K
KS
K
RK
K
RK S
K
2
4
9 10
14
17 18
23
26 27 28
36
(B)
stato di modificazione
istone
H3
“significato”
trimetile
M
formazione di eterocromatina,
silenziamento genico
K
9
trimetile
M
A
K
K
4
9
espressione genica
trimetile
M
K
27
silenziamento genico
(complesso repressore Polycomb)
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
211
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■ Un complesso di proteine di lettura e di scrittura
del codice può diffondere modificazioni specifiche della
cromatina a grande distanza lungo un cromosoma
Il fenomeno della variegatura da effetto di posizione descritto in precedenza
richiede che almeno alcune forme modificate di cromatina abbiano la capacità di diffondere per notevoli distanze lungo una molecola di DNA cromosomico (vedi Figura 4.31). In che modo ciò può accadere?
Gli enzimi che modificano gli istoni (o rimuovono modificazioni) nei nucleosomi fanno parte di complessi multisubunità e possono essere portati all’inizio in una particolare regione di cromatina da una delle proteine che legano sequenze specifiche di DNA (proteine che regolano la trascrizione), che
tratteremo nei Capitoli 6 e 7 (per un esempio specifico, vedi Figura 7.20). Ma
dopo che un enzima modificatore ha “scritto” la sua sigla su uno o più nucleosomi adiacenti, possono seguire eventi che assomigliano a una reazione a catena. In questo caso l’enzima che “scrive il codice” lavora insieme a una proteina che “legge il codice” situata nello stesso complesso proteico. La proteina
che legge il codice contiene un modulo che riconosce la marcatura e si lega
con forza al nucleosoma appena modificato (vedi Figura 4.36), posizionando
il suo enzima di scrittura attaccato vicino a un nucleosoma adiacente.Tramite molti di questi cicli di lettura e scrittura la proteina di lettura può portare
l’enzima di scrittura lungo il DNA, diffondendo la marcatura passo dopo passo lungo il cromosoma (Figura 4.40).
In realtà il processo è più complicato dello schema appena descritto. Sia i
lettori che gli scrittori fanno parte di un complesso di proteine che contiene
proteina che regola i geni
enzima che modifica
gli istoni (di scrittura)
Figura 4.40 Il modo in cui il
proteina di lettura del codice
modificazione dell’istone (marcatura)
IL NUOVO COMPLESSO
DI LETTURA-SCRITTURA
SI LEGA
RIPETIZIONI
DIFFUSIONE DELL’ONDA DI CONDENSAZIONE DELLA CROMATINA
reclutamento di un complesso di
lettura-scrittura può diffondere
cambiamenti della cromatina
lungo un cromosoma. Lo scrittore
è un enzima che crea modificazioni
specifiche su uno o più dei quattro
istoni del nucleosoma. Dopo il suo
reclutamento in un sito specifico
di un cromosoma da parte di una
proteina che regola la trascrizione,
la proteina di scrittura collabora con
una proteina che legge il codice
per diffondere la sua marcatura
da nucleosoma a nucleosoma per
mezzo del complesso di letturascrittura indicato. Affinché questo
meccanismo funzioni il lettore deve
riconoscere la stessa modificazione
degli istoni prodotta dalla proteina di
scrittura: il suo legame alla marcatura
può attivare la proteina di scrittura.
In questo esempio schematico è
indotta un’onda di diffusione della
condensazione della cromatina.
Non sono mostrate le altre proteine
coinvolte, compreso un complesso
rimodellatore della cromatina
ATP-dipendente necessario per
riposizionare i nucleosomi modificati.
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4 DNA, cromosomi e genomi
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probabilmente più lettori e scrittori e che per diffondere richiede marcature multiple sul nucleosoma. Inoltre molti di questi complessi lettori-scrittori contengono anche proteine di rimodellamento della cromatina dipendenti
da ATP (vedi Figura 4.26C); le proteine di lettura, di scrittura e di rimodellamento lavorano di concerto per decondensare o condensare lunghi tratti di
cromatina man mano che il lettore si sposta progressivamente lungo il DNA
compattato nei nucleosomi.
Un processo simile è usato per rimuovere le modificazioni istoniche da una
regione specifica del DNA; in questo caso un “enzima che cancella”, come
un’istone metilasi o un’istone deacetilasi, viene reclutato nel complesso. Come
per il complesso di scrittura della Figura 4.40, proteine che legano il DNA in
maniera sequenza-specifica (regolatori della trascrizione) danno istruzioni su
dove debbano avvenire queste modificazioni (vedi Capitolo 7).
Ci si può fare un’idea della complessità dei processi appena descritti dai risultati degli screening genetici per geni mutanti che fanno aumentare o sopprimono la diffusione e la stabilità dell’eterocromatina in test della variegatura da effetto di posizione nella Drosophila (vedi Figura 4.32). Come abbiamo
osservato in precedenza, sono noti più di 100 geni di questo tipo, la maggior
parte dei quali codifica probabilmente delle subunità in uno o più complessi
proteici di lettura-scrittura-rimodellamento.
■ Sequenze barriera di DNA bloccano la diffusione
dei complessi di lettura-scrittura separando così domini
adiacenti di cromatina
Il meccanismo appena descritto per la diffusione di strutture di cromatina solleva un possibile problema. Poiché ciascun cromosoma consiste di una molecola ininterrotta di DNA molto lunga, che cosa impedisce che domini adiacenti di cromatina “parlino” fra loro creando confusione? I primi studi sulla
variegatura da effetto di posizione avevano suggerito una risposta: l’esistenza
di sequenze specifiche di DNA che separano un dominio di cromatina dall’altro (vedi Figura 4.31). Oggi sono state identificate e caratterizzate diverse sequenze barriera di questo tipo mediante l’uso di tecniche di ingegneria genetica che permettono di rimuovere o di aggiungere ai cromosomi regioni specifiche di sequenza di DNA.
Per esempio, in cellule destinate a dare origine a eritrociti, una sequenza chiamata HS4 separa normalmente il dominio di cromatina attiva che contiene il
locus della b-globina umana da una regione adiacente di cromatina condensata
silenziata negli eritrociti. Se questa sequenza viene deleta, il locus della b-globina viene invaso da cromatina condensata. Questa cromatina silenzia i geni che
ricopre e diffonde in grado diverso in cellule diverse, creando uno schema di
variegatura da effetto di posizione simile a quello osservato nella Drosophila. Come descritto nel Capitolo 7, questa invasione ha conseguenze disastrose: i geni
della globina sono espressi a basso livello e gli individui portatori di questa delezione soffrono di una forma grave di anemia.
In esperimenti di ingegneria genetica la sequenza HS4 viene spesso aggiunta alle estremità di un gene che viene inserito in un genoma di mammifero, per proteggere il gene dal silenziamento causato dalla diffusione dell’eterocromatina. L’analisi di questa sequenza barriera rivela che essa contiene un
gruppo di siti di legame per enzimi istone acetilasi. Dal momento che l’acetilazione di una catena laterale di lisina è incompatibile con la metilazione della
stessa catena laterale, e metilazioni specifiche della lisina sono necessarie per
diffondere l’eterocromatina, le istone acetilasi e le istone deacetilasi sono candidati logici per la formazione di barriere sul DNA che bloccano la diffusione di forme diverse di cromatina (Figura 4.41). Tuttavia sono noti diversi altri
tipi di modificazione della cromatina che proteggono i geni dal silenziamento.
■ La cromatina dei centromeri rivela il modo in cui le varianti
istoniche possono creare strutture speciali
I nucleosomi che portano varianti istoniche hanno caratteri distintivi e si
pensa che possano produrre marcature nella cromatina che hanno una du-
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
213
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(A)
Figura 4.41 Alcuni meccanismi
poro nucleare
eterocromatina
in diffusione
eucromatina
proteina barriera
(B)
proteina barriera
(C)
proteina barriera
rata insolitamente lunga. Un esempio importante è fornito dalla formazione
e dall’ereditarietà della struttura specializzata della cromatina che si trova sui
centromeri, la regione di DNA di ciascun cromosoma necessaria per l’attacco
al fuso mitotico, e dalla segregazione ordinata delle copie duplicate del genoma nelle cellule figlie a ogni divisione cellulare. In molti organismi complessi, compreso l’uomo, ciascun centromero è immerso in un tratto molto esteso
di eterocromatina centromerica che permane per tutta l’interfase, anche se l’attacco al fuso mediato dal centromero e il movimento diretto dal centromero del
DNA avvengono soltanto durante la mitosi. Questa cromatina contiene una
variante dell’istone H3 specifica del centromero, nota come CENP-A (centromeric protein-A: proteina A del centromero, vedi Figura 4.35), oltre a ulteriori
proteine che compattano i nucleosomi in disposizioni particolarmente dense
e formano il cinetocore, la struttura speciale necessaria per l’attacco del fuso
mitotico (vedi Figura 4.19).
Una sequenza specifica di DNA di circa 125 coppie di nucleotidi è sufficiente come centromero nel lievito S. cerevisiae. Nonostante le piccole dimensioni,
più di una decina di proteine diverse si assembla su questa sequenza di DNA;
le proteine comprendono la variante dell’istone H3 CENP-A che, insieme agli
altri tre istoni del nucleo, forma un nucleosoma centromero-specifico. Le proteine addizionali che si legano al centromero del lievito attaccano questo nucleosoma a un singolo microtubulo del fuso mitotico del lievito (Figura 4.42).
I centromeri degli organismi più complessi sono considerevolmente più
grandi di quelli presenti nei lieviti gemmanti. Per esempio, i centromeri della mosca e dell’uomo si estendono per centinaia di migliaia di coppie di nucleotidi e, pur contenendo CENP-A, non sembrano contenere una sequenza di DNA centromero-specifica. Questi centromeri consistono di brevi sequenze ripetute di DNA, note come DNA satellite alfa nell’uomo. Ma le stesse sequenze ripetute si trovano anche in altre posizioni (non centromeriche)
sui cromosomi, il che indica che non sono sufficienti a dirigere la formazione
del centromero. Ancora più sorprendente è il fatto che, in alcuni casi insoliti,
è stata osservata la formazione spontanea di nuovi centromeri umani (chiamati neocentromeri) su cromosomi frammentati. Alcune delle nuove posizioni
erano in origine eucromatiche e del tutto prive di DNA satellite alfa (Figura
4.43). Sembra perciò che i centromeri degli organismi complessi siano definiti
da un gruppo di proteine e non da una sequenza specifica di DNA.
dellÕazione di barriera. Questi
modelli sono derivati da analisi
diverse dell’azione di barriera;
una combinazione di alcuni di essi
può funzionare in qualunque sito.
(A) L’attacco di una regione di
cromatina a un grande sito fisso,
come il complesso del poro nucleare
illustrato qui, può formare una
barriera che blocca la diffusione
dell’eterocromatina. (B) Lo stretto
legame di proteine barriera a un
gruppo di nucleosomi può competere
con la diffusione dell’eterocromatina.
(C) Reclutando un gruppo di enzimi
molto attivi che modificano gli istoni,
le barriere possono cancellare le
marcature istoniche necessarie per la
diffusione dell’eterocromatina. Per
esempio, una potente acetilazione
della lisina 9 sull’istone H3 competerà
con la metilazione della lisina 9,
impedendo così l’attacco della
proteina HP1 necessario per produrre
alcune forme di eterocromatina.
(Basata su A.G. West e P. Fraser,
Hum. Mol. Genet. 14:R101-R111,
2005. Con il permesso della Oxford
University Press.)
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
214
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Figura 4.42 Un modello per
la struttura di un semplice
centromero. (A) Nel lievito
Saccharomyces cerevisiae una
sequenza speciale di DNA
centromerico assembla un singolo
nucleosoma in cui due copie di una
variante H3 istonica (chiamata CENP-A
nella maggior parte degli organismi)
sostituiscono l’H3 normale. (B) Viene
mostrato il modo in cui sequenze
peptidiche esclusive di questa variante
istonica (vedi Figura 4.35) aiutano ad
assemblare ulteriori proteine, alcune
delle quali formano un cinetocore.
Il cinetocore di lievito è insolito in
quanto cattura un solo microtubulo; gli
esseri umani hanno centromeri molto
più grandi e formano cinetocori che
possono catturare 20 o più microtubuli
(vedi Figura 4.43). Il cinetocore è
discusso in dettaglio nel Capitolo 17.
(Adattata da A. Joglekar et al., Nat. Cell
Biol. 8:581-585, 2006. Con il permesso
di Macmillan Publishers Ltd.)
nucleosoma
normale
nucleosoma
con istone H3
specifico del centromero
(A)
proteina che lega
una sequenza specifica
di DNA
DNA centromerico
di lievito
microtubulo
cinetocore di lievito
(B)
nucleosoma
specifico
del centromero
ripetizione di ordine superiore
monomero di DNA satellite alfa
(171 coppie di nucleotidi)
centromero attivo
(A)
eterocromatina
pericentrica
centromero inattivo
con DNA satellite alfa
non funzionale
Figura 4.43 La prova della plasticità della formazione del
centromero umano. (A) Una serie di sequenze ricche di A-T
di DNA satellite alfa è ripetuta molte migliaia di volte in ciascun
centromero umano (rosso), circondata da eterocromatina
pericentrica (marrone). Tuttavia, a causa di un antico evento
di rottura e riunione del cromosoma, alcuni cromosomi umani
contengono due blocchi di DNA satellite alfa, ciascuno dei
quali funzionava presumibilmente da centromero nel suo
cromosoma originale. Di solito questi cromosomi dicentrici
non vengono propagati stabilmente perché si attaccano in
modo inappropriato al fuso e si spezzano durante la mitosi.
Nei cromosomi che riescono a sopravvivere, però, uno dei
centromeri è stato in qualche modo inattivato, anche se
contiene tutte le sequenze di DNA necessarie. Ciò permette al
cromosoma di essere propagato stabilmente. (B) Cromosomi
extra si osservano nelle cellule di una piccola frazione (1/2000)
(B)
neocentromero formato
senza DNA satellite alfa
di neonati umani. Alcuni di questi cromosomi extra, che si
sono formati per un evento di rottura, sono del tutto privi di
DNA satellite alfa, eppure nuovi centromeri (neocentromeri)
si sono generati da ciò che in origine era DNA eucromatico.
La complessità della cromatina centromerica non è illustrata
in questi disegni. Il DNA satellite alfa che forma la cromatina
centromerica negli esseri umani è impacchettato in blocchi
alternati. Un blocco è formato da una lunga stringa di
nucleosomi che contengono la variante CENP-A dell’istone H3;
l’altro blocco contiene nucleosomi che sono marcati in modo
speciale con lisina 4 dimetilica sul cromosoma H3 normale.
Ogni blocco è più lungo di 1000 nucleotidi. La cromatina
centromerica è circondata da eterocromatina pericentrica, come
mostrato. La cromatina pericentrica contiene lisina 9 metilata
sull’istone H3, insieme alla proteina HP1, ed è un esempio di
eterocromatina “classica” (vedi Figura 4.39).
L’inattivazione di alcuni centromeri e la formazione de novo di altri sembra
avere svolto un ruolo essenziale nell’evoluzione. Specie diverse, anche strettamente correlate, hanno spesso un numero di cromosomi differente; si veda la
Figura 4.14 per un esempio estremo. Come discuteremo in seguito, una comparazione dettagliata dei genomi mostra che in molti casi il cambiamento nel
numero di cromosomi si è generato per mezzo di eventi di rottura e riunione
dei cromosomi preesistenti, creando in questo modo nuovi cromosomi, alcuni dei quali all’inizio devono aver avuto un numero di centromeri anomalo,
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
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anche più di uno o nessuno.Tuttavia, un’ereditarietà stabile richiede che ciascun cromosoma contenga un unico centromero. Sembra che i centromeri
soprannumerari siano stati disattivati e/o nuovi centromeri siano stati creati in modo da permettere che la configurazione riarrangiata dei cromosomi
fosse mantenuta stabilmente.
■ Alcune strutture della cromatina possono essere ereditate
direttamente
I cambiamenti nell’attività dei centromeri appena trattati, una volta stabiliti,
devono essere perpetuati attraverso le generazioni cellulari seguenti. Quale potrebbe essere il meccanismo alla base di questo tipo di ereditarietà epigenetica?
È stato proposto che la formazione de novo di un centromero richieda un
evento iniziale di semina, che comporta la formazione di una struttura specializzata DNA-proteina che contiene nucleosomi formati con la variante CENP-A dell’istone H3. Negli esseri umani questo evento di semina avviene più facilmente su serie di DNA satellite alfa che su altre sequenze di
DNA. I tetrameri H3-H4 di ciascun nucleosoma dell’elica di DNA parentale sono ereditati direttamente dalle eliche di DNA figlie a livello della forcella di replicazione (vedi Figura 5.32). Perciò, una volta che una serie di nucleosomi che contengono CENP-A è stata assemblata su un tratto di DNA, è
facile comprendere come si possa generare un nuovo centromero nello stesso punto di entrambi i cromosomi figli dopo ciascun ciclo di divisione cellulare. Bisogna solo assumere che la presenza di un istone CENP-A presente
in un nucleosoma ereditato recluti selettivamente altri istoni CENP-A nelle
sue nuove vicinanze.
Esistono delle somiglianze sorprendenti fra la formazione e il mantenimento dei centromeri e la formazione e il mantenimento di altre regioni di
eterocromatina. In particolare, l’intero centromero si forma come un’entità
“tutto o nulla”, suggerendo che la creazione della cromatina centromerica sia
un processo altamente cooperativo, che emerge a partire da un evento iniziale,
in un modo che ricorda il fenomeno della variegatura da effetto di posizione
che abbiamo trattato in precedenza. In entrambi i casi una struttura particolare di cromatina, una volta formata, sembra essere ereditata direttamente sul
DNA dopo ogni ciclo di replicazione cromosomica. Quindi un reclutamento
cooperativo di proteine, insieme all’azione di complessi scrittori-lettori, può
non solo spiegare la diffusione di forme di cromatina specifiche nello spazio
lungo il cromosoma, ma anche la sua propagazione attraverso le generazioni
cellulari, dalla cellula parentale alla cellula figlia (Figura 4.44).
Figura 4.44 Il modo in cui il
proteine dell’eterocromatina
nucleosomI
modificazione
degli istoni
eterocromatina
eucromatina
DUPLICAZIONE
DEL CROMOSOMA
NUOVE PROTEINE
DELL’ETEROCROMATINA
AGGIUNTE A ISTONI MODIFICATI
IN MODO APPROPRIATO
eterocromatina
eucromatina
eterocromatina
eucromatina
compattamento del DNA nella
cromatina può essere ereditato
durante la replicazione del
cromosoma. In questo modello
alcuni dei componenti specializzati
della cromatina sono distribuiti a
ciascun cromosoma figlio dopo la
duplicazione del DNA, insieme ai
nucleosomi marcati in modo speciale
a cui si legano. Dopo la replicazione
del DNA i nucleosomi ereditati che
sono modificati in modo speciale,
agendo di concerto con i componenti
ereditati della cromatina, cambiano
lo schema di modificazione degli
istoni sui nucleosomi figli circostanti
appena formati. Ciò crea nuovi siti
di legame per gli stessi componenti
della cromatina, che si assemblano
quindi per completare la struttura.
Quest’ultimo processo coinvolge
probabilmente complessi lettorescrittore-rimodellamento che agiscono
in maniera simile a quella illustrata in
precedenza nella Figura 4.40.
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
216
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■ Esperimenti con embrioni di rana suggeriscono che sia
le strutture di cromatina attivanti che quelle inattivanti
possano essere ereditate epigeneticamente
L’ereditarietà epigenetica ha un ruolo centrale nella creazione degli organismi pluricellulari. I loro tipi cellulari differenziati si stabilizzano durante lo
sviluppo e persistono una volta differenziati nonostante cicli ripetuti di divisioni cellulari. Le figlie di una cellula del fegato continuano a esistere come
cellule del fegato, quelle di una cellula epidermica come cellule epidermiche
e così via, nonostante contengano lo stesso patrimonio genetico; ciò può avvenire perché gli schemi caratteristici di espressione genica sono trasmessi fedelmente dalla cellula parentale alla cellula figlia. La struttura della cromatina
ha un ruolo in questa trasmissione epigenetica dell’informazione da una generazione cellulare alla successiva.
Prove al riguardo vengono da studi in cui il nucleo di una cellula di una
rana o di un girino è trapiantato in una cellula uovo di rana il cui nucleo è
stato rimosso (una cellula uovo enucleata). Una serie di esperimenti classici svolti nel 1968 ha dimostrato che un nucleo preso da una cellula donatrice differenziata può essere riprogrammato in questo modo per sostenere lo
sviluppo di un nuovo girino (vedi Figura 7.2). Questa riprogrammazione avviene però con difficoltà e diventa sempre meno efficiente se si usano nuclei
di animali più vecchi: per esempio, meno del 2% di oociti enucleati iniettati con un nucleo derivante da una cellula epiteliale di un girino allo stadio di
girino che nuota, invece del 35% quando i nuclei donatori sono stati presi da
un embrione precoce (stadio di gastrula). Con nuovi strumenti sperimentali ora si può individuare la causa di questa resistenza alla riprogrammazione.
Essa ha origine, almeno in parte, perché specifiche strutture di cromatina nel
nucleo originario differenziato tendono a persistere e a essere trasmesse attraverso i molti cicli di divisione cellulare necessari allo sviluppo dell’embrione.
In esperimenti con embrioni di Xenopus è stato dimostrato che strutture di
cromatina sia attivanti che inattivanti possono persistere per 24 cicli di divisione cellulare, causando l’espressione di geni in zone non corrette. La Figura
4.45 descrive brevemente uno di questi esperimenti, incentrato sulla cromatina contenente la variante istonica H3.3.Torneremo su questi fenomeni nella
parte finale del Capitolo 22, dove tratteremo le cellule staminali e i modi in
cui un tipo cellulare si trasforma in un altro.
■ Le strutture della cromatina sono importanti per la funzione
dei cromosomi eucariotici
Sebbene resti ancora molto da scoprire sulle funzioni delle diverse strutture
della cromatina, il compattamento del DNA nei nucleosomi è stato probabilmente cruciale per l’evoluzione di eucarioti come gli esseri umani. L’evoluzione di organismi pluricellulari complessi sembra poter avvenire soltanto
se le cellule di linee diverse possono specializzarsi cambiando l’accessibilità e
l’attività di molte centinaia di geni. Come vedremo nel Capitolo 21, ciascuna
cellula conserva la memoria della storia passata del suo sviluppo nei circuiti
regolatori che controllano i suoi molti geni. Sembra che questa memoria sia
in parte conservata nella struttura della cromatina.
Sebbene anche i batteri abbiano meccanismi di memoria cellulare, la complessità dei circuiti di memoria negli eucarioti superiori è senza precedenti.
Strategie basate sulle variazioni locali della struttura della cromatina, caratteristica unica degli eucarioti, possono far sì che singoli geni, una volta accesi
o spenti, possano restare in quello stato finché nuovi fattori non intervengono per invertire la loro condizione. A un estremo si trovano le strutture come
l’eterocromatina centromerica che, una volta formate, vengono ereditate stabilmente da una generazione cellulare alla successiva. Alla stessa maniera, il tipo più importante di eterocromatina “classica”, che contiene lunghe file della
proteina HP1 (vedi Figura 4.39), può persistere stabilmente per tutta la vita,
mentre una forma di cromatina condensata generata dal gruppo di proteine
Polycomb serve per silenziare geni che devono essere mantenuti inattivi in
certe condizioni, ma che sono attivi in altre. Quest’ultimo tipo di eterocro-
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
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cellule dei somiti
che esprimono MyoD
oocita enucleato
embrione di Xenopus
donatore
trasferimento nucleare
embrione allo stadio di 2 cellule
iniezione di mRNA
codificante
H3.3 normale
nessuna
iniezione
(controllo)
iniezione di mRNA
codificante
H3.3 mutante
embrione
allo stadio
di blastula
le cellule sono analizzate per quantificare l’espressione di MyoD
e la presenza dell’istone H3.3 sul promotore di MyoD
MEMORIA
EPIGENETICA
DI MyoD ALTA
(è prodotta molta proteina
MyoD)
MEMORIA
EPIGENETICA
DI MyoD
MODERATA
MEMORIA
EPIGENETICA
DI MyoD BASSA
(è prodotta poca proteina
MyoD)
matina silenzia un elevato numero di geni che codificano proteine regolatrici della trascrizione durante lo sviluppo embrionale precoce, come vedremo
nel Capitolo 21. Esistono molte altre forme di cromatina, alcune con una vita molto più breve, spesso inferiore al tempo di divisione della cellula. Tratteremo la varietà di tipi di cromatina più in dettaglio nella prossima sezione.
SOMMARIO Nonostante l’assemblaggio uniforme del DNA cromosomico nei
nucleosomi, negli organismi eucariotici è possibile una grande varietà di strutture
diverse della cromatina. Questa varietà si basa su un’ampia serie di modificazioni
covalenti reversibili dei quattro istoni del nucleo del nucleosoma. Queste modificazioni
comprendono mono-, di- e trimetilazione di molte catene laterali di lisine diverse,
una reazione importante che è incompatibile con l’acetilazione delle stesse lisine.
Combinazioni specifiche delle modificazioni marcano molti nucleosomi, governando
così la loro interazione con altre proteine. Queste marcature vengono lette quando
moduli proteici che fanno parte di un complesso proteico più grande si legano ai
nucleosomi modificati in una regione di cromatina. Queste proteine che leggono il
codice attraggono quindi ulteriori proteine che svolgono funzioni diverse.
Alcuni complessi di proteine che leggono il codice contengono un enzima che
modifica gli istoni, come un’istone metilasi, che “scrive” lo stesso segno recepito dal
lettore del codice. Un complesso di lettura-scrittura-rimodellamento di questo tipo può
diffondere una forma specifica di cromatina a grandi distanze lungo un cromosoma.
In particolare, si pensa che grandi regioni di eterocromatina condensata si formino in
questo modo. L’eterocromatina si trova comunemente intorno ai centromeri e vicino
ai telomeri, ma è presente anche in molte altre posizioni sui cromosomi. Lo stretto
compattamento del DNA in eterocromatina di solito silenzia i geni al suo interno.
Il fenomeno della variegatura da effetto di posizione fornisce una buona prova
dell’ereditarietà diretta di forme condensate di cromatina da una generazione cellulare
all’altra. Sembra che un meccanismo simile sia responsabile del mantenimento della
cromatina specializzata dei centromeri. Più in generale, la capacità di trasmettere
strutture specifiche di cromatina da una generazione cellulare alla successiva fornisce
le basi di un processo di memoria cellulare epigenetico che è probabilmente cruciale
per il mantenimento della complessa serie di diversi stati cellulari richiesti dagli
organismi pluricellulari complessi. ●
Figura 4.45 Dimostrazione
dell’ereditarietà di uno stato della
cromatina che attiva geni. Il gene
ben caratterizzato MyoD codifica una
delle principali proteine regolatrici
della trascrizione nel muscolo, MyoD
(vedi p. 420). Normalmente questo
gene è espresso nella regione del
giovane embrione indicata, dove si
formano i somiti. Quando un nucleo
derivante da questa regione viene
iniettato in un oocita enucleato
come mostrato, molti nuclei cellulari
della progenie esprimono in maniera
anomala la proteina MyoD in regioni
non muscolari dell’”embrione da
trapianto nucleare” che si forma.
Questa espressione anormale può
essere attribuita al mantenimento
della regione promotrice di MyoD
nel suo stato di cromatina attiva
attraverso i molti cicli di divisione
cellulare che producono lo stato
embrionale di blastula, una cosiddetta
“memoria epigenetica”, che in questo
caso persiste in assenza di trascrizione.
La cromatina attiva che circonda
il promotore di MyoD contiene la
variante istonica H3.3 (vedi Figura
4.35) in una forma metilata in Lys4.
Come indicato, una sovrapproduzione
di questo istone causata iniettando
mRNA codificante la proteina H3.3
normale in eccesso, aumenta sia
l’occupazione del promotore di MyoD
da parte di H3.3, sia la produzione
epigenetica di MyoD, mentre
l’iniezione di un mRNA che codifica
una forma mutante di H3.3 che non
può essere metilata nella Lys4 riduce
la produzione epigenetica di MyoD.
Questi esperimenti forniscono la
prova che l’ereditarietà di un certo
stato della cromatina è responsabile
della memoria epigenetica osservata.
(Adattata da R.K. Ng e J.B. Gurdon,
Nat. Cell Biol. 10:102-109, 2008. Con
il permesso di Macmillan Publishers
Ltd.)
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
218
© 978-88-08-62126-9
cromatina estesa
in un dominio ad ansa
10 µm
cromatidi
fratelli
cromatina
meno
condensata
cromatina
altamente
condensata
Figura 4.46 Un modello per
i domini di cromatina in un
cromosoma a spazzola. È mostrata
una piccola parte di una coppia di
cromatidi fratelli. Qui due doppie
eliche di DNA identiche sono
allineate fianco a fianco, compattate
in due tipi diversi di cromatina. La
serie di cromosomi a spazzola in
molti anfibi contiene un totale di
circa 10 000 anse di cromatina che
assomigliano a quelle mostrate
qui. Il resto del DNA in ciascun
cromosoma (la grande maggioranza)
resta altamente condensato. Quattro
copie di ciascuna ansa sono presenti
in ogni cellula, poiché ciascuno dei
due cromosomi mostrati in alto
consiste di due cromosomi appena
replicati strettamente giustapposti.
Questa struttura a quattro filamenti
è caratteristica di questo momento
dello sviluppo dell’oocita, che è stato
fermato allo stadio di diplotene della
meiosi; vedi Figura 17.56.
Figura 4.47 Cromosomi a
spazzola. (A) Una fotografia al
microscopio ottico di cromosomi a
spazzola di un oocita di anfibio. In
una fase precoce del differenziamento
dell’oocita ciascun cromosoma
si replica per iniziare la meiosi e i
cromosomi omologhi replicati si
appaiano formando questa struttura
molto estesa che contiene un totale
di quattro molecole replicate di
DNA, o cromatidi. Lo stadio del
cromosoma a spazzola perdura per
mesi o anni, mentre l’oocita accumula
una scorta di materiali necessari per
il suo sviluppo finale in un nuovo
individuo. (B) Una regione ingrandita
di un cromosoma simile, colorato
con un reagente fluorescente che
rende chiaramente visibili le anse
attive nella sintesi di RNA. (Per gentile
concessione di Joseph G. Gall.)
La struttura globale dei cromosomi
Dopo aver discusso il DNA e le molecole proteiche che compongono la fibra
di cromatina, occupiamoci adesso dell’organizzazione del cromosoma su una
scala più globale e del modo in cui i suoi vari domini sono disposti nello spazio.
Sotto forma di una fibra di 30 nm un tipico cromosoma umano sarebbe ancora lungo 0,1 cm e capace di attraversare il nucleo più di 100 volte. Chiaramente deve esserci un livello ancora superiore di ripiegamento, anche nei cromosomi interfasici. Sebbene le sue basi molecolari siano ancora in gran parte ignote, il compattamento di ordine superiore quasi certamente comporta il ripiegamento della cromatina in una serie di anse e spirali. Questo compattamento
della cromatina è fluido e cambia spesso in risposta alle necessità della cellula.
Inizieremo descrivendo alcuni cromosomi interfasici insoliti che possono
essere facilmente visualizzati, in quanto si pensa che alcune caratteristiche di
questi casi eccezionali siano rappresentative di tutti i cromosomi interfasici.
Inoltre essi forniscono un mezzo unico per studiare alcuni aspetti fondamentali della struttura della cromatina che abbiamo incontrato nella sezione precedente. Descriveremo poi il modo in cui un tipico cromosoma interfasico
è disposto nel nucleo di una cellula di mammifero. Infine analizzeremo l’ulteriore compattamento di dieci volte che i cromosomi interfasici subiscono
durante il passaggio dall’interfase alla mitosi.
■ I cromosomi sono ripiegati in grandi anse di cromatina
Informazioni sulla struttura dei cromosomi delle cellule interfasiche sono state ottenute grazie a studi sui rigidi ed estesi cromosomi negli oociti in crescita (uova immature) degli anfibi. Questi cosiddetti cromosomi a spazzola (i
cromosomi più grandi conosciuti), appaiati in preparazione alla mitosi, sono
chiaramente visibili anche al microscopio ottico: sono organizzati in una serie di grandi anse di cromatina che si dipartono da un asse cromosomico lineare (Figura 4.46 e Figura 4.47).
(A)
100 µm
(B)
20 µm
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
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proteine che legano
il DNA
formazione
di legami crociati
sonde a DNA usate per la PCR
TRATTAMENTO
CON
FORMALDEIDE
TAGLIO
CON
NUCLEASI
DI
RESTRIZIONE
Figura 4.48 Un metodo per determinare la posizione
delle anse nei cromosomi interfasici. In questa tecnica, nota
come metodo di cattura della conformazione dei cromosomi
(3C), le cellule sono trattate con formaldeide per creare i legami
crociati covalenti indicati DNA-proteina e DNA-DNA. Il DNA viene
quindi trattato con una nucleasi di restrizione che spezza il DNA
in molti frammenti, tagliando a livello di sequenze nucleotidiche
definite strettamente e formando serie di “estremità coesive”
identiche (vedi Figura 8.28). Le estremità coesive possono essere
unite tramite appaiamento complementare delle basi. Cosa
LEGATURA
DEL
DNA
RIMOZIONE
DEI LEGAMI
CROCIATI
MEDIANTE
TRATTAMENTO
AL CALORE
E PROTEOLISI
si ottiene un prodotto di DNA
soltanto se le proteine
tengono insieme le due
sequenze di DNA nella cellula
importante, prima del passaggio di legatura mostrato il DNA
viene diluito in modo che i frammenti che sono stati mantenuti
in stretta vicinanza (dai legami crociati) siano quelli che si
uniranno con maggiore probabilità. Infine i legami crociati sono
spezzati e i frammenti di DNA appena legati sono identificati e
quantificati mediante PCR (la reazione a catena della polimerasi,
vedi Capitolo 8). Combinando l’informazione di frequenza di
associazione generata dalla tecnica 3C con l’informazione di
sequenza del DNA si possono produrre modelli strutturali per la
conformazione dei cromosomi interfasici.
In questi cromosomi una data ansa contiene sempre la stessa sequenza di
DNA e rimane estesa nello stesso modo mentre l’oocita cresce. Questi cromosomi stanno producendo grandi quantità di RNA per l’oocita e moltissimi geni presenti nelle anse di DNA sono attivamente espressi. La maggior
parte del DNA, tuttavia, non è in forma di anse ma rimane altamente condensata sull’asse del cromosoma, dove i geni sono generalmente non espressi.
Si pensa che i cromosomi interfasici di tutti gli eucarioti siano disposti in
anse. Sebbene queste anse siano normalmente troppo piccole e fragili per essere osservate facilmente al microscopio ottico, si possono usare altri metodi per dedurne la presenza. Per esempio, è diventato possibile stabilire la frequenza con cui due loci su un cromosoma interfasico si appaiano fra loro, rivelando così probabili candidati per i siti sulla cromatina che formano le basi strettamente giustapposte delle strutture ad ansa (Figura 4.48). Questi e altri
esperimenti suggeriscono che il DNA nei cromosomi umani sia organizzato
in anse di lunghezze diverse. Una tipica ansa potrebbe contenere da 50 000 a
200 000 coppie di nucleotidi, anche se è stato suggerito che esistano anse di
un milione di nucleotidi (Figura 4.49).
■ I cromosomi politenici sono utili in quanto permettono
di visualizzare le strutture della cromatina
Ulteriori indicazioni sono venute da un’altra particolare classe di cellule, le
cellule politeniche delle mosche, come il moscerino della frutta Drosophila. Alcuni tipi di cellule, in molti organismi, diventano di dimensioni enormi tra-
Figura 4.49 Un modello per
l’organizzazione di un cromosoma
interfasico. Una sezione di un
cromosoma interfasico è mostrata
ripiegata in una serie di domini ad
ansa, ciascuno contenente circa
50 000-200 000 coppie di nucleotidi
di DNA a doppia elica condensato
in una fibra di 30 nm. La cromatina
di ogni singola ansa è ulteriormente
condensata tramite processi di
ripiegamento poco compresi che si
invertono quando la cellula richiede
un accesso diretto al DNA compattato
in queste anse. Non si comprende
ancora né la composizione dell’asse
cromosomico postulato né come la
fibra di 30 nm ripiegata sia ancorata
all’asse del cromosoma, ma nei
cromosomi mitotici le basi delle anse
cromosomiche sono arricchite sia di
condensine (trattate più avanti) che
di DNA topoisomerasi II (trattate nel
Capitolo 5), due proteine che possono
formare una buona parte dell’asse in
metafase.
alto livello
di espressione
dei geni
dell’ansa
dominio ad ansa
fibra
di cromatina
ripiegata
enzimi che modificano
gli istoni
complessi che rimodellano
la cromatina
RNA polimerasi
proteine che formano l’impalcatura del cromosoma
CONTROLLO
DEI SEGMENTI
UNITI
MEDIANTE PCR
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
220
© 978-88-08-62126-9
Figura 4.50 L’intera serie di
cromosomi politenici di una
cellula salivare di Drosophila. In
questo disegno di una micrografia
ottica i cromosomi giganti sono stati
sparsi per visualizzarli schiacciandoli
contro un vetrino da microscopio. La
Drosophila ha quattro cromosomi e
sono presenti quattro diverse coppie
di cromosomi. Ma ciascun cromosoma
è strettamente appaiato con il suo
omologo (così che ciascuna coppia
appare come una struttura singola), il
che non accade nella maggior parte
dei nuclei (se non durante la meiosi).
Ciascun cromosoma ha subito cicli
multipli di replicazione; gli omologhi
e tutti i loro duplicati sono rimasti
in registro esatto fra loro, formando
enormi cavi di cromatina dello
spessore di molti filamenti di DNA.
I quattro cromosomi politenici sono
normalmente uniti fra loro da regioni
eterocromatiche vicine ai centromeri
che si aggregano formando un
singolo grande cromocentro (regione
rosa). In questa preparazione, però, il
cromocentro è stato spezzato in due
dalla tecnica di schiacciamento usata.
(Adattata da T.S. Painter, J. Hered.
25:465-476, 1934. Con il permesso
della Oxford University Press.)
Figura 4.51 Micrografie
di cromosomi politenici di
ghiandole salivari di Drosophila.
(A) Micrografia ottica di una
porzione di un cromosoma. Il DNA
è stato colorato con un colorante
fluorescente, ma qui è presentata
un’immagine invertita che rende
il DNA nero invece che bianco; le
bande si vedono chiaramente come
regioni a concentrazione maggiore
di DNA. Questo cromosoma è
stato sottoposto a un trattamento
ad alta pressione per mostrare più
chiaramente il suo schema distinto
di bande e interbande. (B) Una
micrografia elettronica di una piccola
sezione di un cromosoma politenico di
Drosophila visto in sezione sottile. Si
possono distinguere facilmente bande
di spessore molto diverso, separate
da interbande, che contengono
cromatina meno condensata. (A,
adattata da D.V. Novikov, I. Kireev
e A.S. Belmont, Nat. Methods
4:483-485, 2007. Con il permesso
di Macmillan Publishers Ltd.; B, per
gentile concessione di Veikko Sorsa.)
braccio destro
del cromosoma 2
cromosomi mitotici
normali
alla stessa scala
regione in cui
due cromosomi
omologhi
sono separati
braccio sinistro
del cromosoma 2
cromosoma X
cromosoma 4
cromocentro
braccio sinistro
del cromosoma 3
20 µm
braccio destro
del cromosoma 3
mite cicli multipli di sintesi di DNA senza divisione cellulare. Queste cellule
che contengono più del normale corredo di DNA sono dette poliploidi. Nelle
ghiandole salivari delle larve di moscerino questo processo è portato a un grado estremo, generando cellule enormi che contengono centinaia o migliaia di
copie del genoma. Inoltre, in questo caso, tutte le copie di ciascun cromosoma sono tenute insieme fianco a fianco in perfetto registro, come cannucce in
una scatola, creando grandi cromosomi politenici. Questi cromosomi permettono di evidenziare caratteristiche che si pensa siano in comune con cromosomi normali in interfase, ma che sono difficili da vedere.
Quando i cromosomi politenici di una ghiandola salivare di moscerino
vengono osservati al microscopio ottico, sono visibili bande scure e interbande chiare alternate (Figura 4.50), ciascuna formata da un migliaio di sequenze
identiche di DNA disposte fianco a fianco in registro. Circa il 95% del DNA
nei cromosomi politenici è in bande e il 5% è in interbande. Una banda molto sottile può contenere 3000 coppie di nucleotidi, mentre una banda spessa
può contenerne 200 000 in ciascuno dei suoi filamenti di cromatina. La cromatina in ciascuna banda appare scura perché il DNA è più condensato del
DNA nelle interbande e può anche contenere una percentuale maggiore di
proteine (Figura 4.51). Questo schema di bandeggio sembra riflettere lo stesso tipo di organizzazione osservato nei cromosomi a spazzola degli anfibi descritto in precedenza.
interbande
bande
(A)
2 µm
(B)
1 µm
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
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Ci sono approssimativamente 3700 bande e 3700 interbande nella serie
completa di cromosomi politenici di Drosophila. Le bande possono essere riconosciute dai loro differenti spessori e spaziature; a ciascuna è stato assegnato un numero per generare una “mappa” cromosomica che è stata indicizzata
alla sequenza completa del genoma di questa mosca.
I cromosomi politenici di Drosophila rappresentano un buon punto di partenza per esaminare il modo in cui la cromatina è organizzata su larga scala.
Nella sezione precedente abbiamo visto che esistono molte forme di cromatina, ciascuna delle quali contiene nucleosomi con una combinazione diversa
di istoni modificati. Serie specifiche di proteine non istoniche si assemblano
sui nucleosomi per influenzare la funzione biologica in modi diversi. Alcune
di queste proteine non istoniche possono diffondere a grandi distanze lungo
il DNA, impartendo una struttura simile alla cromatina di regioni contigue
del genoma (vedi Figura 4.40). Tali regioni, in cui tutta la cromatina ha una
struttura simile, sono separate dai domini confinanti mediante proteine barriera (vedi Figura 4.41). A bassa risoluzione, il cromosoma interfasico può essere
perciò considerato un mosaico di strutture di cromatina, ciascuna contenente modificazioni particolari dei nucleosomi associate a una serie particolare
di proteine non istoniche. I cromosomi politenici ci permettono di osservare
al microscopio ottico i dettagli di questo mosaico di domini, ma anche alcuni dei cambiamenti associati all’espressione genica.
■ Esistono molteplici forme di cromatina
Mediante colorazione con anticorpi specifici o mediante l’uso di una tecnica più recente chiamata analisi ChIP (immunoprecipitazione della cromatina, vedi Capitolo 8), si possono mappare sia le proteine istoniche sia quelle
non istoniche presenti nella cromatina dell’intera sequenza di DNA del genoma di un organismo. Tale analisi in Drosophila ha permesso finora di localizzare più di 50 diverse proteine della cromatina e modificazioni istoniche. I
risultati indicano che in questo organismo predominano tre tipi principali di
cromatina con funzione repressiva, insieme a due tipi principali di cromatina in cui i geni vengono attivamente trascritti, e che ciascun tipo è associato
a un complesso differente di proteine non istoniche. Perciò l’eterocromatina
classica contiene più di sei di tali proteine, compresa la proteina dell’eterocromatina 1 (HP1), mentre la forma di eterocromatina cosiddetta Polycomb
contiene un numero simile di proteine di un gruppo diverso (proteine PcG).
Oltre ai principali cinque tipi di cromatina sembra siano presenti altre forme
meno rappresentate di cromatina, ognuna delle quali potrebbe essere regolata
in maniera differente e avere ruoli diversi nella cellula.
Il gruppo di proteine legate alla cromatina in un certo locus varia a seconda del tipo cellulare e del suo stato di sviluppo. Queste variazioni fanno sì che
l’accessibilità a geni specifici sia diversa nei differenti tessuti, contribuendo a
generare la diversificazione cellulare che accompagna lo sviluppo embrionale (descritto nel Capitolo 21).
■ Le anse di cromatina si decondensano quando i geni
al loro interno vengono espressi
Quando un insetto progredisce da uno stadio di sviluppo all’altro si formano puff (sbuffi) cromosomici distinti e i puff vecchi scompaiono dai cromosomi
politenici man mano che vengono espressi nuovi geni e vecchi geni vengono
spenti (Figura 4.52). Dall’esame di ciascun puff, quando è relativamente piccolo e lo schema di bandeggio è ancora riconoscibile, sembra che la maggior
parte di essi derivi dal decondensamento di una singola banda cromosomica.
Le singole fibre di cromatina che compongono un puff possono essere
visualizzate al microscopio elettronico. Nei casi favorevoli si vedono delle
anse, molto simili a quelle osservate nei cromosomi a spazzola degli anfibi.
Quando non è espressa, l’ansa di DNA assume una struttura ispessita, forse di una fibra ripiegata di 30 nm, ma quando c’è espressione dei geni l’ansa
diventa più estesa. Nelle micrografie elettroniche la cromatina posta su entrambi i lati dell’ansa decondensata appare decisamente più compatta, sug-
sintesi di RNA
10 µm
Figura 4.52 Sintesi di RNA nei
puff dei cromosomi politenici.
Un’autoradiografia di un singolo
puff in un cromosoma politenico
delle ghiandole salivari del moscerino
Chironomus tentans. Come accennato
nel Capitolo 1 e descritto in dettaglio
nel Capitolo 6, il primo passaggio
dell’espressione genica è la sintesi
di una molecola di RNA usando il
DNA come stampo. La porzione
decondensata del cromosoma sta
sintetizzando RNA e viene perciò
marcata con 3H-uridina, un precursore
dell’RNA che è incorporato nelle
catene in crescita di RNA. (Per gentile
concessione di José Bonner.)
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
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Figura 4.53 Visualizzazione simultanea dei territori cromosomici di tutti i
cromosomi umani in un singolo nucleo interfasico. Qui varie sonde a DNA per
ciascun cromosoma sono state marcate con coloranti che sono fluorescenti a diversa
lunghezza d’onda; questo permette di usare l’ibridazione DNA-DNA per identificare
ciascun cromosoma, come nella Figura 4.10. Successivamente viene prodotta questa
ricostruzione tridimensionale.
Sotto alla micrografia ciascun cromosoma è identificato in un disegno schematico
dell’immagine reale. Si noti che i due cromosomi omologhi (per esempio, le due copie del
cromosoma 9) in genere non sono colocalizzati. (Da M.R. Speicher e N.P. Carter, Nat. Rev.
Genet. 6:782-792, 2005. Con il permesso di Macmillan Publishers Ltd.)
10 µm
9
3
11
10
4
19 9
13 21
14
15
22
1
8
12
7
3
8
6
X
13
14
12
2
4
7
15 17
18
6
21
5 20
17
Figura 4.54 La distribuzione
delle regioni ricche di geni del
genoma umano in un nucleo
interfasico. Le regioni ricche di
geni sono state visualizzate con una
sonda fluorescente che ibrida con
le ripetizioni sparse Alu, presenti
in più di un milione di copie nel
genoma umano (vedi p. 308). Per
ragioni sconosciute queste sequenze
si raggruppano nelle regioni
cromosomiche ricche di geni. In
questa rappresentazione le regioni
ricche di sequenze Alu sono verdi, le
regioni che hanno poche di queste
sequenze sono rosse, mentre le
regioni con un contenuto medio sono
gialle. Le regioni ricche di geni sono
largamente assenti nel DNA vicino
all’involucro nucleare. (Da A. Bolzer
et al., PLoS Biol. 3:826-842, 2005.)
gerendo che un’ansa costituisca un dominio funzionale indipendente della
struttura della cromatina.
Osservazioni eseguite nelle cellule umane suggeriscono anche che anse altamente ripiegate di cromatina si espandano occupando un volume maggiore
quando un gene al loro interno viene espresso. Per esempio, regioni cromosomiche quiescenti da 0,4 a 2 milioni di coppie di nucleotidi appaiono come punti compatti in un nucleo interfasico quando questo è osservato al microscopio a fluorescenza, ma lo stesso DNA occupa un territorio più ampio
quando i suoi geni sono espressi, con strutture allungate e punteggiate che sostituiscono il punto iniziale.
Nuovi modi di visualizzare i singoli cromosomi hanno dimostrato che
ciascuno dei 46 cromosomi interfasici presenti in una cellula umana tende a
occupare un territorio distinto caratteristico all’interno del nucleo: ne consegue che i cromosomi non sono aggrovigliati tra loro (Figura 4.53). Tuttavia
fotografie come questa presentano soltanto un’immagine media del DNA di
ciascun cromosoma. Esperimenti che localizzano in modo specifico le regioni eterocromatiche di un cromosoma rivelano che queste sono spesso strettamente associate alla lamina nucleare, indipendentemente dal cromosoma esaminato. Sonde a DNA che colorano specificamente regioni ricche di geni dei
cromosomi umani producono un’immagine sorprendente del nucleo interfasico che presumibilmente riflette posizioni medie diverse per i geni attivi e
per quelli inattivi (Figura 4.54).
Come è condensata la maggior parte della cromatina in ciascun cromosoma in interfase quando i suoi geni non sono espressi? Una potente variante del metodo di cattura della conformazione cromosomica descritto precedentemente (vedi Figura 4.48), che utilizza una tecnologia di sequenziamento
del DNA ad alta processività chiamata sequenziamento massivo parallelo (vedi Quadro 8.1, pp. 506-509), permette di congiungere tutti i diversi segmenti
di una megabase (1 Mb) del genoma umano che devono essere mappati nei
cromosomi umani in interfase. I risultati rivelano che la maggior parte delle
regioni dei nostri cromosomi è ripiegata in una conformazione definita globulo frattale: una disposizione senza nodi che facilita al massimo un denso impacchettamento, preservando al contempo la capacità della fibra di cromatina
di dipanarsi e di ripiegarsi (Figura 4.55).
■ La cromatina si può spostare in siti specifici all’interno
del nucleo per alterare l’espressione dei geni
Tipi diversi di esperimenti hanno portato alla conclusione che la posizione
di un gene all’interno del nucleo cambia quando viene espresso ad alto livello. Così si osserva che una regione che diventa trascritta molto attivamente si
estende talvolta fuori dal territorio del suo cromosoma, come se si trovasse in
un’ansa estesa (Figura 4.56).Vedremo nel Capitolo 6 che l’inizio della trascrizione – il primo passaggio dell’espressione genica – richiede l’assemblaggio
di più di 100 proteine, e ha senso che ciò avvenga più rapidamente in regioni
del nucleo particolarmente ricche di queste proteine.
Più in generale, è chiaro che il nucleo è molto eterogeneo, con regioni
funzionalmente diverse nelle quali si possono muovere porzioni di cromosomi quando sono soggette a processi biochimici diversi, come quando cambia
la loro espressione genica. Questo è il prossimo argomento di cui tratteremo.
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
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cromosoma
,5 megabasI
Figura 4.55 Un modello a
RIPIEGAMENTO DEL CROMOSOMA
NEL NUCLEO
nucleo
territorio del cromosoma
sezione trasversale
■ Reti di macromolecole formano una serie di ambienti
globulo frattale per la cromatina
interfasica. Per misurare quanto
ognuno dei tremila segmenti da 1 Mb
fosse vicino a ognuno degli altri
segmenti è stata usata un’estensione
del metodo 3C della Figura 4.48,
chiamato Hi-C. I risultati sono in
accordo con il tipo di modello
mostrato. Nel globulo frattale
ingrandito qui illustrato si vede una
regione di 5 milioni di coppie di
basi avvolta in modo da mantenere
regioni che sono vicine lungo l’elica
di DNA unidimensionale, vicine anche
nelle tre dimensioni. Ciò dà origine
ai blocchi monocromatici di questa
rappresentazione, che sono evidenti
sia in superficie che in sezione. Il
globulo frattale è una conformazione
senza nodi del DNA che permette
un denso compattamento, ma che
mantiene la capacità di avvolgere e di
svolgere facilmente qualunque locus
genomico. (Adattata da E. LiebermanAiden et al., Science 326:289-293,
2009. Con il permesso di AAAS.)
biochimici distinti allÕinterno del nucleo
Nel Capitolo 6 descriveremo la funzione di vari sottocompartimenti presenti
nel nucleo. Il più grande e il più ovvio di questi è il nucleolo, una struttura
ben nota ai microscopisti persino nel XIX secolo (vedi Figura 4.9). Il nucleolo è la zona della cellula in cui si formano le subunità ribosomiali ed è anche
il luogo dove avvengono molte altre reazioni specializzate (vedi Figura 6.42):
esso consiste di reti di RNA e di proteine che circondano i geni in attiva trascrizione dell’RNA ribosomiale. Negli eucarioti il genoma contiene copie
multiple dei geni codificanti l’RNA ribosomiale e, sebbene siano di norma
raggruppati insieme in un singolo nucleolo, sono spesso localizzati su diversi cromosomi separati.
All’interno del nucleo sono presenti anche vari organelli meno evidenti.
Per esempio, strutture sferiche chiamate corpi di Cajal e gruppi di granuli di
(A)
5 µm
involucro nucleare
cromosomi omologhi
rilevati con tecniche
di ibridazione
gene marcato in modo speciale
(B)
GENE SPENTO
GENE ACCESO
Figura 4.56 Un effetto degli
alti livelli di espressione genica
sulla posizione intranucleare
della cromatina. (A) Micrografie
a fluorescenza di nuclei umani che
mostrano come la posizione di un
gene cambi quando viene trascritto
attivamente. Si vede che la regione del
cromosoma adiacente al gene (rosso)
lascia il suo territorio cromosomico
(verde) soltanto quando è altamente
attivo. (B) Rappresentazione
schematica di una grande ansa di
cromatina che si espande quando il
gene è acceso e si contrae quando
il gene è spento. Si può dimostrare
con lo stesso metodo che altri geni
espressi meno attivamente restano nel
loro territorio cromosomico quando
sono trascritti. (Da J.R. Chubb e W.A.
Bickmore, Cell 112:403-406, 2003.
Con il permesso di Elsevier.)
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
224
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1 µm
Figura 4.57 Micrografia
elettronica che mostra due
sottocompartimenti nucleari
fibrosi comuni. La grande sfera
è un corpo di Cajal. La sfera più
piccola e più scura è un gruppo di
granuli intercromatinici, noto anche
come macchiolina (speckle) (vedi
anche Figura 6.46). Questi “organelli
subnucleari” sono del nucleo di
un oocita di Xenopus. (Da K.E.
Handwerger e J.G. Gall, Trends Cell
Biol. 16:19-26. Con il permesso di
Elsevier.)
Figura 4.58 Compartimentazione
effettiva senza un doppio strato
di membrana. (A) Illustrazione
schematica dell’organizzazione di
un organello sferico subnucleare
(sinistra) e di un sottocompartimento
organizzato in modo simile ipotizzato
appena sotto l’involucro nucleare
(destra). In entrambi i casi RNA e/o
proteine (grigio) si associano per
formare strutture altamente porose
simili a gel che contengono siti di
legame per altre proteine e molecole
di RNA specifiche (oggetti colorati).
(B) Il modo in cui l’attacco di una serie
selezionata di proteine e di molecole
di RNA a lunghe catene polimeriche
flessibili, come in (A), potrebbe creare
“aree di attività” che accelerano di
molto la velocità delle reazioni in
sottocompartimenti del nucleo. Le
reazioni catalizzate dipenderanno
dalle particolari macromolecole che
sono localizzate da questo attacco.
Lo stesso tipo di accelerazione
della velocità delle reazioni è anche
impiegato altrove nella cellula (vedi
anche Figura 3.78).
intercromatina sono presenti nella maggior parte delle cellule vegetali e animali (Figura 4.57). Come il nucleolo, questi organelli sono composti da proteine e molecole di RNA selezionate che si legano insieme per creare reti
altamente permeabili ad altre proteine e molecole di RNA presenti nel nucleoplasma circostante.
Strutture come queste possono creare ambienti biochimici distinti immobilizzando gruppi selezionati di macromolecole, come avviene a opera di altre reti di proteine e di molecole di RNA associate ai pori nucleari e con l’involucro nucleare. In linea di principio ciò permette alle molecole che entrano in questi spazi di essere modificate con grande efficienza in vie di reazioni complesse. Reti fibrose altamente permeabili di questo tipo possono così
portare molti dei vantaggi cinetici della compartimentazione (vedi p. 171) a
reazioni che hanno luogo in sottoregioni del nucleo (Figura 4.58A). Tuttavia,
a differenza dei compartimenti circondati da membrana del citoplasma (vedi Capitolo 12), questi sottocompartimenti nucleari – privi di una membrana a doppio strato lipidico – non possono né concentrare né escludere piccole molecole specifiche.
La cellula ha una notevole capacità di costruire ambienti biochimici distinti per svolgere compiti biochimici complessi in maniera efficiente. Quelli
che abbiamo indicato per il nucleo facilitano vari aspetti dell’espressione genica, che saranno trattati nel Capitolo 6. Come il nucleolo, questi sottocompartimenti sembrano formarsi soltanto quando sono necessari e creano un’alta concentrazione locale dei molti enzimi e molecole di RNA necessari per
un particolare processo. In modo analogo, quando il DNA è danneggiato da
radiazioni si vede che la serie di enzimi necessari per eseguire la riparazione
del DNA si aggrega in foci distinti all’interno del nucleo, creando “fabbriche
di riparazione” (vedi Figura 5.52). I nuclei spesso contengono centinaia di foci distinti che rappresentano fabbriche per la sintesi di DNA o di RNA (vedi Figura 6.47).
Sembra probabile che tutte queste entità facciano uso del tipo di guinzagli illustrato nella Figura 4.58B, in cui lunghi tratti flessibili di catena polipeptidica (o di qualche altro polimero) sono ricoperti da siti di legame che concentrano le numerose proteine e/o molecole di RNA necessarie per catalizzare un particolare processo. Non è sorprendente che guinzagli simili siano
usati per accelerare processi biologici nel citoplasma, aumentando le velocità
di reazioni specifiche (per esempio, vedi Figura 16.18).
Esiste anche una struttura intranucleare, analoga al citoscheletro, su cui sono organizzati i cromosomi e gli altri componenti del nucleo? La matrice o
impalcatura nucleare è stata definita come il materiale insolubile lasciato nel nucleo dopo una serie di passaggi di estrazione biochimica. Molte delle protei-
involucro
nucleare
(A)
(B)
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
225
© 978-88-08-62126-9
ne e delle molecole di RNA che formano questo materiale insolubile derivano probabilmente dai sottocompartimenti fibrosi del nucleo appena discussi, mentre altre sembrano essere proteine che aiutano a formare la base delle
anse cromosomiche o ad attaccare i cromosomi ad altre strutture del nucleo.
cromosoma
■ I cromosomi mitotici sono formati da cromatina nel suo
stato pi• condensato
centromero
Dopo aver discusso la struttura dinamica dei cromosomi interfasici, occupiamoci adesso dei cromosomi mitotici. I cromosomi di quasi tutte le cellule
eucariotiche diventano chiaramente visibili al microscopio ottico durante la
mitosi, quando si avvolgono formando strutture altamente condensate. Questa ulteriore condensazione riduce la lunghezza di un tipico cromosoma interfasico solo di dieci volte, ma produce un cambiamento drastico nell’aspetto dei cromosomi.
La Figura 4.59 mostra un tipico cromosoma mitotico nello stadio di
metafase della mitosi (per gli stadi della mitosi vedi Figura 17.3). Le due molecole figlie di DNA prodotte dalla replicazione del DNA durante l’interfase
del ciclo di divisione cellulare sono ripiegate separatamente per produrre due
cromosomi fratelli, o cromatidi fratelli, uniti a livello dei centromeri, come abbiamo detto in precedenza. Questi cromosomi sono normalmente ricoperti da una varietà di molecole, fra cui grandi quantità di complessi RNA-proteine. Una volta che questo rivestimento è stato rimosso, ciascun cromatidio
può essere visibile in micrografie elettroniche organizzato in anse di cromatina che si diramano da un’impalcatura centrale (Figura 4.60). Esperimenti di
ibridazione del DNA per rilevare sequenze specifiche di DNA dimostrano
che l’ordine delle caratteristiche visibili lungo un cromosoma mitotico riflette
almeno approssimativamente l’ordine dei geni lungo la molecola di DNA. La
condensazione dei cromosomi mitotici può quindi essere considerata come il
livello finale nella gerarchia del compattamento dei cromosomi (Figura 4.61).
Il compattamento dei cromosomi durante la mitosi è un processo dinamico altamente organizzato che serve ad almeno due scopi importanti. Innanzitutto, quando la condensazione è completa (in metafase) i cromatidi fratelli
sono stati disavvolti e si trovano fianco a fianco. Così i cromatidi fratelli pos-
cromatidio
Figura 4.59 Un tipico cromosoma
mitotico in metafase. Ciascun
cromatidio fratello contiene una di
due molecole figlie identiche di DNA
generate in precedenza durante il
ciclo cellulare per replicazione del DNA
(vedi anche Figura 17.21).
cromatidio 1
cromatidio 2
breve regione di DNA
a doppia elica
2 nm
0,1 µm
11 nm
forma della cromatina
a “perline su un filo”
fibra di cromatina
di 30 nm di nucleosomi
compattati
30 nm
fibra di cromatina
ripiegata in anse
700 nm
Figura 4.60 Una micrografia
elettronica a scansione di una
regione vicina a un’estremità di
un tipico cromosoma mitotico.
Si pensa che ciascuna proiezione a
pomolo rappresenti la punta di un
dominio ad ansa separato. Si noti
che i due cromatidi identici appaiati
(disegnati nella Figura 4.59) possono
essere distinti chiaramente. (Da
M.P. Marsden e U.K. Laemmli, Cell
17:849-858, 1979. Con il permesso di
Elsevier.)
centromero
cromosoma
mitotico intero
1400 nm
RISULTATO NETTO: CIASCUNA MOLECOLA DI DNA È STATA
COMPATTATA IN UN CROMOSOMA MITOTICO CHE È
10 000 VOLTE PIÙ CORTO DELLA SUA LUNGHEZZA SE ESTESO
Figura 4.61 Compattamento della cromatina.
Questo modello mostra alcuni dei molti livelli di
compattamento della cromatina che si pensa diano
origine al cromosoma mitotico altamente condensato.
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
226
© 978-88-08-62126-9
sono separarsi facilmente quando l’apparato mitotico inizia a tirarli in direzioni opposte. In secondo luogo, il compattamento dei cromosomi protegge
le molecole di DNA relativamente fragili dalla rottura quando vengono tirate in cellule figlie separate.
La condensazione dei cromosomi interfasici in cromosomi mitotici avviene all’inizio della fase M ed è strettamente connessa con il progresso del ciclo cellulare. Durante la fase M l’espressione genica si spegne e gli istoni subiscono modificazioni specifiche che aiutano a riorganizzare la cromatina man
mano che si compatta. Al compattamento partecipano due classi di proteine a
forma di anello, le coesine e le condensine. Il modo in cui esse contribuiscono a
produrre i due cromatidi ripiegati separatamente di un cromosoma mitotico
sarà discusso nel Capitolo 17, insieme ai dettagli del ciclo cellulare.
SOMMARIO I cromosomi sono generalmente decondensati durante l’interfase,
cosicché i dettagli della loro struttura sono difficili da visualizzare direttamente.
Eccezioni notevoli sono i cromosomi specializzati a spazzola degli oociti dei vertebrati
e i cromosomi politenici delle cellule secretorie giganti degli insetti. Studi su questi
due tipi di cromosomi interfasici suggeriscono che ciascuna lunga molecola di DNA
in un cromosoma sia divisa in un gran numero di domini distinti organizzati in anse
di cromatina che sono compattate da un ulteriore ripiegamento. Quando i geni
contenuti in un’ansa sono espressi, l’ansa si decondensa e permette al macchinario
della cellula un facile accesso al DNA.
I cromosomi interfasici occupano territori distinti nel nucleo della cellula; cioè
non si intrecciano estesamente. L’eucromatina compone la maggior parte dei
cromosomi interfasici e, quando non è trascritta, probabilmente è sotto forma di
fibre strettamente ripiegate di nucleosomi compattati. Tuttavia l’eucromatina è
interrotta da tratti di eterocromatina, in cui i nucleosomi sono soggetti a ulteriori
livelli di compattamento che di solito la rendono resistente all’espressione genica.
L’eterocromatina esiste in diverse forme, alcune delle quali sono presenti in grandi
blocchi dentro e intorno ai centromeri e vicino ai telomeri, ma è presente anche in
altre posizioni sui cromosomi, dove serve a regolare geni importanti per lo sviluppo.
L’interno del nucleo è altamente dinamico, con l’eterocromatina spesso posizionata
vicino all’involucro nucleare e anse di cromatina che si spostano dal territorio del loro
cromosoma quando i geni sono espressi a un livello molto alto. Ciò riflette l’esistenza
di sottocompartimenti nucleari, in cui serie diverse di reazioni biochimiche sono
facilitate da una maggiore concentrazione di proteine e RNA selezionati. I componenti
coinvolti nella formazione di un sottocompartimento possono autoassemblarsi in
organelli distinti come i nucleoli o i corpi di Cajal e possono anche essere attaccati
tramite guinzagli a strutture fisse come l’involucro nucleare.
Durante la mitosi l’espressione genica si spegne e tutti i cromosomi adottano una
conformazione altamente condensata in un processo che comincia all’inizio della
fase M e che serve a compattare le due molecole di DNA di ciascun cromosoma
replicato in due cromatidi ripiegati separatamente. Il processo di condensazione è
accompagnato da modificazioni degli istoni che facilitano il compattamento della
cromatina. Tuttavia il completamento soddisfacente di questo processo ordinato, che
riduce la lunghezza di ciascuna molecola di DNA rispetto alla lunghezza interfasica
di un ulteriore fattore dieci, richiede l’azione di proteine aggiuntive. ●
Il modo in cui evolvono i genomi
In questa sezione finale discuteremo alcuni dei modi in cui i geni e i genomi
si sono evoluti nel tempo per produrre la grande diversità delle forme di vita
attuali sul nostro pianeta. Il sequenziamento dei genomi di migliaia di organismi sta rivoluzionando la nostra visione del processo dell’evoluzione, scoprendo una quantità stupefacente di informazioni non solo sulle relazioni familiari fra gli organismi, ma anche sui meccanismi molecolari attraverso i quali l’evoluzione è progredita.
Forse non è sorprendente che geni con funzioni simili possano trovarsi in
una gamma diversificata di esseri viventi. Ma la grande rivelazione degli ultimi 30 anni è stata la scoperta di quanto le sequenze nucleotidiche di molti ge-
CAPITOLO
© 978-88-08-62126-9
ni si siano conservate. I geni omologhi – cioè geni che sono simili nella loro
sequenza nucleotidica e nella loro funzione a causa di un antenato comune
– possono spesso essere riconosciuti attraverso distanze filogenetiche enormi.
Per esempio, geni sicuramente omologhi di molti geni umani sono facilmente riscontrabili in organismi quali i vermi nematodi, i moscerini della frutta,
i lieviti e anche i batteri. In molti casi la somiglianza è così stretta che la porzione che codifica le proteine di un gene di lievito può essere sostituita con
il suo omologo umano, anche se l’uomo e il lievito sono separati da più di un
miliardo di anni di storia evolutiva.
Come abbiamo sottolineato nel Capitolo 3, il riconoscimento di omologia di sequenza è diventato uno strumento importante per comprendere la
funzione dei geni e delle proteine. Sebbene trovare un’omologia di sequenza
non garantisca una somiglianza della funzione, si è però dimostrato un indizio
eccellente. Così è spesso possibile predire la funzione nell’uomo di un gene
per il quale non sono disponibili informazioni biochimiche o genetiche semplicemente confrontando la sua sequenza nucleotidica con quelle di geni che
sono stati caratterizzati in altri organismi più facili da studiare.
In generale, le sequenze dei geni sono spesso conservate molto più della
struttura globale del genoma. Come abbiamo visto in precedenza, si riscontra
che altri aspetti dell’organizzazione del genoma, quali le dimensioni del genoma, il numero dei cromosomi, l’ordine dei geni lungo i cromosomi, l’abbondanza e le dimensioni degli introni e la quantità di DNA ripetitivo, variano moltissimo fra gli organismi, come il numero di geni che un organismo contiene.
■ Il confronto fra i genomi rivela sequenze funzionali di DNA
conservate durante lÕevoluzione
Un ostacolo rilevante all’interpretazione della sequenza di 3,2 miliardi di nucleotidi del genoma umano è il fatto che molte sequenze sono probabilmente
prive di importanza funzionale. Le regioni codificanti del genoma (gli esoni)
si trovano di norma in brevi segmenti (dimensioni medie di circa 145 coppie di nucleotidi), piccole isole in un mare di DNA la cui esatta sequenza nucleotidica si pensa abbia poca importanza. Questa disposizione rende difficile
identificare tutti gli esoni in un tratto di sequenza di DNA ed è spesso complicato determinare dove comincia e finisce un gene.
Un approccio molto importante nella decifrazione del nostro genoma consiste nella ricerca di sequenze di DNA che sono molto simili tra specie differenti, basandosi sul presupposto che sia molto più probabile che sequenze di
DNA che hanno una funzione siano conservate rispetto a quelle senza funzione. Per esempio, si pensa che gli esseri umani e i topi si siano separati da un
progenitore mammifero comune circa 80 3 106 anni fa, un tempo abbastanza
lungo perché la maggioranza dei nucleotidi nei loro genomi sia stata cambiata
da eventi mutazionali casuali. Di conseguenza le sole regioni che saranno rimaste molto simili nei due genomi sono quelle in cui le mutazioni avrebbero inattivato la funzione e creato uno svantaggio per gli animali in cui erano
presenti, fino ad arrivare alla loro eliminazione dalla popolazione per selezione
naturale. Queste regioni molto simili sono note come regioni conservate. Oltre
a rivelare quelle sequenze di DNA che codificano esoni e molecole di RNA
funzionalmente importanti, queste regioni conservate comprenderanno sequenze di DNA regolatrici, così come sequenze la cui funzione non è ancora
nota. Le regioni non conservate rappresentano invece DNA la cui sequenza non
è generalmente cruciale per la funzione.
La potenza di questo metodo può essere aumentata confrontando il nostro genoma con i genomi di altri animali i cui genomi sono stati sequenziati
completamente, come ratto, pollo, pesce, cane e scimpanzé, ma anche topo. Rivelando in questo modo i risultati di un lunghissimo “esperimento” naturale,
che è durato centinaia di milioni di anni, gli studi di sequenziamento comparativo hanno evidenziato le regioni più interessanti dei genomi. Studi comparativi di questo tipo hanno dimostrato che il 5% circa del genoma umano
consiste di “sequenze conservate in molte specie”. Inaspettatamente soltanto
un terzo di queste sequenze codifica proteine (vedi Tabella 4.1, p. 193). Alcu-
4 DNA, cromosomi e genomi
227
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
228
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ne delle sequenze conservate non codificanti corrispondono a gruppi di siti
di legame per proteine che sono coinvolte nella regolazione dei geni, mentre altre producono molecole di RNA che non vengono tradotte in proteine
ma che sono importanti per altri scopi conosciuti.Tuttavia, anche nelle specie
studiate più intensamente, la funzione della maggior parte di queste sequenze
altamente conservate rimane sconosciuta. Questa scoperta inattesa ha portato i ricercatori a concludere che la nostra conoscenza della biologia cellulare
dei vertebrati è minore di quanto non si immaginasse in precedenza. È certo che ci sono enormi opportunità per nuove scoperte e dobbiamo aspettarci molte sorprese nel futuro.
■ Le alterazioni del genoma sono causate da errori
dei normali meccanismi di copiatura e di mantenimento
del DNA, nonchŽ da elementi di DNA trasponibili
Figura 4.62 Una rappresentazione
del contenuto della sequenza
nucleotidica del genoma umano
sequenziato. I LINE (long interspersed
nuclear elements, lunghi elementi
nucleari intercalati), i SINE (short
interspersed nuclear elements, brevi
elementi nucleari intercalati), elementi
simili a retrovirus e trasposoni a solo
DNA sono elementi genetici mobili
che si sono moltiplicati nel nostro
genoma replicandosi e inserendo
le nuove copie in posizioni diverse.
Questi elementi genetici mobili sono
trattati nel Capitolo 5 (vedi Tabella 5.3
a p. 282). Le ripetizioni di sequenze
semplici sono brevi sequenze
nucleotidiche (meno di 14 coppie
di nucleotidi) che sono ripetute più
volte per lunghi tratti. Le ripetizioni
segmentali sono ampi blocchi di
sequenza di DNA (1000-200 000
coppie di nucleotidi) che sono
presenti in due o più siti nel genoma.
I blocchi di DNA più altamente ripetuti
nell’eterocromatina non sono stati
ancora sequenziati, perciò circa il 10%
delle sequenze di DNA umane non è
rappresentato in questo schema.
(Dati per gentile concessione di
E. Margulies.)
L’evoluzione dipende da incidenti e da errori seguiti da sopravvivenza non
casuale. La maggior parte dei cambiamenti genetici che si verificano è causata semplicemente da errori dei normali meccanismi mediante i quali i genomi vengono copiati o riparati quando sono danneggiati, anche se il movimento di elementi trasponibili di DNA (trattato più avanti) ha anch’esso un ruolo importante. Come vedremo nel Capitolo 5, i meccanismi che
mantengono le sequenze di DNA sono notevolmente precisi, ma non sono
perfetti. Le sequenze di DNA sono ereditate con tale straordinaria fedeltà
che, di norma, lungo una certa linea di discendenza, soltanto un nucleotide
circa su mille viene cambiato a caso nella linea germinale nell’arco di alcuni milioni di anni. Anche così, in una popolazione di 10 000 individui diploidi, ogni possibile sostituzione nucleotidica sarà stata “provata” in circa
20 occasioni nel corso di un milione di anni, un lasso di tempo breve in relazione all’evoluzione delle specie.
Errori nella replicazione del DNA, nella ricombinazione del DNA o nella
riparazione del DNA possono portare a semplici cambiamenti della sequenza del DNA – le cosiddette mutazioni puntiformi, come la sostituzione di una
coppia di basi con un’altra – o a riarrangiamenti genomici su larga scala come
delezioni, duplicazioni, inversioni e traslocazioni di DNA da un cromosoma
a un altro. Oltre a questi errori del macchinario genetico, il genoma contiene elementi mobili di DNA che sono una fonte importante di cambiamenti
genomici (vedi Tabella 5.3, p. 282). Questi elementi trasponibili di DNA (trasposoni) sono sequenze parassite di DNA che colonizzano i genomi e possono diffondersi al loro interno. In questo processo spesso essi distruggono la
funzionalità o alterano la regolazione di geni esistenti; talvolta creano addirittura geni del tutto nuovi tramite fusioni fra sequenze di trasposoni e segmenti di geni esistenti. Nel corso di lunghi periodi di tempo evolutivo questi trasposoni hanno influenzato profondamente la struttura dei genomi, così tanto
che quasi metà del DNA del genoma umano consiste di reperti riconoscibili
di eventi di trasposizione passati (Figura 4.62). Una parte ancora maggiore del
nostro genoma è senza dubbio derivata da eventi di trasposizione che si sono
verificati così tanto tempo fa (>108 anni) che le sequenze non possono più
essere ricondotte a trasposoni.
percentuale
0
10
20
30
40
LINE
SINE
elementi simili a retrovirus
“fossili” di trasposoni a solo DNA
50
60
70
80
90
100
introni
regioni che codificano proteine
GENI
TRASPOSONI
ripetizioni di sequenze semplici
duplicazioni segmentali
SEQUENZE RIPETUTE
DNA non ripetitivo che non si trova
né negli introni né nelle regioni codificanti
SEQUENZE UNICHE
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
229
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■ Le sequenze dei genomi di due specie differiscono
in proporzione al tempo durante il quale si sono evolute
separatamente
Le differenze fra i genomi di specie viventi oggi si sono accumulate per più
di tre miliardi di anni. In mancanza di una registrazione diretta dei cambiamenti nel corso del tempo possiamo tuttavia ricostruire il processo di evoluzione dei genomi mediante confronti dettagliati dei genomi di organismi
contemporanei.
Lo strumento base della genomica comparativa è l’albero filogenetico. Un
esempio semplice è l’albero che descrive la divergenza degli esseri umani dalle
grandi scimmie (Figura 4.63). Il supporto principale per ricostruire quest’albero
deriva da confronti di sequenze di geni e di proteine. Per esempio, confronti
fra le sequenze geniche o proteiche umane e quelle delle grandi scimmie di
norma rivelano che il numero di differenze fra l’uomo e lo scimpanzé è quello minore, mentre quello fra l’uomo e l’orangutan è il maggiore.
Per organismi correlati strettamente come l’uomo e lo scimpanzé è possibile ricostruire le sequenze geniche dell’ultimo progenitore comune estinto
delle due specie (Figura 4.64). La stretta somiglianza fra i geni umani e quelli di
scimpanzé è dovuta soprattutto al breve tempo che è stato disponibile per l’accumulo di mutazioni nelle due linee divergenti, anziché a restrizioni funzionali che hanno mantenuto uguali le sequenze. Una prova di questa visione deriva
dall’osservazione che anche sequenze di DNA il cui ordine dei nucleotidi non
è obbligato dalla funzione – come nella terza posizione di codoni “sinonimi”
(codoni che specificano lo stesso amminoacido, ma che differiscono nel nucleotide in terza posizione) – sono quasi identiche nell’uomo e nello scimpanzé.
Per organismi correlati meno strettamente, come uomo e pollo (che si sono evoluti separatamente per circa 300 milioni di anni), la conservazione di
sequenza presente nei geni è in gran parte dovuta a selezione purificatrice
(cioè una selezione che elimina individui portatori di mutazioni che interferiscono con funzioni genetiche importanti), piuttosto che al poco tempo disponibile perché avvenissero le mutazioni.
■ Gli alberi filogenetici costruiti in base al confronto
di sequenze di DNA tracciano le relazioni fra tutti
gli organismi
15
ultimo antenato comune
milioni di anni fa
1,5
10
1,0
5
0
0,5
uomo
scimpanzé
gorilla
orangutan
0,0
percentuali di sostituzioni nucleotidiche
L’integrazione di alberi filogenetici basata su confronti delle sequenze con i
reperti fossili ha portato alla migliore visione possibile dell’evoluzione delle
forme moderne di vita. I resti fossili rimangono importanti per stabilire date assolute basate sul decadimento di radioisotopi nelle formazioni rocciose
in cui si trovano. Tuttavia, poiché la disponibilità di reperti fossili nel tempo
è discontinua, tempi precisi di divergenza fra le specie sono difficili da stabilire anche per specie che lasciano buoni fossili con una morfologia distintiva.
Gli alberi filogenetici, la cui cronologia è stata calibrata utilizzando i reperti fossili, suggeriscono che cambiamenti nelle sequenze di geni o di pro-
Figura 4.63 Un albero
filogenetico che mostra la
relazione fra l’uomo e le grandi
scimmie basata su dati di sequenza
nucleotidica. Come indicato, si
stima che le sequenze dei genomi di
tutte e quattro le specie differiscano
dalla sequenza del genoma del loro
ultimo antenato comune di poco
più dell’1,5%. Poiché i cambiamenti
si verificano indipendentemente su
entrambe le linee che divergono, i
confronti a coppie rivelano il doppio
di divergenza di sequenza dall’ultimo
antenato comune. Per esempio, il
confronto uomo-orangutan mostra
di norma divergenze di sequenza di
poco più del 3%, mentre il confronto
uomo-scimpanzé evidenzia divergenze
di circa l’1,2%. (Modificata da F.C.
Chen e W.H. Li, Am. J. Hum. Genet.
68:444-456, 2001.)
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
230
Figura 4.64 Tracciamento della
sequenza progenitrice da un
confronto della sequenza delle
regioni codificanti dei geni della
leptina umani e di scimpanzé. È
illustrato un segmento continuo di
300 nucleotidi di un gene codificante
una leptina; si legge da sinistra a
destra e dall’alto verso il basso. La
leptina è un ormone che regola
l’assunzione di cibo e l’utilizzo
dell’energia in risposta all’adeguatezza
delle riserve di grasso. Come indicato
dai codoni nei riquadri verdi, solo 5
nucleotidi (su 441 totali) differiscono
fra le due specie. Inoltre, solamente
in una delle cinque posizioni la
differenza nucleotidica porta a
una sostituzione amminoacidica.
Per ciascuna delle 5 posizioni
nucleotidiche varianti è indicata anche
la sequenza corrispondente nel gorilla.
In due casi la sequenza del gorilla
corrisponde a quella umana, mentre
in tre casi corrisponde a quella di
scimpanzé. Qual era la sequenza del
gene della leptina nell’ultimo antenato
comune? Un modello evolutivo
che cercasse di ridurre al minimo
il numero di mutazioni postulate
durante l’evoluzione dei geni umani
e di scimpanzé ipotizzerebbe che la
sequenza della leptina dell’ultimo
antenato comune fosse uguale a
quelle dell’uomo e dello scimpanzé
dove queste corrispondono; dove non
corrispondono, userebbe la sequenza
di gorilla per prendere una decisione.
Per convenienza, sono riportati
soltanto i primi 300 nucleotidi delle
sequenze codificanti della leptina.
I 141 restanti sono identici nell’uomo
e nello scimpanzé.
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uomo
gorilla CAA
Q
1
60
GTGCCCATCCAAAAAGTCCAAGATGACACCAAAACCCTCATCAAGACAATTGTCACCAGG
scimpanzé GTGCCCATCCAAAAAGTCCAGGATGACACCAAAACCCTCATCAAGACAATTGTCACCAGG
V P I Q K V Q D D T K T L I K T I V T R
proteina
uomo
K
61
120
ATCAATGACATTTCACACACGCAGTCAGTCTCCTCCAAACAGAAAGTCACCGGTTTGGAC
scimpanzé ATCAATGACATTTCACACACGCAGTCAGTCTCCTCCAAACAGAAGGTCACCGGTTTGGAC
proteina
I N D I S H T O S V S S K Q K V T G L D
gorilla AAG
uomo
gorilla CCC
P
121
180
TTCATTCCTGGGCTCCACCCCATCCTGACCTTATCCAAGATGGACCAGACACTGGCAGTC
scimpanzé TTCATTCCTGGGCTCCACCCTATCCTGACCTTATCCAAGATGGACCAGACACTGGCAGTC
proteina
F I P G L H P I L T L S K M D Q T L A V
uomo
V
181
240
TACCAACAGATCCTCACCAGTATGCCTTCCAGAAACGTGATCCAAATATCCAACGACCTG
scimpanzé TACCAACAGATCCTCACCAGTATGCCTTCCAGAAACATGATCCAAATATCCAACGACCTG
proteina
Y Q Q I L T S M P S R N M I Q I S N D L
gorilla ATG
uomo
D
241
300
GAGAACCTCCGGGATCTTCTTCAGGTGCTGGCCTTCTCTAAGAGCTGCCACTTGCCCTGG
scimpanzé GAGAACCTCCGGGACCTTCTTCAGGTGCTGGCCTTCTCTAAGAGCTGCCACTTGCCCTGG
proteina
E N L R D L L H V L A F S K S C H L P W
gorilla GAC
teine particolari tendano ad avvenire a velocità costante, anche se in particolari linee si osservano velocità che differiscono dalla norma fino a due volte.
Questo ci fornisce un “orologio molecolare” per l’evoluzione, o piuttosto una
serie di orologi molecolari corrispondenti a diverse categorie di sequenze di
DNA. Come nell’esempio della Figura 4.65, l’orologio cammina più rapidamente e regolarmente in sequenze che non sono soggette a selezione purificatrice, come porzioni di introni prive di segnali di splicing o regolatori, la
terza posizione nei codoni sinonimi e geni che sono stati inattivati irreversibilmente da una mutazione (i cosiddetti pseudogeni). L’orologio cammina più
lentamente per sequenze che sono soggette a forti restrizioni funzionali: per
esempio, le sequenze di amminoacidi di proteine che prendono parte a interazioni specifiche con moltissime altre proteine e la cui struttura perciò è altamente sottoposta a restrizioni, o la sequenza nucleotidica che codifica l’RNA delle subunità del ribosoma, da cui dipende la sintesi proteica.
Occasionalmente si osservano rapidi cambiamenti in una sequenza in precedenza altamente conservata. Come vedremo più avanti in questo capitolo, questi
episodi assumono un interesse del tutto speciale perché si pensa che riflettano
periodi di forte selezione positiva per mutazioni che hanno conferito un vantaggio selettivo nella particolare linea in cui si era verificato il cambiamento rapido.
topo
esone
introne
uomo
topo
uomo
Figura 4.65 Le velocità di evoluzione di esoni e introni
sono molto diverse, come illustrato dal confronto di una
porzione dei geni della leptina di topo e uomo. Le posizioni
in cui le sequenze differiscono per una singola sostituzione
nucleotidica sono in riquadri verdi, mentre le posizioni che
differiscono per l’aggiunta o la delezione di nucleotidi sono in
riquadri gialli. Si noti che, grazie alla selezione purificatrice, la
sequenza codificante dell’esone è molto più conservata della
sequenza intronica adiacente.
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
231
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La velocità a cui camminano gli orologi molecolari durante l’evoluzione
non è determinata solo dal grado di selezione purificatrice, ma anche dal tasso di mutazione. Gli orologi più notevoli negli animali, anche se non nei vegetali, sono quelli basati su sequenze di DNA mitocondriale che non hanno
restrizioni funzionali e che camminano molto più velocemente degli orologi
basati su sequenze nucleari non limitate funzionalmente, a causa di un’insolita alta frequenza di mutazioni nei mitocondri degli animali.
Le categorie di DNA per cui l’orologio molecolare cammina veloce sono le più informative per gli eventi evolutivi recenti. Per esempio, l’orologio
del DNA mitocondriale è stato usato per determinare la cronologia della divergenza della linea dell’uomo di Neanderthal da quella dell’odierno Homo
sapiens. Per studiare eventi evolutivi più antichi si deve esaminare DNA il cui
orologio cammini molto più lento; quindi la divergenza dei rami principali
dell’albero della vita – batteri, archei ed eucarioti – è stata dedotta studiando
le sequenze che specificano l’RNA ribosomiale.
In generale, gli orologi molecolari, se scelti appropriatamente, hanno una
risoluzione temporale più fine rispetto ai resti fossili e sono una guida più affidabile alla struttura dettagliata di alberi filogenetici rispetto ai metodi classici di costruzione degli alberi, che si basano su confronti della morfologia e
dello sviluppo embrionale. Per esempio, la relazione precisa fra le linee delle
grandi scimmie e quella dell’uomo non è stata stabilita finché negli anni ’80
non si sono accumulati abbastanza dati di sequenza per produrre l’albero filogenetico mostrato nella Figura 4.63. E con le grandi quantità di sequenza di
DNA determinate oggi per vari mammiferi si stanno ottenendo stime molto
migliori delle relazioni fra l’uomo e questi animali (Figura 4.66).
■ Un confronto fra i cromosomi umani e quelli di topo
mostra come divergono le strutture dei genomi
Come atteso, il genoma umano e quello di scimpanzé sono molto più simili
di quanto lo siano i genomi umano e di topo, sebbene le dimensioni dei genomi di topo e di uomo siano approssimativamente le stesse e le serie di geni
che contengono siano quasi identiche. Le linee murina e umana hanno avuto
approssimativamente 80 milioni di anni per divergere mediante accumulo di
mutazioni rispetto ai 6 milioni di anni per gli uomini e gli scimpanzé. Inoltre,
come indicato nella Figura 4.66, le linee dei roditori (rappresentate dal ratto
e dal topo) hanno orologi molecolari insolitamente veloci e la divergenza di
queste linee dalla linea umana è stata più rapida di quanto atteso.
Mentre il modo in cui il genoma è organizzato in cromosomi è quasi identico nell’uomo e nello scimpanzé, questa organizzazione ha subìto una notevole divergenza fra esseri umani e topi. Secondo stime approssimative, un totale
Figura 4.66 Un albero
filogenetico che evidenzia le
relazioni evolutive tra alcuni dei
mammiferi odierni. La lunghezza
di ciascuna linea è proporzionale al
numero di “sostituzioni neutre”, cioè
ai cambiamenti nucleotidici in siti
dove si assume non ci sia selezione
purificatrice. (Adattata da G.M.
Cooper et al., Genome Res. 15:901913, 2005. Con il permesso di Cold
Spring Harbor Laboratory Press.)
opossum
wallaby
antenato
armadillo
porcospino
pipistrello
gatto
cavallo
cane
mucca
pecora
muntjac indiano
maiale
coniglio
galago
lemure
scimmia marmorizzata
scimmia scoiattolo
cercopiteco verde
babbuino
macaco
orangutan
gorilla
scimpanzé
uomo
ratto
topo
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4 DNA, cromosomi e genomi
232
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di 180 eventi di rottura e riunione si è verificato nelle linee umane e di topo
dal momento in cui le due specie hanno avuto l’ultimo antenato in comune.
Nel processo, anche se il numero di cromosomi è simile nelle due specie (23
per il genoma aploide nell’uomo contro 20 nel topo), le loro strutture generali sono molto cambiate. Nonostante ciò, anche dopo un esteso rimaneggiamento genomico, ci sono grandi blocchi di DNA in cui l’ordine dei geni è
lo stesso nell’uomo e nel topo. Questi segmenti di ordine genico conservato
nei cromosomi sono chiamati regioni di sintenia. La Figura 4.67 illustra come
segmenti differenti di cromosomi di topo mappino sulla serie di cromosomi
umani. Per vertebrati molto più distanti evolutivamente, come pollo e uomo,
il numero di eventi di rottura e riunione è stato molto più elevato e le regioni
di sintenia sono molto più corte; inoltre, queste ultime sono spesso difficili da
riconoscere a causa della divergenza delle sequenze di DNA in esse contenute.
Una conclusione inaspettata derivata da un confronto dettagliato delle sequenze complete dei genomi di uomo e di topo, confermata da successivi confronti fra i genomi di altri vertebrati, è che piccoli blocchi di sequenza vengono deleti e aggiunti ai genomi a un ritmo sorprendentemente rapido. Così, se
assumiamo che il nostro antenato comune avesse un genoma di dimensioni
umane (circa 3,2 miliardi di coppie di nucleotidi), i topi avrebbero perso un
totale pari al 45% di quel genoma in seguito all’accumulo di delezioni durante gli 80 milioni di anni trascorsi, mentre gli esseri umani ne avrebbero perso
il 25% circa.Tuttavia, guadagni sostanziali di sequenze dovuti a molte piccole
duplicazioni cromosomiche e alla moltiplicazione dei trasposoni hanno compensato queste delezioni. Come risultato, le dimensioni del nostro genoma sono rimaste quasi uguali a quelle dell’ultimo antenato comune di uomo e topo,
mentre il genoma del topo è più piccolo soltanto di 0,3 miliardi di nucleotidi.
Prove convincenti della perdita di sequenze di DNA in piccoli blocchi durante l’evoluzione si possono ottenere da un confronto dettagliato della maggior parte delle regioni di sintenia nei genomi umani e di topo. Il ridimensionamento del genoma di topo si vede chiaramente da questi confronti, con la
perdita netta di sequenze sparse in tutti i lunghi tratti di DNA che altrimenti
sarebbero omologhi (Figura 4.68).
Il DNA è aggiunto ai genomi sia per duplicazione spontanea di segmenti
cromosomici che contengono decine di migliaia di coppie di nucleotidi (come vedremo fra breve) sia per inserzione di nuove copie di trasposoni attivi.
La maggior parte degli eventi di trasposizione è duplicativa, perché la copia
Figura 4.67 Sintenia tra
cromosomi umani e murini.
In questo disegno il gruppo di
cromosomi umani è mostrato sopra,
con ogni parte di ciascun cromosoma
colorata in base al cromosoma
murino con cui è sintenica. Il codice
colore usato per ciascun cromosoma
murino è mostrato sotto. Le regioni
eterocromatiche altamente ripetitive
(come i centromeri) che sono difficili
da sequenziare non possono essere
mappate in questo modo e sono
colorate in nero. (Adattata da E.E.
Eichler e D. Sankoff, Science 301:793797, 2003. Con il permesso di AAAS.)
1
2
3
4
codice colore
del cromosoma
murino
5 6
7
8
1
3
4
2
9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 X
5
6
7
8
9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 X
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cromosoma 14 umano
cromosoma 12 del topo
200 000 basi
Figura 4.68 Confronto di una porzione sintenica dei genomi di uomo e di topo.
Il 90% circa dei due genomi può essere allineato in questo modo. Si noti che, mentre c’è
un ordine identico delle sequenze indice corrispondenti (segni rossi), nella linea del topo
c’è stata una perdita netta di DNA sparsa nell’intera regione. Questo genere di perdita
netta è tipico per tutte le regioni come questa e spiega il fatto che il genoma di topo
contiene il 14% di DNA in meno del genoma umano. (Adattata dal Mouse Sequencing
Consortium, Nature 420:520-573, 2002. Con il permesso di Macmillan Publishers Ltd.)
Figura 4.69 Un confronto del
gruppo dei geni della β-globina umana
γG
ε
γA
δ
β
gruppo dei geni della β-globina di topo
ε
γ
β maggiore
β minore
10 000
coppie di nucleotidi
originale del trasposone resta dov’era quando una copia si inserisce in un nuovo sito; per esempio, vedi Figura 5.63. Il confronto delle sequenze di DNA
derivate dai trasposoni nell’uomo e nel topo rivela rapidamente alcune delle
aggiunte di sequenze (Figura 4.69).
Per ragioni sconosciute tutti i mammiferi hanno conservato dimensioni dei
genomi di circa 3 miliardi di coppie di nucleotidi che contengono serie quasi
identiche di geni, anche se soltanto circa 150 milioni di coppie di nucleotidi
sembrano avere restrizioni funzionali sequenza-specifiche.
■ Le dimensioni del genoma di un vertebrato riflettono
gruppo dei geni della b-globina
nei genomi di uomo e di topo,
che mostra la posizione di
elementi trasponibili. Questo
tratto del genoma umano contiene
cinque geni funzionali del tipo della
b-globina (arancione); la regione
paragonabile del genoma di topo ne
ha solo quattro. Le posizioni delle
sequenze Alu umane sono indicate
da pallini verdi e le sequenze umane
L1 da pallini rossi. Il genoma di
topo contiene elementi trasponibili
diversi ma correlati: le posizioni degli
elementi B1 (che sono correlati alle
sequenze Alu umane) sono indicate da
triangoli blu, mentre le posizioni degli
elementi L1 di topo (che sono correlati
alle sequenze umane L1) sono indicate
da triangoli arancione. L’assenza
di elementi trasponibili dai geni
strutturali delle globine può essere
attribuita a selezione purificatrice,
che avrebbe eliminato qualunque
inserzione che compromettesse
la funzione dei geni. (Per gentile
concessione di Ross Hardison e Webb
Miller.)
il ritmo relativo di aggiunta e perdita di DNA in una linea
evolutiva
Nei vertebrati evolutivamente più distanti le dimensioni del genoma possono
variare considerevolmente, in apparenza senza effetti drastici sull’organismo o
sul numero dei suoi geni. Così, il genoma di pollo, con un miliardo di coppie
nucleotidiche, è soltanto un terzo di quello di mammifero. Un esempio estremo è il pesce palla, Fugu rubripes (Figura 4.70), che ha un genoma minuscolo
per un vertebrato (0,4 miliardi di coppie di nucleotidi in confronto a un miliardo o più degli altri pesci). Le piccole dimensioni del genoma del Fugu sono
dovute in gran parte alle piccole dimensioni dei suoi introni. Specificamente gli introni del Fugu, oltre ad altri segmenti non codificanti del genoma del
Fugu, sono privi del DNA ripetitivo che costituisce una grande porzione dei
genomi della maggior parte dei vertebrati studiati a fondo. Nonostante ciò, le
posizioni degli introni del Fugu sono conservate quasi perfettamente rispetto
alle posizioni nei genomi dei mammiferi (Figura 4.71).
All’inizio sembrava un mistero, ma oggi abbiamo una spiegazione semplice
per queste grandi differenze nelle dimensioni dei genomi in organismi simili:
poiché tutti i vertebrati subiscono un processo continuo di perdita e aggiunta
di DNA, le dimensioni di un genoma dipendono semplicemente dall’equilibrio fra questi processi opposti che agiscono nel corso di milioni di anni. Sup-
Figura 4.70 Il pesce palla, Fugu
rubripes. (Per gentile concessione di
Byrappa Venkatesh.)
CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
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Figura 4.71 Confronto delle
sequenze genomiche del gene
umano e di quello del Fugu che
codificano la proteina huntingtina.
Entrambi i geni (indicati in rosso)
contengono 67 brevi esoni che si
allineano in una corrispondenza
1:1; questi esoni sono connessi da
linee curve. Il gene umano è 7,5
volte più grande del gene del Fugu
(180 000 contro 24 000 coppie di
nucleotidi). La differenza di dimensioni
è completamente dovuta a introni più
grandi nel gene umano. Le maggiori
dimensioni degli introni umani sono
in parte dovute alla presenza di
retrotrasposoni (vedi Capitolo 5), le cui
posizioni sono rappresentate da linee
verticali verdi; gli introni del Fugu sono
privi di retrotrasposoni. Nell’uomo la
mutazione del gene dell’huntingtina
provoca la malattia di Huntington,
un disordine neurodegenerativo
ereditario. (Adattata da S. Baxendale
et al., Nat. Genet. 10:67-76, 1995.
Con il permesso di Macmillan
Publishers Ltd.)
gene umano
gene del Fugu
0,0
100,0
migliaia di coppie di nucleotidi
180,0
poniamo, per esempio, che nella linea che ha portato al Fugu il ritmo di aggiunta di DNA sia rallentato di molto. Nel corso di lunghi periodi di tempo
ciò avrebbe portato a una grande “ripulitura” dal genoma del pesce di quelle
sequenze di DNA di cui si poteva tollerare la perdita. Il risultato è un genoma
inusualmente compatto, relativamente libero da spazzatura e sequenze inutili,
ma che conserva attraverso il processo di selezione purificatrice le sequenze di
DNA dei vertebrati funzionalmente importanti. Questo fa sì che il Fugu, con
i suoi 400 milioni di coppie di nucleotidi di DNA, sia una risorsa importante per la ricerca sul genoma finalizzata alla comprensione del genere umano.
■ é possibile ricostruire la sequenza di alcuni genomi antichi
I genomi di organismi ancestrali possono essere ipotizzati, ma mai osservati direttamente. Il DNA è molto stabile se comparato con la maggior parte delle
molecole organiche, ma non lo è del tutto e la sua progressiva degradazione, anche nelle migliori circostanze, significa che è virtualmente impossibile estrarre informazioni contenute nelle sequenze di DNA di fossili che hanno più di
un milione di anni. Sebbene un organismo attuale come il granchio a ferro di
cavallo sembri notevolmente simile ad antenati fossili che sono vissuti 200 milioni di anni fa, ci sono tutte le ragioni per credere che il genoma del granchio
a ferro di cavallo si sia modificato durante tutto quel tempo a una velocità simile a quella di altre linee evolutive. Restrizioni selettive devono avere mantenuto proprietà funzionali chiave del genoma del granchio a ferro di cavallo per
spiegare la stabilità morfologica della linea.Tuttavia le sequenze del genoma rivelano che la frazione del genoma soggetta a selezione purificatrice è piccola,
per cui il genoma del granchio a ferro di cavallo attuale deve differire di molto da quello dei suoi antenati estinti, che conosciamo soltanto per i resti fossili.
È possibile ottenere informazioni dirette sulla sequenza esaminando i
campioni di DNA da materiale antico, se questo non è troppo vecchio. In anni
recenti, avanzamenti tecnologici hanno permesso il sequenziamento di DNA
da frammenti ossei eccezionalmente ben conservati datati a più di 100 000
anni fa. Sebbene qualunque DNA così vecchio non sia conservato perfettamente, è stato possibile ricostruire la sequenza del genoma dell’uomo di
Neanderthal a partire da molti milioni di corte sequenze di DNA. Questo
risultato ha rivelato – tra le altre cose – che i nostri antenati si sono incrociati con i Neanderthal in Europa e che gli esseri umani odierni hanno ereditato da loro geni specifici (Figura 4.72). La differenza media nella sequenza
di DNA tra esseri umani e uomini di Neanderthal mostra che le due linee
si sono divise in un periodo di tempo compreso tra 270 000 e 440 000 anni
fa, molto prima del periodo di tempo in cui si pensava che gli esseri umani
fossero migrati fuori dall’Africa.
Ma che cosa possiamo dire circa la possibilità di decifrare i genomi di antenati molto più vecchi, quelli per i quali non può essere isolato DNA utilizzabile? Per organismi che sono correlati strettamente, come esseri umani
CAPITOLO
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caverna di Vindija
in Croazia
(A)
(B)
e scimpanzé, abbiamo visto che ciò può non essere difficile. In quel caso ci si
può riferire alla sequenza del gorilla per determinare quali piccole differenze
fra il DNA di uomo e di scimpanzé sono state ereditate dal nostro antenato
comune circa 6 milioni di anni fa (vedi Figura 4.64). Per un antenato che ha
prodotto un numero elevato di organismi diversi ancora vivi oggi si possono
confrontare simultaneamente le sequenze di molte specie per derivare la sequenza ancestrale, permettendo ai ricercatori di seguire le sequenze di DNA
molto più indietro nel tempo. Per esempio, dalle sequenze complete dei genomi di decine di mammiferi placentati attuali, dovrebbe essere possibile decifrare la maggior parte della sequenza genomica del loro antenato che ha 100
milioni di anni e che ha dato origine a specie così diverse come cane, topo,
coniglio, armadillo e uomo (vedi Figura 4.66).
■ I confronti di sequenze fra specie multiple identificano
sequenze importanti di DNA a funzione sconosciuta
La massiccia quantità di sequenze di DNA presente oggi nei database (centinaia di miliardi di coppie di nucleotidi) fornisce una grande risorsa a cui i
ricercatori possono ricorrere per molti scopi. Queste informazioni possono essere usate non solo per analizzare i percorsi evolutivi che hanno portato agli organismi moderni, ma anche per avere indizi sul modo in cui funzionano cellule e organismi. Forse la scoperta più notevole in questo campo è
stata l’osservazione che un’impressionante quantità di sequenza di DNA che
non codifica proteine è stata conservata durante l’evoluzione dei mammiferi
(vedi Tabella 4.1, p. 193). Questa massa di sequenza conservata è rivelata più
chiaramente quando allineiamo e confrontiamo blocchi di sintenia di DNA
di molte specie diverse. In questo modo si possono facilmente identificare le
cosiddette sequenze conservate in molte specie: alcune di queste codificano proteine ma la maggior parte no (Figura 4.73).
Le sequenze conservate non codificanti scoperte in questo modo si sono
rivelate in gran parte brevi, poiché contengono fra 50 e 200 coppie di nucleotidi.Tra le più misteriose ci sono quelle chiamate regioni non codificanti
“ultraconservate”, rappresentate da più di 5000 segmenti di DNA più lunghi
di 100 nucleotidi che sono identici nell’uomo, nel topo e nel ratto. La maggior parte ha subìto lievi cambiamenti, oppure è rimasta perfettamente conservata da quando gli antenati di uccelli e mammiferi si sono separati circa
300 milioni di anni fa. La stretta conservazione implica che, sebbene queste
sequenze non codifichino proteine, ognuna di esse abbia un’importante funzione mantenuta dalla selezione purificatrice. Il rompicapo ora è svelare quali sono queste funzioni.
Molte sequenze conservate che non codificano proteine codificano molecole di RNA non tradotto, come le migliaia di RNA non codificanti lunghi (long
noncoding RNAs, lncRNA), che si pensa abbiano funzioni importanti nella regolazione della trascrizione genica. Come vedremo nel Capitolo 7, altre sono
brevi regioni di DNA distribuite in tutto il genoma che legano direttamente proteine coinvolte nella regolazione genica. Ma non è chiaro quanto del
DNA non codificante conservato possa essere spiegato in questo modo, e la
funzione di gran parte di esso resta un mistero. Questo enigma mette in luce
(C)
5 cm
Figura 4.72 L’uomo di
Neanderthal. (A) Una cartina
dell’Europa che mostra la posizione
della caverna in Croazia dove è stata
scoperta la maggior parte delle ossa
utilizzate per isolare il DNA impiegato
per derivare la sequenza del genoma
dell’uomo di Neanderthal.
(B) Fotografia della caverna di Vindija.
(C) Fotografia delle ossa di 38 000
anni fa trovate a Vindija. Studi
più recenti sono riusciti a estrarre
l’informazione della sequenza di DNA
da resti di ominidi molto più antichi
(vedi Filmato 8.3). (B, per gentile
concessione di Johannes Krause; C,
da R.E. Green et al., Science 328: 710722, 2010. Con il permesso di AAAS.)
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gene umano del CFTR
(regolatore della conduttanza transmembrana della fibrosi cistica)
190 000 coppie di nucleotidi
5′
3′
introne esone
sequenze conservate in molte specie
100%
50%
scimpanzé
orangutan
babbuino
scimmia
marmorizzata
lemure
coniglio
identità
%
cavallo
gatto
cane
topo
opossum
pollo
100%
50%
Fugu
100 coppie di nucleotidi
10 000 coppie di nucleotidi
Figura 4.73 L’individuazione di
sequenze conservate in molte
specie. In questo esempio le
sequenze dei genomi di ciascuno
degli organismi mostrati sono state
confrontate con la regione indicata
del gene umano del CFTR (cystic
fibrosis transmembrane conductance
regulator, regolatore di conduttanza
trasmembrana della fibrosi cistica);
questa regione contiene un esone più
una grande quantità di DNA intronico.
Per ciascun organismo la percentuale
di identità con l’uomo per ogni blocco
di 25 nucleotidi è riportata in verde.
Inoltre è stato usato un algoritmo
computazionale per rilevare le
sequenze all’interno di questa regione
che sono più altamente conservate
quando si tengono in considerazione
le sequenze di tutti gli organismi. Oltre
all’esone (blu scuro, sopra alla linea
in cima alla figura), sono mostrati
anche altri tre blocchi di sequenze
conservate in molte specie (azzurro).
La funzione della maggior parte di
queste sequenze nel genoma umano
non è nota. (Per gentile concessione di
Eric D. Green.)
quanto ci sia ancora da imparare riguardo i meccanismi biologici fondamentali che operano negli animali e negli altri organismi complessi, e la sua soluzione avrà senz’altro conseguenze profonde per la medicina.
In che modo i biologi cellulari possono affrontare il mistero del DNA non
codificante conservato? Tradizionalmente i tentativi per determinare la funzione di una sequenza di DNA iniziano con l’osservare le conseguenze della sua distruzione per via sperimentale, ma molte sequenze di DNA che sono
cruciali per la vita allo stato selvaggio di un organismo potrebbero non avere
alcun effetto osservabile sul suo fenotipo in condizioni di laboratorio: quello che è necessario a un topo per sopravvivere in una gabbia da laboratorio è
molto meno di quello che gli è necessario per riuscirci in natura. Inoltre, calcoli fatti basandosi sulla genetica delle popolazioni rivelano che è sufficiente
un piccolo vantaggio selettivo – meno dello 0,1% di differenza nella sopravvivenza – per favorire fortemente il mantenimento di una particolare sequenza
di DNA su scale temporali di tipo evolutivo. Non ci si deve perciò sorprendere nel rilevare che tante sequenze di DNA ultraconservate possono essere
tolte dal genoma del topo senza alcun effetto evidente sul topo da laboratorio.
Un secondo approccio importante per scoprire la funzione di una sequenza di DNA non codificante misteriosa utilizza tecniche biochimiche per identificare proteine o molecole di RNA che si legano a esse e/o a ogni molecola di RNA prodotta. Molti di questi obiettivi sono ancora da affrontare, ma i
primi passi sono stati fatti (vedi p. 457).
■ Cambiamenti in sequenze precedentemente conservate
possono aiutare a decifrare passaggi cruciali dellÕevoluzione
Data l’informazione della sequenza genomica, possiamo affrontare un’altra
affascinante domanda: quali alterazioni nel nostro DNA hanno reso gli esseri
umani così diversi dagli altri animali o, comunque, che cosa rende ogni singo-
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la specie così diversa dalle sue specie parenti? Per esempio, non appena sono
diventate disponibili la sequenza umana e quella dello scimpanzé, gli studiosi
hanno iniziato a cercare cambiamenti di sequenza di DNA che potessero spiegare le sorprendenti differenze fra gli esseri umani e gli scimpanzé. Con 3,2
miliardi di coppie di nucleotidi da confrontare nelle due specie ciò potrebbe sembrare un’impresa impossibile, ma il lavoro è stato reso molto più facile
limitando la ricerca alle 35 000 sequenze conservate in molte specie chiaramente definite (un totale di circa 5 milioni di coppie di nucleotidi), che rappresentano parti del genoma che con tutta probabilità sono funzionalmente
importanti. Sebbene queste sequenze siano fortemente conservate, la conservazione non è tuttavia perfetta e, quando la versione di una specie viene confrontata con quella di un’altra, generalmente si scopre che si sono allontanate di poco in relazione semplicemente al tempo trascorso dall’ultimo antenato comune. In una piccola parte di casi si vedono però segni di uno scatto
evolutivo improvviso. Per esempio, si rileva che alcune sequenze di DNA che
sono state altamente conservate in altre specie di mammiferi sono cambiate
con eccezionale rapidità durante i sei milioni di anni di evoluzione umana dal
momento in cui ci siamo separati dagli scimpanzé. Si pensa che queste regioni umane accelerate (HAR) riflettano funzioni che sono state particolarmente
importanti nel renderci diversi in qualche modo utile.
In uno studio sono stati identificati circa 50 di questi siti, un quarto dei
quali si trova vicino a geni associati allo sviluppo neurale. La sequenza che
mostra il cambiamento più rapido (18 cambiamenti fra uomo e scimpanzé, in
confronto a due soli cambiamenti fra scimpanzé e pollo) è stata ulteriormente esaminata. Si è trovato che la sequenza codifica una molecola di RNA non
codificante lunga 118 nucleotidi, HAR1F (human accelerated region 1F), che
viene prodotta nella corteccia cerebrale umana in un momento decisivo dello sviluppo del cervello. Sebbene la funzione di questo RNA HAR1F non sia
ancora nota, questa scoperta affascinante sta stimolando studi ulteriori che si
spera getteranno luce su aspetti cruciali del cervello umano.
Un approccio correlato nella ricerca di quelle mutazioni importanti che
hanno contribuito all’evoluzione umana in modo simile inizia con sequenze di DNA che sono state conservate durante l’evoluzione dei mammiferi e,
anziché andare alla ricerca di cambiamenti accelerati in singoli nucleotidi, si
concentra invece su regioni cromosomiche che hanno subito delezioni nei 6
milioni di anni che ci separano dalla divisione della nostra linea da quella degli scimpanzé. Sono state scoperte più di 500 di queste sequenze, conservate tra le altre specie ma assenti nell’uomo. Ogni delezione rimuove in media
95 nucleotidi di sequenza di DNA. Solo una di queste delezioni riguarda una
regione che codifica proteine; si ritiene che le rimanenti alterino regioni che
influiscono sull’espressione dei geni circostanti, un’ipotesi che è stata confermata sperimentalmente in alcuni casi. Gran parte delle presunte regioni regolatrici identificate in questa maniera si trova vicino a geni che agiscono sulla
funzione neurale e/o vicino a geni coinvolti nella segnalazione da steroidi, suggerendo che cambiamenti nel sistema nervoso e nelle funzioni immunitarie o
riproduttive abbiano svolto un ruolo molto importante nell’evoluzione umana.
■ Mutazioni nelle sequenze di DNA che controllano
l’espressione genica hanno determinato molti
dei cambiamenti evolutivi nei vertebrati
L’enorme quantità di dati sulle sequenze genomiche accumulata finora può
essere esplorata in tanti altri modi per rivelare eventi accaduti anche centinaia
di milioni di anni fa. Per esempio, si può cercare di scoprire le origini degli
elementi regolatori del DNA che hanno svolto un ruolo cruciale nell’evoluzione dei vertebrati. Un tale studio è iniziato con l’identificazione di quasi 3
milioni di sequenze non codificanti, lunghe in media 28 coppie di basi, che sono state conservate nella recente evoluzione dei vertebrati e che, invece, sono
assenti in antenati più antichi. Ognuna di queste speciali sequenze non codificanti probabilmente rappresenta un’innovazione funzionale peculiare di un
particolare ramo dell’albero filogenetico della famiglia dei vertebrati e si pensa
che per la maggior parte esse siano costituite da DNA regolatore che control-
4 DNA, cromosomi e genomi
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CAPITOLO
4 DNA, cromosomi e genomi
238
Figura 4.74 È stato dedotto
che i tipi di cambiamento nella
regolazione genica hanno
predominato durante l’evoluzione
dei nostri antenati vertebrati. Per
ottenere l’informazione riassunta
in questo grafico, tutte le volte
che è stato possibile il tipo di gene
regolato da ciascuna sequenza non
codificante conservata è stato dedotto
dall’identità del gene che codifica
proteine a esso più vicino. Quindi per
ottenere le conclusioni mostrate è
stato usato il tempo di fissazione per
ogni sequenza conservata. (Basata su
C.B. Lowe et al., Science 33:10191024, 2011. Con il permesso di
AAAS.)
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ricezione di segnali
extracellulari
UOMO
TOPO
MUCCA
ORNITORINCO
POLLO
RANA
sviluppo
e regolazione
trascrizionale
PESCE
modificazione
post-traduzionale
di proteine
500
400
300
200
milioni di anni fa
100
0
la l’espressione dei geni vicini. Date le sequenze di interi genomi, si possono
identificare i geni che sono più vicini e che quindi più probabilmente sono
divenuti soggetti al controllo di questi nuovi elementi regolatori. Comparando molte specie diverse, i cui tempi di divergenza sono noti, si può anche stimare quando ognuno di questi elementi regolatori è diventato una caratteristica conservata. Queste scoperte suggeriscono notevoli differenze evolutive
tra le varie classi funzionali di geni (Figura 4.74). Elementi regolatori conservati che hanno avuto origine all’inizio dell’evoluzione dei vertebrati – cioè
più di circa 300 milioni di anni fa, quando la linea dei mammiferi si è divisa
dalla linea che ha portato a uccelli e rettili – sembrano essere prevalentemente
associati a geni che codificano proteine regolatrici della trascrizione e proteine con ruoli nell’organizzazione dello sviluppo embrionale. Successivamente
c’è stata un’era in cui le innovazioni riguardo il DNA regolatore sono sorte
vicino a geni che codificano recettori che mediano segnali extracellulari. Infine, durante gli ultimi 100 milioni di anni, le innovazioni regolatrici sembrano essersi concentrate nelle vicinanze di geni codificanti proteine che, come
le proteina chinasi, operano modificazioni post-traduzionali su altre proteine.
Molte domande riguardo questi fenomeni e il loro significato rimangono
senza risposta. Una possibile spiegazione è che la logica – lo schema del circuito – della rete di geni regolatori nei vertebrati si sia stabilita precocemente
e che cambiamenti evolutivi più recenti siano avvenuti principalmente mediante l’aggiustamento di parametri quantitativi. Questo potrebbe aiutare a
spiegare, per esempio, perché tra i mammiferi lo schema corporeo di base, cioè
la topologia di tessuti e organi, sia largamente conservato.
■ La duplicazione genica fornisce una fonte importante
di novitˆ genetica durante lÕevoluzione
L’evoluzione dipende dalla creazione di nuovi geni, oltre che dalla modificazione di quelli che già esistono. In che modo ciò può avvenire? Quando confrontiamo organismi che sembrano molto diversi – un primate con un roditore, per esempio, o un topo con un pesce – raramente incontriamo geni in una
specie che non hanno omologhi nell’altra. I geni senza corrispondenti omologhi sono relativamente rari quando confrontiamo organismi così divergenti come un mammifero e un verme. D’altra parte, spesso troviamo famiglie di geni
che hanno numeri diversi di membri in specie differenti. Per creare queste famiglie i geni sono stati ripetutamente duplicati e le copie hanno subìto una divergenza per assumere nuove funzioni che spesso variano da una specie all’altra.
La duplicazione genica avviene con alta frequenza in tutte le linee evolutive, contribuendo al vigoroso processo di aggiunta di DNA esaminato in
precedenza. In uno studio dettagliato sulle duplicazioni spontanee nel lievito,
sono state osservate comunemente duplicazioni di 50 000-250 000 coppie di
nucleotidi, la maggior parte delle quali erano ripetute in tandem. Queste ripetizioni sembravano dovute a errori di replicazione del DNA che avevano por-
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tato alla riparazione non esatta di rotture cromosomiche a doppio filamento.
Un confronto dei genomi di uomo e scimpanzé rivela che, dal momento della divergenza fra questi due organismi, duplicazioni segmentali hanno aggiunto
circa 5 milioni di coppie di nucleotidi a ciascun genoma ogni milione di anni,
con una media di dimensioni delle duplicazioni intorno a 50 000 coppie di
nucleotidi (tuttavia ci sono duplicazioni cinque volte più grandi). In effetti, se
si contano i nucleotidi, gli eventi di duplicazione hanno creato più differenze
fra le nostre due specie delle sostituzioni di singoli nucleotidi.
■ I geni duplicati divergono
Qual è il destino dei geni appena duplicati? Nella maggior parte dei casi si
presume che non ci sia praticamente selezione – almeno inizialmente – per
mantenere lo stato duplicato poiché ciascuna copia può fornire una funzione equivalente. Quindi molti eventi di duplicazione sono probabilmente seguiti da mutazioni che portano alla perdita di funzione in uno dei due geni.
Questo ciclo ripristinerebbe funzionalmente lo stato a un solo gene che precedeva la duplicazione. In effetti ci sono molti esempi nei genomi contemporanei in cui si può vedere che una copia di un gene duplicato è stata inattivata irreversibilmente da mutazioni multiple. Con il passare del tempo ci si
aspetterebbe che la somiglianza di sequenza fra un tale pseudogene e il gene
funzionale dalla cui duplicazione è stato prodotto venga erosa dall’accumulo di molte mutazioni nello pseudogene, diventando alla fine irriconoscibile.
Un destino alternativo per le duplicazioni geniche è che entrambe le copie restino funzionali, mentre la loro sequenza e il loro schema di espressione
divergono e assumono ruoli diversi. Questo processo di “duplicazione e divergenza” quasi certamente spiega la presenza di grandi famiglie di geni con
funzioni correlate negli organismi biologicamente complessi e si pensa che
abbia un ruolo cruciale nell’evoluzione di un’aumentata complessità biologica. Un esame di molti genomi eucariotici diversi suggerisce che la probabilità che un gene particolare subisca un evento di duplicazione che si diffonde nella maggior parte o in tutti gli individui di una specie è approssimativamente dell’1% ogni milione di anni.
Duplicazioni dell’intero genoma offrono esempi particolarmente evidenti del ciclo di duplicazione-divergenza. Una duplicazione di un intero genoma può avvenire molto semplicemente: tutto ciò che è necessario è un ciclo
di replicazione del genoma in una linea di cellule germinali senza una corrispondente divisione cellulare. All’inizio il numero dei cromosomi semplicemente raddoppia. Questi aumenti improvvisi della ploidia di un organismo
sono comuni, specialmente nei funghi e nei vegetali. Dopo una duplicazione dell’intero genoma, tutti i geni sono copie duplicate.Tuttavia, a meno che
la duplicazione non sia avvenuta così di recente da aver lasciato poco tempo
per alterazioni successive nella struttura del genoma, i risultati di una serie di
duplicazioni segmentali – che avvengono in tempi diversi – sono molto difficili da distinguere dal prodotto finale di una duplicazione dell’intero genoma. Nel caso dei mammiferi, per esempio, la parte rappresentata dalle duplicazioni dell’intero genoma a fronte di quella dovuta a una serie di duplicazioni di pezzi di segmenti di DNA è molto incerta. Nonostante ciò, è chiaro che
nel lontano passato è avvenuta una grande quantità di duplicazioni geniche.
L’analisi del genoma dello zebrafish, in cui almeno una duplicazione
dell’intero genoma si pensa sia avvenuta centinaia di milioni di anni fa, ha
gettato un po’ di luce sul processo di duplicazione genica e divergenza. Sebbene sembri che molti duplicati dei geni dello zebrafish siano andati perduti
per mutazione, una frazione significativa – forse fino al 30-50% – ha subìto una
divergenza funzionale mentre entrambe le copie sono rimaste attive. In molti
casi la differenza f
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